L’evoluzione degli astrociti dagli invertebrati ai vertebrati: intervista alla Dr.ssa Carmen Falcone
Per la rubrica “L’evoluzione non ha genere” abbiamo intervistato la ricercatrice Carmen Falcone della SISSA di Trieste. Tra i temi toccati: i moderni science center, la comunicazione della scienza, le materie STEM e la neurobiologia.
Che cosa rende il cervello dei primati capace di funzioni avanzate? Carmen Falcone, 33 anni, nata a Nocera Inferiore (SA) e triestina d’adozione, sta lavorando per trovare risposte. Dopo alcuni anni all’Università della California a Davis, è ritornata a Trieste come group leader grazie all’Early Career Fellowship Programme (ECF) di Human Technopole. Grazie al programma ECF, sta sviluppando il suo progetto presso la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) con un approccio multidisciplinare e interdisciplinare per indagare il ruolo di un particolare tipo di cellule gliali nelle funzioni cerebrali avanzate. Per la rubrica L’evoluzione non ha genere ha genere abbiamo chiesto alla scienziata di parlarci delle sue ricerche e del rapporto tra parità di genere e materie STEM.
Gli astrociti sono cellule del sistema nervoso centrale con numerosi prolungamenti a disposizione raggiata. La morfologia degli astrociti è molto complessa nei mammiferi, ma nei primati la situazione si complica ancora di più. Quali sono le principali difficoltà nello studio della storia evolutiva degli astrociti? Gli astrociti, cellule del cervello non elettricamente eccitabili, furono scoperti inizialmente da Rudolf Virchow (patologo tedesco, 1821-1902) e poi da Camillo Golgi (istologo e patologo, 1843-1926) verso la fine del XIX secolo. Comprendere lo sviluppo e l’evoluzione degli astrociti tra i mammiferi nonché il loro ruolo nella funzionalità neuronale è importante per capire la complessità della nostra corteccia e compararla con quella dei primati non umani. La principale difficoltà che affronto è indagare lo sviluppo degli astrociti in specie animali che non sono organismi modello perché, per gli studi che conduco, il classico modello animale conosciuto, cioè il topo, non è idoneo. Per capire la complessità degli astrociti non umani, bisogna avere accesso ai primati e ad organismi intermedi della radiazione evolutiva. Il nostro principale sforzo è quello di cercare cervelli da quanti più animali possibili (reperibili mediante la banca di cervelli post-mortem). Ma non è sempre semplice. Questo vale sia per studi morfologici sia di biologia molecolare su cervelli post-mortem. Per quanto riguarda studi funzionali, ossia studi in vivo o con cellule vive, è difficile reperire, per esempio, cellule staminali che si possano indirizzare verso una via differenziativa. Anche in quest’ultimo caso trovare cellule che non siano di uomo o di topo è difficile, come è difficile trovare altre persone che ci lavorino, o ricevere i permessi per poter fare ricerca (per esempio, per trasferire i tessuti). Nonostante le difficoltà di cui ci parla, ci saranno senz’altro domande aperte emergenti. Quali sono, a suo avviso, le principali? Una delle domande a cui stiamo tentando di rispondere è se esistano e quali siano le funzioni specifiche degli astrociti dei primati rispetto a quelli dei non primati. Gli astrociti sono stati studiati principalmente nei mammiferi, ma sappiamo che anche altri vertebrati hanno qualcosa di simile. Nei mammiferi c’è una grande variabilità e la morfologia è molto diversa. Si potrebbe supporre che una morfologia più complessa voglia dire funzioni più complesse o comunque diverse nei primati rispetto ai non primati. Questo porta ad un’altra domanda: cosa ci rende speciali? Questo mi porta a chiederle se la comparsa di specifiche abilità cognitive nell’uomo e nei primati non umani possa essere avvenuta parallelamente all’evoluzione degli astrociti. Crescenti evidenze scientifiche mi consentono di pensare che la complessità del cervello dei primati non si possa spiegare guardando solo i neuroni. Puntando la lente solo sui neuroni, decenni di ricerche non hanno dato risposte esaustive alle domande della comunità scientifica. Quindi, ci si sta focalizzando anche sulle cellule gliali, ossia quelle cellule che, insieme ai neuroni, compongono il sistema nervoso. Tra queste vi sono anche gli astrociti. Infatti, regolando la connettività dei