Pensandoci bene, di Daniel Dennett. Vita e avventure di un filosofo poliedrico

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Tra ricordi, incontri e idee, Dennett si racconta con la lucidità di un grande filosofo e l’ostinazione di chi non rinuncia mai ad avere l’ultima parola

Autore: Daniel C. Dennett

Traduttore: Francesco Peri

Editore: Raffaello Cortina Editore

Anno edizione: 2024

Pagine: 536 p.

Filosofo e scienziato cognitivo tra i più influenti del nostro tempo, Daniel Dennett ci ha lasciato lo scorso anno all’età di 82 anni. Prima di morire, ha consegnato alle stampe le sue memorie, tradotte in Italia da Cortina con il titolo Pensandoci bene. Avventure nella filosofia.

Se il volume, di oltre cinquecento pagine, potrebbe intimorire a prima vista, in realtà si rivela perfettamente accessibile a tutti. La scrittura è piacevole e brillante, e le svariate questioni filosofiche che Dennett ha affrontato nella sua vita – dalla coscienza all’evoluzione, dal rapporto tra intelligenza umana e artificiale alla religione – sono trattate in modo snello e divulgativo. In questo lavoro, tali questioni rimangono sullo sfondo, appena accennate, mentre in primo piano si staglia il racconto della sua vita accademica e non, delle frequentazioni, delle discussioni filosofiche e dei suoi numerosi e variopinti interessi e passatempi.

In altre parole, il libro si concentra sul contesto e sui modi in cui nascono le idee di Dennett, offrendo al contempo una descrizione vivace degli ambienti e dei protagonisti intellettuali che hanno caratterizzato la vita accademica americana ed europea nella seconda metà del Novecento e nel primo ventennio del Duemila.

Nel prologo, Dennett pone al centro un episodio significativo dei suoi ultimi anni: un intervento chirurgico a cuore aperto subito nel 2006 a seguito di una pericolosa “dissezione aortica” mentre era sulla sua barca a vela, la Xanthippe. Quell’evento cruciale offre l’occasione per una profonda riflessione sull’imprevedibilità della vita e sulla gratitudine, non verso un Dio che per un ateo come Dennett non esiste, ma “per tutto il bene, per tutta la bontà, per tutta la bravura che esistono a questo mondo” (p.16). Una gratitudine terrena che si estende ai principi stessi del metodo scientifico e della medicina, in base a cui hanno operato le persone che gli hanno salvato la vita.

La formazione di un pensatore poliedrico

Il libro è diviso in quattro parti, con trentasei capitoli arricchiti da fotografie e un ricco apparato di note che rimandano a un universo culturale vasto e stimolante, proprio come la vita di questo vulcanico pensatore.

La prima sezione racconta gli anni dell’infanzia e della giovinezza. Nato a Boston nel 1942, Dennett si trasferì presto con la famiglia a Beirut. Il padre, uno storico specializzato nell’Islam e agente segreto dell’Office of Strategic Services, morì in un misterioso incidente aereo quando Daniel aveva solo cinque anni. Dopo quel tragico evento, la famiglia fece ritorno in Massachusetts.

Sono anni in cui il giovane Daniel coltiva la passione per i fumetti, per la scultura, per la vela e per la musica jazz. Molto interessante è il capitolo dedicato a quest’ultima passione, dove Dennett racconta delle sue esperienze, dei suoi concerti e dei suoi musicisti preferiti. In un’occasione si ritrovò a suonare, quasi per caso, perfino insieme a Chet Baker e alla sua band. Nonostante la musica sia rimasta una grande passione per tutta la vita, Dennett capì presto di non avere il talento per diventare un musicista professionista. Il suo talento sarebbe invece emerso in un altro campo, quello della filosofia.

A diciassette anni si immatricola alla Wesleyan University, dove, frequentando un corso di matematica, scopre di voler diventare un filosofo, dopo essersi misurato con la monografia di W.V.O. Quine sulla Logica matematica. L’anno successivo si trasferisce ad Harvard, dove, oltre a Quine, conosce future stelle della filosofia analitica come Thomas Nagel, David Lewis e Saul Kripke.

