Piccoli ma insidiosi: i castori aumentano le emissioni di metano nella tundra artica?

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Nella tundra artica le emissioni di metano sembrano correlate alle attività dei castori, inquilini in espansione in questo ambiente a causa dei cambiamenti climatici

Nonostante le temperature globali in aumento stiano già avendo effetto sul paesaggio e gli ecosistemi, gli sconvolgimenti che questo riscaldamento implica sono ancora più evidenti nelle regioni settentrionali estreme del pianeta. L’Artico, in particolare, si sta riscaldando molto più velocemente del resto del mondo (ben quattro volte in più), influenzando non solo la flora, la fauna e i tassi di fusione del permafrost, ma anche le concentrazioni di gas serra (di cui Pikaia ha parlato qui), di origine naturale, che vengono emesse da questo ambiente. Una recente ricerca pubblicata su Environmental Research Letters, e facente parte del NASA Artic – Boreal Vulnerability Experiment (ABoVE), mette in relazione le attività ingegneristiche dei castori nordamericani, colonizzatori della tundra artica nell’ultimo secolo, e l’aumento del rilascio di anidride carbonica (CO2) e metano (CH4) nell’atmosfera. I dati raccolti sono relativamente scarsi, e gli studi molto recenti, ma è stato già dimostrato che nelle zone senza permafrost dove i castori sono attivi, il rilascio di metano, per unità di superficie, è trenta volte maggiore rispetto ad altri siti umidi, dove questi animali sono invece assenti. Questa ricerca si basa sull’ipotesi che le emissioni possano essere ancora più elevate nei territori in cui lo strato del permagelo è presente, e in veloce fase di fusione.

Castor canadensis, un ingegnere fastidioso

Nella tundra dell’Alaska (di cui Pikaia ha parlato qui), i castori hanno portato alla formazione di oltre dodicimila stagni e, negli ultimi anni (a causa dei cambiamenti climatici e dell’aumento degli habitat a loro favorevoli), si pensa che questo numero possa anche raddoppiare. I principali problemi che provocano questi animali non sono solamente gli sconvolgimenti degli ecosistemi in cui si insediano ma anche le numerose ripercussioni che ciò ha da un punto di vista ambientale e geo – climatico. Inoltre, non c’è da scordare il loro effetto sui pesci, sulla qualità degli habitat acquatici e sulla vita delle persone. Le loro dighe portano spesso a inondazioni causate dalla modifica del corso naturale dei fiumi o di altri bacini vicini. A sua volta questo porta a una alterazione dei flussi idrici e della connettività tra i diversi canali fluviali ma varia anche irreparabilmente la quantità di calore scambiata con lo strato del permafrost superficiale. Nonostante il lavoro ingegneristico del castoro sia un adattamento peculiare che lo aiuta, anche e soprattutto, per difendersi dai predatori e a procacciarsi il cibo per la sua sopravvivenza, il suo stile di vita sfocia in ciò che viene chiamato “espansione ingegnerizzata dei corpi idrici”. Aumentando la profondità degli stagni, che si formano appunto dalla deviazione dei letti dei fiumi, l’acqua inonda la vegetazione circostante e tende ad incrementare la temperatura del suolo in zone che, altrimenti, d’inverno si ghiaccerebbero. In aggiunta, l’insita transizione da ambienti lotici (relativi alle acque correnti) a lentici (relativi alle acque ferme) porta a un accumulo massiccio di sostanza organica nelle aree invase. Questo ristagno favorisce la decomposizione microbica del carbonio presente nel suolo e porta alle condizioni anossiche favorevoli alla produzione di metano. L’equilibrio ambientale viene quindi spostato verso la metanogenesi, fenomeno che può continuare anche per interi decenni, e addirittura con un tasso di produzione superiore a quella della CO2.