neuroni, gli astrociti hanno un potenziale diretto e specifico per definirne anche la funzionalità. Probabilmente, quest’ultimo aspetto potrebbe spiegare la maggiore interconnessione nel cervello dei primati rispetto a quello dei non primati. Per esempio, è noto che i primati siano capaci di ‘impacchettare’ più neuroni nel loro cervello. Se ci sia o meno un legame tra il maggior numero di neuroni e la crescente complessità degli astrociti, questo ancora non lo so. Forse, avere astrociti più complessi potrebbe aver favorito la presenza di più neuroni e una loro maggiore connettività. L’ipotesi alla base è che gli astrociti si siano co-evoluti per dare una complessità maggiore al cervello dei primati. Se gli astrociti sono attori così importanti nel panorama neurobiologico, non le sembra che, invece, in ambito neuropatologico si sia spesso ‘neuronicentrici’? Gli astrociti potrebbero avere un ruolo nella diagnosi e nella terapia di stati patologici, per esempio le malattie neurodegenerative, infiammatorie, tumorali? È vero, ma per fortuna anche la patologia sta guardando oltre i neuroni. È noto che la neuroinfiammazione sia regolata da cellule della glia (cellule della microglia, n.d.a.). Comprendere la co-evoluzione degli astrociti e dei neuroni nei primati è importante non solo per fini filogenetici, ma anche per evidenziare aspetti chiave delle patologie umane astrocitarie e non. A mio avviso credo sia questo il futuro della neuropatologia, soprattutto alla luce delle terapie che non hanno funzionato negli ultimi decenni. Passiamo ad un altro argomento chiave della rubrica “L’evoluzione non ha genere”: la parità di genere e le materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Esse costituiscono un insieme chiave di competenze che sono fondamentali per la comprensione di numerosi meccanismi alla base della vita civica e sociale moderna. L’11 febbraio si è celebrata in tutto il mondo la Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza istituita dall’ONU nel 2015. Partecipa o ha partecipato ad eventi “women in stem”? La giornata, a suo avviso, mette davvero in risalto il lavoro, spesso sottovalutato, delle donne nella scienza? Durante gli anni di dottorato a Trieste, ho partecipato ad interviste o ad attività rivolte a bambine e ragazze, mentre negli USA, a Davis, ho fatto attività di outreach per l’infanzia. Per quanto riguarda la giornata in sé, è giusto che ci sia perché rappresenta un simbolo. È uno spunto interessante, per esempio, per insegnanti e educatori: le giovani studentesse, dubbiose nei riguardi di una carriera scientifica, potrebbero trovare ispirazione e rendersi conto che la passione, la fiducia in sé stesse, gli sforzi per realizzare ciò che si desidera conducono ad un cammino profondamente soddisfacente, sebbene non sia semplice. L’11 febbraio può sensibilizzare la società tutta sul ruolo delle donne nella scienza, ma non ci si può limitare a quella giornata. Personalmente, l’11 febbraio, è il momento in cui ringrazio pubblicamente, mediante Twitter, le mie collaboratrici e le mie mentori. Ma, ripeto, non è sufficiente soffermarsi solo su quella giornata. Credo sia molto efficace e ambizioso portare avanti la nuova rubrica di Pikaia “l’evoluzione non ha genere”: si tratta di un progetto che, con il tempo, darà una visibilità paritaria delle donne nelle STEM. E proprio in ambito STEM lei è cresciuta personalmente e professionalmente, imparando che la scienza è internazionale, si basa sul dialogo, sullo scambio di idee e competenze. Si sente parlare spesso degli italiani che vanno all’estero, ma gli stranieri che scelgono l’Italia non sono numerosi perché si trovano a combattere contro la pesante burocrazia universitaria e la difficoltà a insegnare direttamente in lingua inglese. È un’opportunità che non dovremmo lasciarci sfuggire. Sono d’accordo. Sarebbe utile che sempre più percorsi, soprattutto le lauree magistrali, siano in inglese per favorire l’arrivo di esperti dall’estero. Credo sia importante tanto che gli italiani facciano esperienza all’estero quanto che accademici stranieri arricchiscano il nostro Paese. Nel corso della sua carriera come “women in stem”, si è dedicata alla comunicazione scientifica? Quale pubblico, tra bambini, ragazzi, e adulti è più difficile da coinvolgere o più incredulo nei confronti del