A Harvard incontra la sua futura moglie, Susan Bell. Dopo la laurea, nel 1963, si trasferisce con lei a Oxford per studiare all’Hertford College. In questo periodo si dedica assiduamente anche alla scultura, imparando a lavorare vari materiali, come il bronzo e il marmo, e ha l’opportunità di far visita al celebre artista Henry Moore. A Oxford, il suo supervisore è Gilbert Ryle, filosofo del linguaggio che con la sua critica al dualismo cartesiano, attraverso l’immagine del “fantasma nella macchina”, avrà una grande influenza su Dennett. In quell’ambiente stimolante, Dennett inizia a interessarsi alle neuroscienze e alle scienze cognitive, partorendo le sue prime idee originali sul rapporto tra mente e cervello. Le sue riflessioni confluiranno nel suo primo libro, Contenuto e coscienza (1969).

Dennett racconta anche aneddoti divertenti legati alla sua attività accademica, come il “metodo Mamie Eisenhower”, che, come suggerito dalla first lady, consisteva nel concentrarsi sulle lettere dell’alfabeto pronunciate durante le conferenze particolarmente noiose, per non assopirsi. Si andava in ordine, e giunti alla z si ricominciava. L’effetto nell’applicazione di tale metodo nei convegni, racconta Dennett divertito, è impressionante, tanto che “a volte, negli intervalli, c’è chi viene da me tutto impressionato” e esclama: “Wow, Dan, ma come fai? Sei un eroe! Io mi stavo addormentando e tu sei lì che scrivi appunti su appunti!” (pp.118-9).

Carriera, vita e “filosofalciare”

Dopo il prestigioso titolo di Doctor of Philosophy, a 23 anni Dennett accetta un posto come professore di filosofia all’Università della California, a Irvine. Questo segna l’inizio della seconda parte del libro.

Dennett lavora a Irvine dal 1965 al 1971, un periodo in cui l’università muoveva i suoi primi passi. I suoi racconti spaziano dalle esperienze con i corsi per gli studenti, ai rapporti con i colleghi, alle sue ricerche nel campo dell’intelligenza artificiale, che allora era ai suoi albori. È anche il periodo della guerra in Vietnam e delle sperimentazioni psichedeliche. Dennett e Susan, membri attivi del movimento pacifista, si rifiutarono di sperimentare con le droghe, a parte “una breve e terrificante overdose di hashish”. In quel periodo, Dennett vive anche il dolore per la perdita di un figlio e la paura per il rischio di perdere anche Susan, definendolo “il periodo più triste, solitario e spaventoso di tutta la mia vita” (p.143).

Una svolta decisiva nella vita dei Dennett avviene nel 1969, quando, nonostante in quel tempo vivessero e lavorassero ancora in California, decidono di acquistare una fattoria nel Maine, la Godland Farm, con 80 ettari di foreste e campi. Questa diventerà la loro residenza estiva per i successivi quarant’anni. Come scrive Daniel, “la fattoria era un grande parco giochi”, perfetto per crescere i due figli (Andrea e Peter), che i Dennett decisero di adottare nei primi anni Settanta, ma anche molto adatto per “filosofalciare”. Lontano dalla scrivania, il lavoro manuale al campo, con il suo trattore, offriva a Daniel un’ispirazione unica, permettendogli di sbloccare problemi filosofici complessi.

Dennett accetta presto un nuovo incarico alla Tufts University, nel Massachusetts, dove rimarrà per il resto della sua carriera. Negli anni Settanta, accumulato un vasto repertorio di saggi sulla mente, firma un contratto per la pubblicazione di Brainstorms (1978). In quel periodo, trascorre un anno come visiting professor a Harvard, dove conosce il filosofo Jerry Fodor, con cui instaura un “duello amichevole” sui più svariati temi filosofici, ma anche una profonda amicizia, culminata in gite in barca a bordo di The Insolvent, il motoscafo a vela di Fodor. L’amicizia tra i due filosofi, le avventure e i mille imprevisti durante le escursioni in mare sono raccontati con grande piacere da Dennett, che nel 2004 avrebbe realizzato il suo sogno di avere una barca tutta sua, la Xanthippe, chiamata così in onore della “bisbetica”, ma anche “energica” e “saggia”, moglie di Socrate (p.212).