Il GeoEye e l’aumento degli hotspot di metano

word image 57188 1 Lo studio è partito dalla mappatura di un’area di circa 429,5 km2 lungo il fiume Noatak, in Alaska, in cui lo strato di permafrost è pressoché perenne. La presenza dei castori e delle loro opere ingegneristiche (n = 118 stagni) è stata rivelata tramite un satellite ad alta risoluzione, lanciato in orbita nel 2008, chiamato GeoEye – 1, mentre l’analisi delle emissioni di metano correlate sono state studiate tramite lo strumento AVIRIS – NG, uno spettrometro di imaging all’avanguardia con una risoluzione spaziale di cinque metri. Invece, per conoscere il sito ed elaborare una cartina che permettesse di localizzare le dighe e riconoscere le differenze tra le acque di superficie presenti, gli scienziati hanno usato il National Hydrography Dataset (NHD). Rispetto all’area totale in esame, più di 2 km2, ospitano hotspot di CH4. Confrontando i dati ottenuti dalle zone idriche dove non si è riscontrata la presenza dei roditori (ovvero quelle di controllo), e tenendo conto che quelle vicine alle aree occupate presentano variazioni non lineari nelle emissioni, nei siti in cui i castori si sono insediati, si è riscontrato, in media, un aumento del 51% delle fuoriuscite di metano. Mantenendo sotto controllo i possibili errori dell’imaging satellitare e incrociando i dati raccolti, anche da terra, con altri siti in cui gli hotspot erano collegati principalmente alla formazione di pozze da fusione del ghiaccio (come quello del Big Trail Lake, denotato da differenze nel paesaggio e nella continuità del permagelo), i risultati sembrerebbero coerenti. Nonostante gli esiti delle ricerche scientifiche non siano mai assoluti, tutto conduce alla conclusione che l’aumento delle emissioni, nell’area del fiume Noatak, sia collegata alla presenza dei castori.

Il futuro dei castori e delle loro costruzioni

La massiccia concentrazione di carbonio organico nelle regioni in cui il permafrost è presente, e in via di fusione sia a causa di fattori biotici che abiotici, ha il potenziale di aumentare il rilascio di CH4 nell’ambiente e, come riportato in questo studio, il contributo dei castori non sembra giovare. Nonostante la natura degli ecosistemi sia in continua evoluzione, le stime sui flussi di metano causati dalle attività, soprattutto su scala mondiale, dei roditori sono ancora incerte. In zone estreme come quelle artiche però, la liberazione di carbonio organico da un suolo ancora “giovane” (in fase di fusione), non può fare altro che aumentare le potenziali problematiche intrinseche, soprattutto tenendo presente che la metanogenesi è solo un tassello del complicato ciclo del carbonio. Lo stesso professore e ricercatore Ken Tape, coautore dello studio, ricorda: “Diciamo ‘inizialmente’ perché questi sono i dati che abbiamo. Non sappiamo quali sono le implicazioni sul lungo termine” Il quesito finale è quindi capire quanto la percentuale riguardante le emissioni di metano aumenterà nei prossimi anni e quanto i castori ne saranno i responsabili. Andranno tenute sotto controllo le nuove aree di insediamento e si dovranno integrare i dati disponibili con nuovi studi in situ, da terra. Infine, sono necessarie analisi integrative per quantificare quanto il regime di disturbo dei castori abbia influenzato queste emissioni e quanto, di tutto il carbonio organico rilasciato, sia “giovane”, o legato a fenomeni prettamente geologici. Per concludere, seppur abbastanza improbabile, c’è anche da tenere in considerazione l’ipotesi inversa, ovvero che siano proprio i castori a costruire le loro dighe lungo gli hotspot rilevati. Con l’innalzamento delle temperature globali, comunque, e le ripercussioni che ciò ha sull’Artico, tutti i fattori citati in questo articolo rimangono in gioco e ognuno di essi ha un ruolo fondamentale nel modificare e alterare i tassi di emissione dei gas serra nella nostra atmosfera.

Riferimenti:
Clark, J. A., Tape, K. D., Baskaran, L., Elder, C., Miller, C., Miner, K., …Jones, B. M. (2023). Do beaver ponds increase methane emissions along Arctic tundra streams? Environ. Res. Lett., 18(7), 075004. doi: 10.1088/1748-9326/acde8e  Immagine in apertura: Castor canadensis, pubblico dominio via GlacierNPS su Flickr.