metodo della scienza? Mi piace molto lavorare con i bambini delle scuole primarie e secondarie di primo grado: fanno osservazioni e domande a cui gli adulti neanche pensano. Ragionano fuori dagli schemi, sono in grado di avere un’elasticità mentale che consente loro di capire più rapidamente e meglio il metodo scientifico. Ammetto che far comprendere ai bambini e ai ragazzi come opera la scienza e in che cosa consiste la ricerca scientifica non è poi così difficile. Sarebbe auspicabile che, parallelamente alla scuola, vi sia anche una minima educazione famigliare sul tema: in base a questa, può manifestarsi un clima di diffidenza nei confronti della scienza oppure, con il tempo, la mentalità scientifica. In base alla mia esperienza, gli adulti che partecipano ad eventi scientifici sono persone già interessate alla scienza: si mostrano appassionate, leggono di scienza, pongono domande. Eppure, non sono mancati incontri con persone ‘digiune’ di scienza, in cui ho avuto difficoltà nel veicolare messaggi su temi complessi, come la sperimentazione animale. Gli eventi organizzati a tema scientifico sono più facili da gestire perché gli adulti partecipanti sono più “allenati”. Comunque, le parole giuste, il ragionamento, un linguaggio fruibile riescono a far recepire il messaggio, anche quando si tratta di temi delicati. Forse un modo per far appassionare ai temi della scienza bambini, ragazzi, e adulti è la visita ad un museo scientifico. Sappiamo, infatti, che lei ha una passione per i musei di storia naturale. Il concetto moderno di museo scientifico deriva dalla wunderkammer, la cosiddetta “camera delle meraviglie”, destinata a raccogliere esemplari rari o bizzarri di storia naturale o artefatti. Sebbene il museo scientifico moderno sia sempre più un science center, che rende possibile anche progetti di citizen science, alla base vi è sempre quell’interesse per il ‘meraviglioso’ unito al bisogno di conoscenza sistematica. Quale science center consiglia? Il Museo Civico di Storia Naturale di Trieste offre molto per ragazze e ragazzi, bambine e bambini. È tra i musei di storia naturale più antichi d’Italia (1846): c’è il dinosauro Antonio; la mandibola umana di oltre 6.400 anni; Carlotta, lo squalo bianco catturato all’inizio del Novecento al nord della Croazia; una grande quantità di fossili e animali impagliati. È ben organizzato, ha uno stile classico con un tocco moderno, descrizioni approfondite, sale a tema interessanti. Un altro museo, questa volta internazionale, degno di nota per dimensioni, ma non per qualità di reperti o contenuti, è il Field Museum of Natural History di Chicago. L’esposizione ripercorre la storia dell’evoluzione: c’è il racconto, la progressione temporale e tutti gli aspetti fondamentali della nostra storia evolutiva.
Con quale spirito si appresta a visitare museo di storia naturale e cosa cerca in esso? La visita ad un museo di storia naturale o a un moderno science center accresce in me l’interesse per la scienza: ricerco un’esperienza di immersione. Non si tratta solo di ricevere informazioni, ma di immergersi pienamente in un processo di apprendimento esperienziale. Ciò non significa che il taglio storico e le collezioni non siano interessanti, ma cerco anche realtà museali che presentino principi scientifici “puri” attraverso la realizzazione di exhibit interattivi (aspetto ancora più interessante se si ha una figlia piccola). Personalmente, restano, di base, la meraviglia e la curiosità. L’incontro con la Dr.ssa Carmen Falcone ha posto l’attenzione sugli astrociti umani e non solo. Essi mostrano caratteristiche anatomiche specifiche, un corpo cellulare grande, prolungamenti cellulari complessi e lunghi, profili molecolari peculiari che consentono loro di svolgere numerose funzioni. Nel corso dei decenni si è arricchito l’elenco delle funzioni svolte dagli astrociti all’interno del sistema nervoso centrale. Limitarsi alla loro funzione di sostegno e supporto dei neuroni è riduttivo. Questo particolare tipo di cellula gliale è, infatti, coinvolto nell’omeostasi dell’acqua; nello scambio di nutrienti con la barriera emato-encefalica; nello sviluppo, nella regolazione e nella plasticità della connettività neuronale. Le domande aperte sono ancora molte. Per approfondire:
Gli astrociti sono cellule del sistema nervoso centrale con numerosi prolungamenti a disposizione raggiata. La morfologia degli astrociti è molto complessa nei mammiferi, ma nei primati la situazione si complica ancora di più. Quali sono le principali difficoltà nello studio della storia evolutiva degli astrociti? Gli astrociti, cellule del cervello non elettricamente eccitabili, furono scoperti inizialmente da Rudolf Virchow (patologo tedesco, 1821-1902) e poi da Camillo Golgi (istologo e patologo, 1843-1926) verso la fine del XIX secolo. Comprendere lo sviluppo e l’evoluzione degli astrociti tra i mammiferi nonché il loro ruolo nella funzionalità neuronale è importante per capire la complessità della nostra corteccia e compararla con quella dei primati non umani. La principale difficoltà che affronto è indagare lo sviluppo degli astrociti in specie animali che non sono organismi modello perché, per gli studi che conduco, il classico modello animale conosciuto, cioè il topo, non è idoneo. Per capire la complessità degli astrociti non umani, bisogna avere accesso ai primati e ad organismi intermedi della radiazione evolutiva. Il nostro principale sforzo è quello di cercare cervelli da quanti più animali possibili (reperibili mediante la banca di cervelli post-mortem). Ma non è sempre semplice. Questo vale sia per studi morfologici sia di biologia molecolare su cervelli post-mortem. Per quanto riguarda studi funzionali, ossia studi in vivo o con cellule vive, è difficile reperire, per esempio, cellule staminali che si possano indirizzare verso una via differenziativa. Anche in quest’ultimo caso trovare cellule che non siano di uomo o di topo è difficile, come è difficile trovare altre persone che ci lavorino, o ricevere i permessi per poter fare ricerca (per esempio, per trasferire i tessuti). Nonostante le difficoltà di cui ci parla, ci saranno senz’altro domande aperte emergenti. Quali sono, a suo avviso, le principali? Una delle domande a cui stiamo tentando di rispondere è se esistano e quali siano le funzioni specifiche degli astrociti dei primati rispetto a quelli dei non primati. Gli astrociti sono stati studiati principalmente nei mammiferi, ma sappiamo che anche altri vertebrati hanno qualcosa di simile. Nei mammiferi c’è una grande variabilità e la morfologia è molto diversa. Si potrebbe supporre che una morfologia più complessa voglia dire funzioni più complesse o comunque diverse nei primati rispetto ai non primati. Questo porta ad un’altra domanda: cosa ci rende speciali? Questo mi porta a chiederle se la comparsa di specifiche abilità cognitive nell’uomo e nei primati non umani possa essere avvenuta parallelamente all’evoluzione degli astrociti. Crescenti evidenze scientifiche mi consentono di pensare che la complessità del cervello dei primati non si possa spiegare guardando solo i neuroni. Puntando la lente solo sui neuroni, decenni di ricerche non hanno dato risposte esaustive alle domande della comunità scientifica. Quindi, ci si sta focalizzando anche sulle cellule gliali, ossia quelle cellule che, insieme ai neuroni, compongono il sistema nervoso. Tra queste vi sono anche gli astrociti. Infatti, regolando la connettività dei neuroni, gli astrociti hanno un potenziale diretto e specifico per definirne anche la funzionalità. Probabilmente, quest’ultimo aspetto potrebbe spiegare la maggiore interconnessione nel cervello dei primati rispetto a quello dei non primati. Per esempio, è noto che i primati siano capaci di ‘impacchettare’ più neuroni nel loro cervello. Se ci sia o meno un legame tra il maggior numero di neuroni e la crescente complessità degli astrociti, questo ancora non lo so. Forse, avere astrociti più complessi potrebbe aver favorito la presenza di più neuroni e una loro maggiore connettività. L’ipotesi alla base è che gli astrociti si siano co-evoluti per dare una complessità maggiore al cervello dei primati. Se gli astrociti sono attori così importanti nel panorama neurobiologico, non le sembra che, invece, in ambito neuropatologico si sia spesso ‘neuronicentrici’? Gli astrociti potrebbero avere un ruolo nella diagnosi e nella terapia di stati patologici, per esempio le malattie neurodegenerative, infiammatorie, tumorali? È vero, ma per fortuna anche la patologia sta guardando oltre i neuroni. È noto che la neuroinfiammazione sia regolata da cellule della glia (cellule