L’uomo può discendere dalla scimmia

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Quanto giocano linguaggio “degenerato” e non “ascolto” nelle misconoscenze sull’evoluzione


Noi evoluzionisti sappiamo che “l’uomo discende dalla scimmia” è un’affermazione falsa e sappiamo perché. Darwin ha scritto nell’Origine dell’uomo: “… non dobbiamo cadere nell’errore di credere che il primitivo progenitore di tutto lo stipite delle scimmie, compreso l’uomo, fosse identico, o anche rassomigliasse molto, a qualunque scimmia che esista oggi.”

Quindi quella è una affermazione che proprio gli oppositori di Darwin gli attribuivano falsamente (l’Origine delle fake news?) per screditare la sua teoria. Ma allora perché la stragrande maggioranza degli italiani (non ho dati statistici da citare, ma sono sicuro che non mi smentirebbero) dimostra di, o confessa di, o (nel nuovo clima culturale in cui la scienza, o la cultura, sono roba da radical chic o addirittura armi usate contro il popolo) si vanta di non sapere nulla di evoluzione, ma la stragrande maggioranza di costoro però una cosa, una sola, sull’evoluzione la sa, ed è che “l’uomo discende dalla scimmia”. Evidentemente noi evoluzionisti abbiamo fallito come divulgatori e/o come insegnanti.

La mia convinzione è che il problema sta in due questioni strettamente intrecciate che riguardano il linguaggio. La prima sta nel “paradosso del divulgatore” (ne ho già scritto qui): dare per scontato nella comunicazione proprio ciò che essa dovrebbe far apprendere o comprendere. Un bambino o uno straniero da poco immigrato, diciamo un non-madrelingua, si trovano nelle condizioni di dover costruire un linguaggio per risolvere a un doppio problema: trovare il modo per esprimere a parole ciò che viene a conoscere del mondo attraverso l’esperienza diretta e capire attraverso la comunicazione di altri come è fatto e come funziona il mondo di cui non fa esperienza diretta. Sono convinto che, se fallisco come comunicatore scientifico e/o insegnante, è perché non “ascolto”, ovvero non mi decentro “nei panni di” questi soggetti, che sono gli interlocutori che dovrei assumere come standard.

La seconda questione sta nell’uso del linguaggio in cui viene implementato quel paradosso e che lo rende possibile, e più precisamente nella scarsa attenzione alla correttezza del linguaggio, alla sua adeguatezza a rappresentare la specificità delle idee che intendo comunicare (ne ho già scritto qui, qui e qui).

Voglio sostenere la tesi che l’uso di un linguaggio non degenerato è condizione necessaria (non sufficiente) per capire l’evoluzione, in generale la scienza, e ancor più in generale per capirsi nella comunicazione (uso il termine “degenerato” nel senso che gli si dà parlando del codice genetico).

Per gli interlocutori standard, bambini e non-madrelingua, la vita si complica enormemente se il linguaggio degenera, ovvero se i termini usati non hanno un significato stabile e un referente univoco, e se chi usa quel linguaggio dà per scontato che nella attuale comunicazione il termine assuma, tra i tanti diversi significati, uno solo, quello che lui ha in mente in quel momento. Lui può dare per scontato che quel particolare significato sia l’unico adeguato al contesto, ma può dare per scontato che il contesto sia condiviso con gli interlocutori? La risposta è no, se sta svolgendo le funzioni di divulgatore o di insegnante, che consistono nel comunicare ai non esperti proprio la specificità di un contesto, come quello della scienza, di una disciplina scientifica.

Rinnovando l’invito al lettore a mettersi nei panni di un bambino o di un non-madrelingua, torno al nostro esempio, anche per dimostrare che è un esempio pertinente. Che significa “discende”? Il significato (non il senso) fa riferimento a una direzione dello spazio, quella della gravità, univocamente resa visibile dal “filo a piombo”, oggetto di uso comune non per i docenti di fisica, ma da sempre per i muratori, tra cui un tempo era alta la percentuale di analfabetismo. “Discende” qualcosa che si nuove da una posizione più in alto a una più in basso.

Oggi il codice è talmente degenerato che accendendo la TV si può sentir ripetere con la massima noncuranza, senza cioè che si senta il bisogno di specificare il contesto specifico d’uso, che un movimento verso l’avanti in un piano orizzontale (lo si può direttamente osservare nel contesto in cui si svolge, ovvero una partita di calcio) viene designato come “salire”, “in verticale”, “verticalizzare”. La parola “degenerato” qui la uso anche nel senso comune, alludendo a un termine riferito a situazioni non solo diverse, ma semanticamente opposte, rispetto a quelle che da sempre hanno costituito il referente naturale e che permettevano a tutti di capire quando ci svoleva riferire alla direzione di caduta di qualunque oggetto pesante e quando invece al piano in cui si dispone la superficie libera dell’acqua.