Con la sua barca a vela, Dennett inizia a partecipare a regate e a organizzare un’annuale “crociata cognitiva” per dottorandi e post-doc del Center for Cognitive Studies, il centro da lui fondato e diretto alla Tufts nel 1985. In queste crociere filosofiche, “si usciva in mare per qualche giorno, gettando l’ancora nelle baie più pittoresche, esplorando isole deserte e discutendo, discutendo, discutendo. Se c’è un modo più bello di scambiare idee in modo costruttivo, io non lo conosco” (p.215).

Il capitolo 10 è dedicato al racconto della genesi del suo esperimento mentale più famoso, “Dove sono?”, concepito nel 1976. L’esperimento immagina una persona il cui cervello è stato rimosso e tenuto in vita in una vasca, ma collegato via radio al corpo. Questa storia fantascientifica è stata ripresa anche in un documentario della BBC. Nel video, il corpo di Dennett guarda il suo cervello a bagno in una vasca, in un set con registratori a nastro che ronzano, finti armadi-calcolatori e lucette che lampeggiano (imitando i computer dell’epoca), domandandosi perché stia pensando: “Eccomi qua, intento a guardare il mio cervello” e non: “Eccomi qua, a bagno in una soluzione mentre i miei occhi mi guardano” (p.187).

Questa sorta di racconto-esperimento filosofico fantascientifico, ripreso anche in Brainstorms, ha poi ispirato un film, Victim of the Brain, dove Dennett ha recitato la parte di…sé stesso! La storia ha poi ispirato vari autori (compresi quelli del film The Matrix) e rafforzato l’idea di Dennett secondo cui non disponiamo di una conoscenza privilegiata dei nostri pensieri, ma dobbiamo adottare il punto di vista “alla terza persona” delle scienze sperimentali. Dennett ha chiamato questo approccio “eterofenomenologia”, cioè una “fenomenologia delle ‘altre menti’” (p.190).

La maturità intellettuale: libri, viaggi e incontri

La terza parte del libro, intitolata “La mia Odissea”, racconta le avventure filosofiche di Dennett dalla fine degli anni Settanta in poi, quando ormai è diventato una celebrità. Trascorre un anno in Inghilterra, dove non si risparmia in commenti irriverenti sull’ambiente oxfordiano, e un anno a Stanford, dove incontra Douglas Hofstadter. Insieme curano l’antologia L’io della mente (1981), un libro che, come afferma Dennett, “mi ha cambiato la vita” (pp.251-2). Grazie a Hofstadter, Dennett conosce il biologo Richard Dawkins, la cui opera Il gene egoista era stata per lui una vera rivelazione. Nel 1983, Dennett tiene le Locke Lectures a Oxford e il materiale raccolto in quell’occasione viene pubblicato con il titolo Elbow Room, un testo che tra i vari realizzati, rimane “la cosa mia che preferisco” (p.292).

Questa sezione del libro è costellata di divagazioni e racconti di viaggio: avventure in tenda in Kenya, conferenze in Italia, sul lago di Como e presso l’Università di San Marino, dove incontra Umberto Eco (“una persona deliziosa, di un’erudizione addirittura sconcertante”, p.322), e persino un’avventura da spy story a Praga, dietro la Cortina di ferro. Il capitolo 29 narra dei vari viaggi di Dennett in Russia, uno dei quali a bordo di una crociera di lusso organizzata dal cofondatore di Microsoft, Paul Allen, dove Dennett e la moglie Susan si ritrovano tra celebrità del cinema e scienziati famosi.

