Possibile convivenza tra Homo sapiens e Homo naledi
Homo naledi visse in Sudafrica intorno a 300-250 mila anni fa. Questa nuova datazione fa supporre che tale specie abbia coesistito con H. sapiens per un certo periodo di tempo. Il ritrovamento di nuovi resti in una caverna nel complesso di Rising Star, suggerisce inoltre processi cognitivi molto complessi, nonostante le dimensioni del cervello ridotte, rispetto a H. sapiens
Nel 2013, all’interno del complesso di caverne sudafricane di Rising Star, nei pressi di Johannesburg, furono rinvenuti numerosi resti fossili di ominidi, che due anni dopo vennero riconosciuti come appartenenti ad una specie fino ad allora sconosciuta, che fu chiamata Homo naledi (Pikaia ne ha già parlato qui). Lo scorso 9 maggio, a seguito del ritrovamento di nuovi fossili di H. naledi nella camera Lesedi (appartenente allo stesso complesso di caverne di Rising Star) sono stati pubblicati sulla rivista eLife tre studi, che descrivono i nuovi scenari che tale scoperta potrebbe comportare riguardo la nostra conoscenza del genere Homo. La ricerca ha interessato un folto gruppo di scienziati, perlopiù appartenenti alle Università del Witwatersrand (in Sudafrica), James Cook (in Australia) e a quella del Wisconsin di Madison (Stati Uniti).
I fossili ritrovati, descritti in uno dei tre articoli, sono appartenenti a due individui adulti e (almeno) un bambino, presumibilmente di età inferiore ai 5 anni. Tra i resti, è da sottolineare la presenza di uno scheletro completo che grazie al cranio “meravigliosamente conservato”, come descritto da John Hawks, antropologo dell’Università del Wisconsin di Madison e co-autore di tutti gli studi, è tecnicamente più completo del famoso scheletro di Lucy. Esso è stato soprannominato “Neo”, che in lingua Sesotho significa dono, ed ha finalmente permesso di associare un volto agli esemplari di H. naledi. Le ossa ritrovate permettono di confermare alcune caratteristiche di tali ominidi, tra cui la loro statura e la loro predisposizione a camminare ed arrampicarsi.
Grazie all’utilizzo di sei diversi metodi di analisi, è stato possibile datare i resti di H. naledi, come descritto in un secondo articolo: inizialmente si pensava che i fossili rinvenuti avessero un milione o due di anni, ma in seguito è stato stabilito che H. naledi visse nel Medio Pleistocene, tra 335.000 e 226.000 anni fa. Tale scoperta permette di affermare che H. sapiens (l’uomo moderno) non sia stata la sola specie del genere Homo ad essere presente in Africa nella parte finale del Pleistocene Medio, come invece si credeva in precedenza.
In un terzo studio viene poi discussa l’importanza del ritrovamento di una specie di ominidi attribuibili a quel luogo in quel lasso temporale. Poiché molti attrezzi ed utensili rinvenuti in Africa risalgono allo stesso periodo, non si può dare per scontato che siano stati esemplari di H. sapiens a costruirli. Come afferma Lee Berger, inoltre, professore dell’Università di Witwatersrand (Johannesburg) e co-autore degli studi, il fatto che vi sia una specie che ha vissuto contemporaneamente ai “moderni umani” in Africa, rende molto più probabile il fatto che ve ne possano essere delle altre, e che queste debbano solamente essere trovate.
I resti, come già detto in precedenza, sono stati ritrovati all’interno della camera Lesedi, che si trova nel complesso Rising Star a circa 100m dalla camera Dinaledi, nella quale furono rinvenuti per la prima volta reperti ascrivibili ad H. naledi. Entrambi i siti sono di difficile accesso e ciò contribuisce ad alimentare l’idea secondo la quale H. naledi utilizzasse luoghi scuri e inaccessibili per collocare i propri morti. A tale riguardo vi è un acceso dibattito tra i sostenitori di tale idea e chi, invece, ritiene che essi potrebbero essere stati inseguiti da animali o altri umani ed essere rimasti lì intrappolati. Se l’ipotesi delle sepolture rituali venisse confermata, ciò che risulta provocatorio, secondo Hawk, è il fatto che tali ominidi avessero le dimensioni del cervello di un terzo spetto alle nostre (qui il confronto tra le due scatole craniche), pur condividendo aspetti molto profondi del nostro comportamento, tra cui la cura per gli altri individui anche dopo la loro morte.
Aldilà di tutti gli scenari che si possono ipotizzare, la nuova datazione dei fossili apre molte possibilità riguardo le influenze reciproche che la coesistenza di H. sapiens e H. naledi potrebbero avere generato, in termini di uso degli utensili, attività culturali e comportamenti.
Riferimenti:
Dirks et al. The age of Homo naledi and associated sediments in the Rising Star Cave, South Africa. eLife, 2017; 6 DOI: 10.7554/eLife.24231
Hawks et al. New fossil remains of Homo naledi from the Lesedi Chamber, South Africa. eLife, 2017; 6 DOI: 10.7554/eLife.24232
Berger et al. Homo naledi and Pleistocene hominin evolution in subequatorial Africa. eLife, 2017; 6 DOI: 10.7554/eLife.24234
Credit: Photo by John Hawks/University of Wisconsin-Madison