Nel caso delle specie che cosa significa che la scimmia è “più in alto” dell’uomo? A prendere sul serio la lingua, assomiglia molto a dire che la scimmia è un animale “superiore” all’uomo: il riferimento all’asse alto-basso è lo stesso. Ma allora perché i bravi evoluzionisti spesso citano Darwin per dire che lui ha messo in discussione la convinzione, congelata nel linguaggio della sua epoca, che gli animali sono disposti in una scala di cui l’uomo occupa il gradino “superiore”? Qui invece si dice che l’uomo sta “sotto” la scimmia e dunque non si è forse dalla stessa parte di Darwin?

Di solito quel “discende” è collocato in un contesto di parentela e il bravo divulgatore, per farsi capire, mostra un albero genealogico (in rete si trovano quelli delle famiglie reali ma anche della famiglia dei paperi di Walt Disney). Lo fa perché così, già che c’è, introduce anche la metafora dell’”albero”. Ma sta guardando davvero l’immagine? Se la guardasse si accorgerebbe che, proprio per via della metafora dell’albero, che cresce da terra verso l’alto (quasi sempre in natura, sempre nell’iconografia), di solito i bisnonni stanno più in basso dei nonni che stanno più in basso dei genitori ecc. Dunque: o io discendo da qualcuno che sta più in basso, oppure mio bisnonno discende da me.

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Ma poi che c’entra questo con le scimmie? Il bravo divulgatore a questo punto usa l’“albero genealogico” per spiegare un’altra cosa ancora, che è l’ “albero filogenetico”. È evidente che sta proponendo un’analogia in cui, al posto degli individui, sui rami dell’albero ci sono intere specie. Sta dunque usando l’albero genealogico come metafora per far comprendere cos’è un albero filogenetico. Ora, nel contesto della pragmatica della comunicazione, una metafora viene usata per far comprendere un oggetto meno noto ponendolo in analogia con uno noto e più familiare. In questo caso l’albero genealogico non sembra avere questa caratteristica e abbiamo appena visto che contiene una grave contraddizione a livello semantico, tutti aspetti che lo rendono poco affidabile come ancoraggio della metafora.

Ma si tratta di una metafora? Ascoltando divulgatori e insegnanti sembra proprio che, a livello pragmatico, di ciò si tratti. Ma perché usare una metafora che mette in relazione analogica le rappresentazioni di due diversi oggetti, quando si tratta dello stesso oggetto? La relazione tra un qualsiasi individuo umano e un qualsiasi individuo scimmiesco è di parentela, dal momento che è possibile ricostruire non solo rappresentazioni di loro parentele, ma la storia naturale delle loro nascite corporali da genitrici, che a loro volta sono corporalmente nate da… fino a trovare l’individua materialmente vissuta in qualche momento del passato in cui queste linee di generazione (fatti corporali materiali) convergono. L’ “albero” genealogico degli individui e l’ “albero” filogenetico delle specie sono lo stesso “albero”, che rappresenta relazioni di generazione, semplicemente visto con una diversa risoluzione. Questo oltretutto sarebbe un modo per introdurre in modo critico il concetto di specie (altro grande “dato per scontato” nel discorso).

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Noi, che veniamo dopo Kant, Hume…, non siamo così epistemologicamente ingenui da pensare che la scienza ci dia una conoscenza “in presa diretta” con la realtà, ma, se è vero che possiamo solo costruire “mappe” del “territorio” della realtà, la scienza almeno ci insegna a costruirle il più vicine possibili al territorio; e questo compito viene reso più difficile ogni volta che si introduce una metafora che, ammesso che non sia scorretta, deve comunque portarsi dietro un corredo critico, perché deve garantire la consapevolezza di quali aspetti delle due rappresentazioni accostate non sono analoghi. Ricordiamo tutti l’orologio di Paley (se un orologio presuppone un progettista costruttore, a maggior ragione un organismo presuppone un creatore) che aveva affascinato anche Darwin per a sua potenza evocativa; salvo poi scoprire che era una metafora scorretta, dal momento che dava per analoghe la costruzione di un oggetto da parte di un umano a partire da altri oggetti e la riproduzione biologica di un essere vivente dal corpo di un altro essere vivente.


Immagine: Di Tkgd2007 [CC BY-SA 3.0], attraverso Wikimedia Commons