Il capitolo 23 racconta la genesi e la pubblicazione di uno dei libri più importanti di Dennett, Coscienza. Che cos’è? (1991), definito “lo sforzo creativo più intenso che io mi sia mai sobbarcato” (p.326). In esso ha tentato di trovare un equilibrio tra l’uso di un linguaggio divulgativo, comprensibile anche al generico lettore colto, e la trattazione di contenuti che potessero suscitare l’interesse dei colleghi filosofi e scienziati. L’idea centrale sviluppata nel volume è che la coscienza umana non sia nulla di miracoloso, ma il prodotto di una serie di “macchine virtuali” mobilitate dal cervello e capaci di creare la convinzione “cartesiana” di un “Autore Centrale” o di un “Anima” che la controlli, quando in realtà non è che un’“Illusione dell’utente” (p.327).

Il capitolo 27 è dedicato a un altro grande successo di Dennett, Rompere l’incantesimo (2006), un libro concepito dopo l’11 settembre 2001, per via delle preoccupazioni verso il riemergere dei fondamentalismi religiosi. L’idea che Dennett sviluppa è che le religioni non sono che “sistemi culturalmente evoluti di memi”, scaturiti dalla nostra “naturale tendenza alla vigilanza e alla socialità” (p.382).

Il libro di Dennett, insieme a quelli di Dawkins (L’illusione di Dio, 2006), Sam Harris (La fine della fede, 2004) e Christopher Hitchens (Dio non è grande, 2007), ha involontariamente costituito il quartetto di autori ribattezzati come i “cavalieri apocalittici del Nuovo Ateismo”. Dennett ha dedicato anni alle ricerche e ai progetti legati a questi temi, arrivando anche a collaborare a un progetto per raccogliere testimonianze confidenziali di membri del clero, poi confluite in un libro e un’opera teatrale.

Le pagine dedicate alle ricerche sull’intelligenza artificiale sono altrettanto interessanti. Dennett racconta delle sue esplorazioni condotte su robot umanoidi e non (come Cog o Tati), e della sua esperienza come presidente del comitato organizzativo del premio Loebner, le gare di IA concepite per verificare se una macchina potesse superare il test di Turing, ovvero se fosse in grado di simulare l’intelligenza umana in modo da risultare indistinguibile da questa. Nel 2018, Anna Strasser, una filosofa tedesca del Center for Cognitive Studies, ha addestrato GPT-3 sull’intera produzione di Dennett, tanto che la macchina, ribattezzata “DigiDan”, era in grado di sostenere conversazioni intorno a scritti e convinzioni del filosofo americano “con una verosimiglianza e una precisione che lasciavano sconcertati” gli esperti (pp.354 ss.).

Le battaglie accademiche e un’eredità controversa

La quarta e ultima sezione del libro si concentra sulle “battaglie accademiche” di Dennett, che rivelano il lato, per così dire, più attaccabrighe e pugnace del filosofo. Tra gli avversari di Dennett in queste dispute spiccano Richard Rorty, Stephen Jay Gould, Gerald Edelman, Jerry Fodor, John Searle, dipinti come veri e propri “bulli” accademici.

Paradigmatico del modo molto parziale e discutibile di presentare le dispute con tali rinomati studiosi è, per esempio, il racconto del famoso esperimento mentale di Searle detto della “stanza cinese”. Uno dei limiti del libro è che argomenti come questo, contrari alle convinzioni di Dennett, vengono ridotti a caricature o spiegati in modo del tutto superficiale (cfr. p.250). In queste parti, emerge in modo un po’ fastidioso un intento smaccatamente autocelebrativo da parte del filosofo, che agli occhi del lettore non può che sortire l’impressione un po’ antipatica, se non sgradevole, di chi vuole sempre avere l’ultima parola su tutto.

