Oltre le api: i più insospettabili impollinatori che l’evoluzione ha prodotto

456px Gold dust day gecko at flower clone

Per impollinare non serve essere un’ape. E non serve nemmeno essere un insetto, avere le ali, o vivere sulla terraferma. Diamo un’occhiata agli animali impollinatori che non ci aspettiamo.

Moltissime delle piante presenti sul nostro pianeta si riproducono tramite impollinazione, ossia il trasferimento di polline (una sostanza solitamente granulosa che contiene i gameti maschili) dall’apparato riproduttivo maschile a quello femminile. Milioni di anni di evoluzione hanno visto lo sviluppo di innumerevoli relazioni di mutualismo tra le piante e una grande varietà di specie animali, con le prime che forniscono nutrimento e/o rifugio ai secondi in cambio del trasporto di polline da un fiore all’altro. Questa relazione tra piante e animali impollinatori –tecnicamente definita impollinazione zoocora– è inoltre uno dei maggiori servizi ecosistemici (benefici portati dalla natura all’uomo), in quanto è alla base della sopravvivenza di gran parte delle colture mondiali. L’esempio di gran lunga più noto di animali che fungono da impollinatori è quello delle api: non solo la comune ape domestica (Apis mellifera) a cui tutti siamo abituati, ma moltissime altre specie di api e bombi diffuse in tutto il pianeta. Farfalle, falene e colibrì sono altri impollinatori più o meno famosi, ma l’evoluzione non si è certo fermata a loro. Andiamo dunque a conoscere alcuni tra gli impollinatori meno noti (e più inaspettati) che la natura offre. Alleati riluttanti: lo strano legame tra fichi e vespe
Come dimostrano i già citati casi di api e farfalle, gli insetti si prestano in maniera ottimale al ruolo di impollinatori, tanto che questa funzione si estende addirittura ad uno dei loro gruppi più universalmente detestati: le vespe. In particolare, la famiglia delle vespe agaonidi è parte integrante di una delle più interessanti dinamiche di mutualismo conosciute. Queste vespe sono infatti le uniche impollinatrici delle piante del genere Ficus, a cui appartengono gli alberi che forniscono i dolci frutti di fico. Il legame tra agaonidi impollinatrici e fichi è particolarmente affascinante per via della sottile linea che lo pone quasi a metà tra mutualismo e parassitismo: le vespe, infatti, depongono le loro uova all’interno dei fiori di fico (situati all’interno del siconio, ossia quello che noi impropriamente conosciamo come il “frutto”), che di conseguenza non riescono a trasformarsi in frutti- quelli veri, tecnicamente noti come acheni e contenuti nel siconio- e vengono invece mangiati dalle neonate larve. Solo una volta diventate adulte le vespe lasciano il siconio cariche di polline da trasportare in un altro fico, dove lo depositeranno prima di nidificare ricominciando il ciclo. Come fa dunque il fico ad assicurarsi che le vespe non si limitino a colonizzare tutti i suoi fiori con le loro uova senza nemmeno disturbarsi a impollinarli? Per scoprirlo, dobbiamo prima di tutto avere chiari i due meccanismi di riproduzione delle piante di fico.

