Non più vittima

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La colonizzazione umana delle isole di tutto il mondo ha causato l’estinzione in tempi storici di numerose specie di animali adattati ad ambienti privi di predatori. A farne le spese più di tutti sono stati gli uccelli: esempi illustri sono il dodo (Raphus cucullatus) di Muritius, l’upupa gigante di Sant’Elena (Upupa antaios), la folaga delle Mascarene (Fulica newtoni) che visse […]

La colonizzazione umana delle isole di tutto il mondo ha causato l’estinzione in tempi storici di numerose specie di animali adattati ad ambienti privi di predatori. A farne le spese più di tutti sono stati gli uccelli: esempi illustri sono il dodo (Raphus cucullatus) di Muritius, l’upupa gigante di Sant’Elena (Upupa antaios), la folaga delle Mascarene (Fulica newtoni) che visse oltre che nelle isole Mascarene, acìnche a Mauritius e a Réunion, lo scricciolo di Stephens Island (Xenicus lyalli) vissuto sull’omonima isola in Nuova Zelanda e molti altri. Oltre alla caccia indiscriminata, uno dei più grandi problemi che questi uccelli, spesso atteri (non in grado di volare), dovettero affrontare fu l’introduzione di specie alloctone, di solito predatori.

Un caso che ben esemplifica questo sterminio è rappresentato dalla Nuova Zelanda, conquistata per la prima volta dai maori intorno al 1.300 e successivamente dagli europei nel 1769. I primi introdussero nell’isola il ratto polinesiano o ratto del Pacifico (Rattus exulans), mentre i secondi numerose specie di predatori placentati, come due diverse specie di ratti (Rattus rattus e Rattus norvegicus), il gatto domestico (Felis catus), alcuni mustelidi, quali l’ermellino (Mustela erminea), il furetto (Mustela furo) e la donnola (Mustela nivalis), e il cane (Canis lupus familiaris). Questo arrivo coincise con l’estinzione di oltre il 40% delle specie di uccelli neozelandesi e ne mise in pericolo molte altre.

Dopo alcune centinaia di anni dall’introduzione di questi predatori, un gruppo di ricercatori, guidati da Melanie Massaro della University of Canterbury, ha valutato se le specie autoctone hanno evoluto delle strategie volte a ridurre il tasso di predazione e ad aumentarne la sopravvivenza. In particolare, in uno studio pubblicato su PLoS One, i ricercatori hanno analizzato il comportamento di nidificazione dell’uccello campanello della Nuova Zelanda (Anthornis melanura), una specie di media taglia che si nutre di nettare, in risposta alla differente pesenza di predatori alloctoni nel territorio.

Gli uccelli sono stati studiati in tre siti, rappresentanti tre diversi livelli di concentrazione di predatori: un sito ad alto rischio, dove i predatori erano sempre presenti, un sito diventato di recente a basso rischio, per la rimozione sperimentale dei predatori, e un sito permanentemente a basso rischio, dove le specie esotiche non sono mai pervenute.

Dai risultati emerge che l’attività delle femmine nei pressi del nido (calcolata in numero di visite al nido), sia durante l’incubazione che durante l’approvvigionamento di cibo alla nidiata, decresce all’aumentare del rischio di essere predati. Questa strategia comportamentale è fortemente adattativa, in quanto è volta a ridurre le possibilità che i predatori possano avvistare ed individuare il nido e conseguentemente cibarsi delle uova o dei pulcini. Una dimostrazione indiretta di questo viene dal confronto con due specie affini del genere Phylidonyris che vivono in Tasmania e che si sono evolute nello stesso ambiente dei propri predatori naturali. Anche in questo caso, infatti, le due specie dimostrano una bassissima attività nei paraggi del nido.

Questo studio, concludono i ricercatori, dimostra che l’uccello campanello della Nuova Zelanda, probabilmente insieme a molte altre specie, non è  imprigionato in una sorta di “trappola” evolutiva che lo sta condannando ad una inevitale estinzione, ma è stato in grado di adattarsi alle nuove condizioni esterne, compresa l’introduzione di predatori esotici.

Andrea Romano

Fonte dell’immagine: Wikimedia Commons


Riferimenti:
Massaro et al. Introduced Mammalian Predators Induce Behavioural Changes in Parental Care in an Endemic New Zealand Bird. PLoS ONE, 2008; 3 (6)