della microglia, n.d.a.). Comprendere la co-evoluzione degli astrociti e dei neuroni nei primati è importante non solo per fini filogenetici, ma anche per evidenziare aspetti chiave delle patologie umane astrocitarie e non. A mio avviso credo sia questo il futuro della neuropatologia, soprattutto alla luce delle terapie che non hanno funzionato negli ultimi decenni. Passiamo ad un altro argomento chiave della rubrica “L’evoluzione non ha genere”: la parità di genere e le materie STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics). Esse costituiscono un insieme chiave di competenze che sono fondamentali per la comprensione di numerosi meccanismi alla base della vita civica e sociale moderna. L’11 febbraio si è celebrata in tutto il mondo la Giornata Internazionale per le donne e le ragazze nella scienza istituita dall’ONU nel 2015. Partecipa o ha partecipato ad eventi “women in stem”? La giornata, a suo avviso, mette davvero in risalto il lavoro, spesso sottovalutato, delle donne nella scienza? Durante gli anni di dottorato a Trieste, ho partecipato ad interviste o ad attività rivolte a bambine e ragazze, mentre negli USA, a Davis, ho fatto attività di outreach per l’infanzia. Per quanto riguarda la giornata in sé, è giusto che ci sia perché rappresenta un simbolo. È uno spunto interessante, per esempio, per insegnanti e educatori: le giovani studentesse, dubbiose nei riguardi di una carriera scientifica, potrebbero trovare ispirazione e rendersi conto che la passione, la fiducia in sé stesse, gli sforzi per realizzare ciò che si desidera conducono ad un cammino profondamente soddisfacente, sebbene non sia semplice. L’11 febbraio può sensibilizzare la società tutta sul ruolo delle donne nella scienza, ma non ci si può limitare a quella giornata. Personalmente, l’11 febbraio, è il momento in cui ringrazio pubblicamente, mediante Twitter, le mie collaboratrici e le mie mentori. Ma, ripeto, non è sufficiente soffermarsi solo su quella giornata. Credo sia molto efficace e ambizioso portare avanti la nuova rubrica di Pikaia “l’evoluzione non ha genere”: si tratta di un progetto che, con il tempo, darà una visibilità paritaria delle donne nelle STEM. E proprio in ambito STEM lei è cresciuta personalmente e professionalmente, imparando che la scienza è internazionale, si basa sul dialogo, sullo scambio di idee e competenze. Si sente parlare spesso degli italiani che vanno all’estero, ma gli stranieri che scelgono l’Italia non sono numerosi perché si trovano a combattere contro la pesante burocrazia universitaria e la difficoltà a insegnare direttamente in lingua inglese. È un’opportunità che non dovremmo lasciarci sfuggire. Sono d’accordo. Sarebbe utile che sempre più percorsi, soprattutto le lauree magistrali, siano in inglese per favorire l’arrivo di esperti dall’estero. Credo sia importante tanto che gli italiani facciano esperienza all’estero quanto che accademici stranieri arricchiscano il nostro Paese. Nel corso della sua carriera come “women in stem”, si è dedicata alla comunicazione scientifica? Quale pubblico, tra bambini, ragazzi, e adulti è più difficile da coinvolgere o più incredulo nei confronti del metodo della scienza? Mi piace molto lavorare con i bambini delle scuole primarie e secondarie di primo grado: fanno osservazioni e domande a cui gli adulti neanche pensano. Ragionano fuori dagli schemi, sono in grado di avere un’elasticità mentale che consente loro di capire più rapidamente e meglio il metodo scientifico. Ammetto che far comprendere ai bambini e ai ragazzi come opera la scienza e in che cosa consiste la ricerca scientifica non è poi così difficile. Sarebbe auspicabile che, parallelamente alla scuola, vi sia anche una minima educazione famigliare sul tema: in base a questa, può manifestarsi un clima di diffidenza nei confronti della scienza oppure, con il tempo, la mentalità scientifica. In base alla mia esperienza, gli adulti che partecipano ad eventi scientifici sono persone già interessate alla scienza: si mostrano appassionate, leggono di scienza, pongono domande. Eppure, non sono mancati incontri con persone ‘digiune’ di scienza, in cui ho avuto difficoltà nel veicolare messaggi su temi complessi, come la sperimentazione animale. Gli eventi organizzati a tema scientifico sono più facili da gestire perché gli adulti