Lo stesso trattamento rivolto a Searle viene riservato anche a Edelman e a Stephen Jay Gould, con il quale si accapigliò violentemente fin dai tempi della pubblicazione de L’idea pericolosa di Darwin (1995), di cui Dennett, curiosamente, parla poco nel suo libro. Dennett arriva a insinuare che la presunta incapacità di Gould di riconoscere i propri errori in campo evoluzionistico fosse un effetto collaterale del cancro che lo colpì in giovane età. Non mostra alcun tentennamento riguardo alla pretesa fallacia delle idee di Gould e alla bontà delle sue tesi adattazioniste e pan-selezioniste, liquidando l’ultimo libro del paleontologo americano, La struttura della teoria dell’evoluzione (2002), come un’opera “quasi illeggibile” che “non ha avuto un grosso impatto” (p.464). Peccato che quanto scrive stona fortemente con ciò che attualmente sta accadendo nel panorama evoluzionistico. L’adattazionismo rigido promosso da Dennett e Dawkins ha mostrato grossi limiti, sia nel campo della biologia evoluzionistica che in quello dell’evoluzione umana, mentre la teoria dei memi, celebrata fino alla fine della sua vita dal filosofo americano, è stata già da anni ampiamente ridimensionata da un coro di critiche da parte di numerosi studiosi di evoluzione culturale. Ironia della sorte, le idee di Gould, che Dennett bolla nel libro come “bizzarre”, continuano a offrire contributi significativi e a stimolare un più sano pluralismo epistemologico.

Sintesi di un pensiero e il valore di un’avventura

Negli ultimi due capitoli, Dennett riprende le sue tesi di fondo presentate nei suoi libri e fa il punto su tutte le sue ipotesi. Ribadisce la sua visione squisitamente naturalista e materialista, in cui neppure la coscienza umana pare governata da alcun “Autore Centrale”, ma è interpretabile come un’“illusione dell’utente” prodotta dalla selezione naturale (p.484). Allo stesso modo, il libero arbitrio non è una “dotazione metafisica”, ma il risultato di un processo evolutivo, una “capacità che gli esseri umani normali acquisiscono quando imparano a tenere sotto controllo l’ampio ventaglio di possibilità che ineriscono alla nostra specie” (p.483).

Nell’ultimo capitolo, dopo aver riassunto la sua visione, Dennett si chiede, per la prima volta nel libro: “E se avessi torto?”. La sua conclusione è che, sebbene la sua prospettiva abbia dato adito a una visione organica e coerente, bisogna dar credito all’idea (mutuata dal filosofo francese Jacques Derrida) che “esistono solo interpretazioni, e poi interpretazioni di interpretazioni, e nessuna di loro merita il titolo di Verità Assoluta”. Per cui dovremo accontentarci di un concetto “vegetariano” di verità scientifica (p.486). Il fatto che molti altri pensatori che stima siano giunti a conclusioni simili gli permette tuttavia di “tenere abbassata al minimo la fiammella di un mai sopito scetticismo” (p.492).

Nonostante i limiti rilevati, il libro offre una narrazione spumeggiante e ricca di spunti, e la lettura risulta davvero godibile, punteggiata qui e là da una serie di racconti e aneddoti interessanti, divertenti e a tratti dissacranti. Divertentissimo, ad esempio, l’episodio riguardante il XX Congresso mondiale della filosofia, svoltosi a Boston in un lussuoso centro commerciale, dove filosofi venuti da tutto il mondo si mescolavano agli abituali frequentatori bostoniani appartenenti all’alta società. A questo proposito Dennett riferisce la conversazione sentita da un’amica in ascensore: “Ma chi saranno tutti quei tipi strambi?”, chiedeva una matrona. “Non lo so, cara”, rispondeva l’amica, “forse è una specie di convention di senzatetto!” (p.444).

In definitiva, Pensandoci bene è un libro che offre un ritratto intimo e autentico di un filosofo che ha saputo unire il rigore accademico con un’insaziabile curiosità per il mondo e un’irrefrenabile voglia di avventura, dimostrando che la filosofia non è un’arida disciplina da salotto, ma un’avventura che si vive sul campo.