Per i fichi cosiddetti dioici, le vespe non sono un problema: in queste specie troviamo infatti una divisione tra alberi “maschi” e “femmine”, con i primi che nei loro siconi producono sia polline che semi e i secondi soltanto semi. Le agaonidi possono dunque deporre le loro uova nei siconi maschi, dove le larve crescono fino all’età adulta in cui emergono dal siconio e trasportano il polline ad un albero “femmina”; lì, però, gli ovari dei fiori (che contengono i gameti femminili) sono situati troppo a fondo perché le vespe possano raggiungerli, trovandosi dunque al riparo dalla fame delle larve. Il fiore è così libero di trasformarsi in frutto a prescindere dalle vespe. Diversa è la situazione dei fichi monoici, in cui tutti gli alberi sono “ermafroditi” e producono sia polline che semi nello stesso siconio: in questi alberi i fiori femmina sono meno profondi rispetto agli omologhi fiori dei fichi dioici esclusivamente “femmina”; i loro ovari sono dunque vulnerabili alle larve agaonidi, che non chiedono di meglio per nutrirsi. I fichi monoici, dunque, devono necessariamente cautelarsi per garantire la fruttificazione di una quantità sufficiente di fiori femmina. Svariati meccanismi come la “soppressione” di quei siconi in larga parte non impollinati, che avvizziscono e trascinano le uova di vespa di cui sono carichi nello stesso triste destino, o la presenza di barriere chimiche che impediscono alle vespe di deporre le uova in certi fiori sono stati proposti dai ricercatori o documentati in una o più specie di fico. La presenza di agaonidi parassitiche che non impollinano i fichi ma competono con le larve delle impollinatrici è poi paradossalmente di aiuto agli alberi, dato che queste specie non sono in grado di raggiungere i fiori più nascosti all’interno del siconio; le agaonidi impollinatrici, dunque, tendono a preferire proprio questi fiori per le loro uova, lasciando liberi quelli più vicini alla superficie che dunque hanno la possibilità di germinare (le vespe parassitiche non sono una minaccia per i fiori in sé). Questi e molto probabilmente altri fattori “costringono” le agaonidi a lasciare che almeno parte dei fiori di fico producano semi, perché queste vespe sono tra i pochi impollinatori “attivi”. Le agaonidi infatti raccolgono e rilasciano il polline di propria iniziativa, mentre gli impollinatori “passivi” come l’ape mellifera si ritrovano semplicemente cosparsi di polline mentre banchettano del nettare dei fiori. Quando Dracula beve tequila: fiori, drink e pipistrelli
Gli insetti non sono però gli unici impollinatori nel regno animale: anche uccelli, rettili e mammiferi sono rappresentati. Tra questi ultimi, i più insospettabili come impollinatori sono forse proprio quei mammiferi che condividono con uccelli e insetti la capacità di volare: i pipistrelli. Ebbene sì, oltre 500 specie di piante sono impollinate parzialmente o esclusivamente da pipistrelli appartenenti a due famiglie: gli pteropodidi o volpi volanti, diffusi tra Asia e Oceania, e i fillostomatidi nativi delle Americhe. Affidarsi ai pipistrelli pone una sfida non indifferente per le piante, dato che questi animali sono esclusivamente notturni: ornamenti elaborati e colori sgargianti, comunemente sfoggiati dai fiori per attirare gli impollinatori, risulterebbero completamente invisibili nell’oscurità della notte – senza contare che per accomodare un animale delle dimensioni di un pipistrello servono fiori ben più grandi e una maggiore quantità di nettare che per un’ape o una farfalla (Pikaia ne ha parlato già anni fa). 
Oversexed flowers per i pipistrelli impollinatori
Ma ci vuole ben altro per fermare l’evoluzione: ed ecco allora che troviamo fiori bianchi o comunque molto chiari perché risaltino nel buio, segnali olfattivi invece che visivi per attirare i pipistrelli, e addirittura strutture floreali che riflettono più efficacemente le onde sonore che diversi fillostomatidi (come molti altri pipistrelli, ma non le volpi volanti) propagano nell’aria per percepire l’ambiente circostante – la famosa strategia sensoriale nota come “ecolocazione”.

Una volta individuato il fiore, i pipistrelli possono così gustarne il nettare e di conseguenza imbrattarsi il muso di polline, che andranno poi a depositare in un altro fiore. In alcune specie di pipistrelli, questo processo è facilitato da un muso eccezionalmente allungato e ristretto per quanto possibile per questi animali, che dunque non hanno difficoltà a raggiungere il nettare (e il polline) all’interno di fiori anche profondi. Tra le piante impollinate da pipistrelli troviamo nomi molto famosi come i cacti (famiglia Cactaceae) e le agavi (genere Agave), inclusa l’agave blu (Agave tequilana) dal cui estratto si ricava la tequila: la prossima volta che farete serata con uno o più drink, ricordatevi di ringraziare un pipistrello. I draghi del polline: isole ma non solo
Finora abbiamo trattato esclusivamente di impollinatori volanti, che proprio in virtù della capacità di viaggiare via aria sono in grado di trasportare il polline anche su lunghe distanze; tuttavia, l’impollinazione non richiede necessariamente un paio di ali. Buone notizie per le lucertole, che altrimenti non potrebbero annoverare alcun impollinatore e invece sono rappresentate da un pur molto ristretto contingente di specie. Curiosamente, gran parte di esse è confinata su una o più isole, dalle Baleari con la lucertola balearica (Podarcis lilfordi) alla Nuova Zelanda con alcuni dei gechi del genere Hoplodactylus.