partecipanti sono più “allenati”. Comunque, le parole giuste, il ragionamento, un linguaggio fruibile riescono a far recepire il messaggio, anche quando si tratta di temi delicati. Forse un modo per far appassionare ai temi della scienza bambini, ragazzi, e adulti è la visita ad un museo scientifico. Sappiamo, infatti, che lei ha una passione per i musei di storia naturale. Il concetto moderno di museo scientifico deriva dalla wunderkammer, la cosiddetta “camera delle meraviglie”, destinata a raccogliere esemplari rari o bizzarri di storia naturale o artefatti. Sebbene il museo scientifico moderno sia sempre più un science center, che rende possibile anche progetti di citizen science, alla base vi è sempre quell’interesse per il ‘meraviglioso’ unito al bisogno di conoscenza sistematica. Quale science center consiglia? Il Museo Civico di Storia Naturale di Trieste offre molto per ragazze e ragazzi, bambine e bambini. È tra i musei di storia naturale più antichi d’Italia (1846): c’è il dinosauro Antonio; la mandibola umana di oltre 6.400 anni; Carlotta, lo squalo bianco catturato all’inizio del Novecento al nord della Croazia; una grande quantità di fossili e animali impagliati. È ben organizzato, ha uno stile classico con un tocco moderno, descrizioni approfondite, sale a tema interessanti. Un altro museo, questa volta internazionale, degno di nota per dimensioni, ma non per qualità di reperti o contenuti, è il Field Museum of Natural History di Chicago. L’esposizione ripercorre la storia dell’evoluzione: c’è il racconto, la progressione temporale e tutti gli aspetti fondamentali della nostra storia evolutiva.
Con quale spirito si appresta a visitare museo di storia naturale e cosa cerca in esso? La visita ad un museo di storia naturale o a un moderno science center accresce in me l’interesse per la scienza: ricerco un’esperienza di immersione. Non si tratta solo di ricevere informazioni, ma di immergersi pienamente in un processo di apprendimento esperienziale. Ciò non significa che il taglio storico e le collezioni non siano interessanti, ma cerco anche realtà museali che presentino principi scientifici “puri” attraverso la realizzazione di exhibit interattivi (aspetto ancora più interessante se si ha una figlia piccola). Personalmente, restano, di base, la meraviglia e la curiosità. L’incontro con la Dr.ssa Carmen Falcone ha posto l’attenzione sugli astrociti umani e non solo. Essi mostrano caratteristiche anatomiche specifiche, un corpo cellulare grande, prolungamenti cellulari complessi e lunghi, profili molecolari peculiari che consentono loro di svolgere numerose funzioni. Nel corso dei decenni si è arricchito l’elenco delle funzioni svolte dagli astrociti all’interno del sistema nervoso centrale. Limitarsi alla loro funzione di sostegno e supporto dei neuroni è riduttivo. Questo particolare tipo di cellula gliale è, infatti, coinvolto nell’omeostasi dell’acqua; nello scambio di nutrienti con la barriera emato-encefalica; nello sviluppo, nella regolazione e nella plasticità della connettività neuronale. Le domande aperte sono ancora molte. Per approfondire:
- Falcone, Carmen, et al. “Cortical interlaminar astrocytes across the therian mammal radiation.” Journal of comparative neurology, vol. 527, no. 10, 7 July 2019, p. 1654, doi:10.1002/cne.24605.
- Falcone, Carmen and Verónica Martínez-Cerdeño. “Astrocyte evolution and human specificity.” Neural Regeneration Research, vol. 18, no. 1, Jan. 2023, p. 131, doi:10.4103/1673-5374.340405.
- Falcone, Carmen. “Evolution of astrocytes: From invertebrates to vertebrates.” Frontiers in Cell and Developmental Biology, vol. 10, 15 Aug. 2022, doi:10.3389/fcell.2022.931311.
- Oberheim, Nancy Ann, et al. “Astrocytic complexity distinguishes the human brain.” Trends in neurosciences, vol. 29, no. 10, Oct. 2006, doi:10.1016/j.tins.2006.08.004.
- Carmen Falcone Lab
- Pagina personale di Carmen Falcone
Dopo la laurea magistrale in Neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2015, ho conseguito il Dottorato di ricerca in scienze biomediche sperimentali all’Università di Padova nel 2020. Da ottobre 2019 sono un’insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ad ottobre 2022 ho concluso il Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Parma, grazie al quale ho iniziato a collaborare con Pikaia.