Mio caro Neanderthal
A richiesta con la rivista «Le Scienze» di aprile il libro di Silvana Condemi e François Savatier
Poco più di 40.000 anni fa, un gruppo di migranti giunse in Europa provenendo dall’Africa. I nuovi arrivati iniziarono lentamente a conquistare territori, assimilando via via la popolazione che da 300.000 anni viveva in quella regione del mondo. Fu questa, a grandi linee, la dinamica che decretò la fine dei Neanderthal europei a opera di un gruppo di nostri antenati Homo sapiens che si insediarono in pianta stabile nel Vecchio Continente.
Per decine di migliaia di anni dopo la loro scomparsa, avvenuta intorno a 38.000-35.000 anni fa, il ricordo degli uomini e delle donne di Neanderthal cadde nell’oblio. Poi, nel 1856, in una valle della Germania vennero alla luce resti fossili inizialmente scambiati per quelli di un orso delle caverne. Erano invece fossili di una specie umana, a cui negli anni successivi alla scoperta fu dato il nome di Homo neanderthalensis (dal nome della valle dove erano stati trovati i fossili).
Per lungo tempo questo ominide è stato considerato come un «uomo delle caverne», un nostro lontano parente rozzo da cui noi ci saremmo allontanati per dare vita a una stirpe più raffinata, anche nelle fattezze. La ricerca scientifica però ha stravolto questo ritratto di H. neanderthalensis, il quale non era affatto un bruto; quanto alla parentela, poi, i risultati più recenti degli studi sono stupefacenti, come raccontano Silvana Condemi, direttrice di ricerca al CNRS presso l’Università di Aix-Marseille, in Francia, e il giornalista scientifico François Savatier in Mio caro Neanderthal, il libro allegato a richiesta con «Le Scienze» di aprile.
Tutte le popolazioni umane che vivono oggi in Europa e in Asia hanno DNA neanderthaliano, in una percentuale che varia tra l’1 e il 4 per cento del DNA totale. Questa eredità è frutto di incroci avvenuti a partire da 100.000 anni fa in Medio Oriente tra le popolazioni di H. sapiens che iniziavano a uscire dall’Africa e quelle di H. neanderthalensis incontrate lungo la via. Non è solo una testimonianza fossile; il DNA dei Neanderthal è stato ed utile ancor oggi per una serie di funzioni che ci permettono, per esempio, di affrontare microrganismi patogeni che i nostri antenati in arrivo dall’Africa incontravano per la prima volta in Eurasia.
Seguendo un percorso tra le conoscenze accumulate dalla ricerca scientifica studiando H. neanderthalensis, il libro distrugge anche il mito del cavernicolo. I neanderthaliani, dispersi tra Europa, Asia settentrionale e Medio Oriente, parlavano, cacciavano, vivevano in clan, seppellivano i morti, curavano gli infermi, fabbricavano strumenti litici, si vestivano e avevano un pensiero simbolico. Ecco perché sarebbe corretto chiamarli «fratelli» (come fanno per tutto il libro gli autori). Sono parenti stretti che vivono ancora in noi.
Ecologo e docente di Etologia e Comportamento Animale presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università di Milano. Ha scritto di animali ed evoluzione su Le Scienze, Mente e Cervello, Oggiscienza e Focus D&R . Collabora con Pikaia, di cui è stato caporedattore dal lontano 2007 al 2020.