Sono state proposte diverse spiegazioni  per spiegare questa tendenza insulare dell’impollinazione tramite lucertole, tra cui il fenomeno noto come compensazione di densità (o DC, dall’inglese density compensation) che porta animali confinati su un’isola a compensare la scarsa diversità di specie con una notevole crescita numerica e diversificazione ecologica delle poche specie presenti. Ciò si traduce nell’occupazione da parte della/e specie in questione di nicchie ecologiche nuove – tra cui, possibilmente, quella di impollinatori. Aggiungiamo altri fattori come la scarsità di impollinatori più “convenzionali” (soprattutto insetti) e predatori per le lucertole in diverse isole, e il risultato sono lucertole che si nutrono di nettare e trasportano polline da un fiore all’altro. Ricerche più recenti hanno comunque messo in luce casi di lucertole impollinatrici anche in ambienti di terraferma, come i monti del Drakensberg in Sudafrica, lasciando intendere che potrebbe esserci molto ancora da scoprire sulla diffusione dell’impollinazione da parte di questi rettili. I segreti del mare: l’impollinazione negli oceani
Se l’esistenza di vespe, pipistrelli, e lucertole che trasferiscono polline da un fiore all’altro vi ha stupiti, reggetevi forte per uno dei più sorprendenti risultati dell’evoluzione: gli impollinatori subacquei. Del resto, anche l’oceano è densamente popolato da macroalghe che si riproducono tramite dispersione di polline analogo a quello delle piante di terra. Fino a circa un decennio fa si riteneva che ciò avvenisse pressoché interamente grazie all’azione delle correnti marine che trasportavano i gameti maschili, ma una serie di recenti studi – l’ultimo pubblicato solo un paio di mesi fa – ha  mostrato come decine se non centinaia di specie di minuscoli crostacei si ritrovino cosparse di polline dopo essersi ancorate ad alghe “maschi” per poi rilasciarlo una volta trasferitisi su alghe “femmine”. Molti di questi piccoli invertebrati marini sembrano inoltre preferire di gran lunghe le alghe “maschi” già fornite di polline rispetto a quelle che ne sono sprovviste, fornendo ulteriori indizi riguardo al loro probabile ruolo di impollinatori. Le implicazioni di questa scoperta sono molteplici e molto importanti per la storia evolutiva dell’impollinazione: del resto, le macroalghe sono molto più antiche delle piante di terraferma, essendo comparse sul pianeta quasi un miliardo di anni fa; di conseguenza, già poco dopo la comparsa dei primi animali negli oceani (circa 650 milioni di anni fa) alcune specie di quella fauna così ancestrale potrebbero essersi specializzate nell’impollinazione delle alghe. Tuttavia, non possiamo esserne certi con gli scarsi dati di cui la scienza dispone al momento – nuove ricerche di più ampio respiro saranno necessarie per fare luce sull’affascinante evoluzione degli impollinatori marini. Più in generale, tutti gli impollinatori inaspettati che abbiamo appena conosciuto (e con loro molti altri non meno interessanti) mostrano chiaramente che questo classico esempio di mutualismo tra piante e animali va ben al di là delle api.

Riferimenti:
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Immagine: Un geco (Phelsuma laticauda) lecca il nettare da un fiore di Strelitzia. Di 
Brocken Inaglory, edited by Fir0002, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons