Predazione e biodiversità
Nel corso dei milioni di anni, l’aumento e la diminuzione della diversità degli invertebrati marini sembrano essere correlati al livello di interazioni preda-predatore. Per comprendere il ruolo delle interazioni biologiche tra gli organismi nei processi evolutivi, uno studio, pubblicato sulla rivista PNAS e condotto da ricercatori del Department of Geosciences della Virginia Tech, ha focalizzato l’attenzione sui molluschi bivalvi. In […]
Nel corso dei milioni di anni, l’aumento e la diminuzione della diversità degli invertebrati marini sembrano essere correlati al livello di interazioni preda-predatore.
Per comprendere il ruolo delle interazioni biologiche tra gli organismi nei processi evolutivi, uno studio, pubblicato sulla rivista PNAS e condotto da ricercatori del Department of Geosciences della Virginia Tech, ha focalizzato l’attenzione sui molluschi bivalvi. In particolare, è stato ricostruito grazie alle testimonianze fossili il livello di predazione nel corso del tempo. Ripsetto a ricerche precedenti, che si basavano su modificazioni morfologiche degli organismi (ad esempio mandibole più potenti nei predatori e conchiglie con gusci più spessi nelle prede), gli scienziati hanno considerato la frequenza degli attacchi. Come segno distintivo di eventi di predazione sono stati utilizzati i gusci di bivalvi predati che presentano le tipiche forature circolari, aperture da cui il predatore poteva accedere al corpo molle della sua vittima. Nel processo coevolutivo preda-predatore, le potenziali prede si sono “attrezzate” per riuscire a non essere mangiate, riuscendo a suturare il foro prima di essere digerite. Anche questo processo lascia una cicatrice sul guscio che si conserva nei fossili.
Lo studio ha considerato la frequenza di fori utilizzati dai predatori e fori riparati sul totale dei gusci di molluschi fossili degli ultimi 550 milioni di anni. I risultati indicano un sostanziale aumento della predazione, quindi degli attacchi, soprattutto intorno a 480 milioni di anni fa, circa 50 milioni prima dell’aumento dello spessore medio dei gusci delle prede. Questi risultati sembrano perfettamente in accordo con la curva di diversità di Jack Sepkoski, tracciata sugli invertebrati marini. Questa curva registra l’origine e l’estinzione di tutti i generi di invertebrati marini degli ultimi 540 milioni di anni.
Dunque esiste una correlazione tra intensità di predazione e biodiversità complessiva negli oceani, una correlazione per cui i ricercatori portano tre possibili spiegazioni. La prima sostiene che sarebbe l’intensità di predazione a guidare l’aumento o la diminuzione della diversità. L’incremento delle interazioni biologiche e la continua lotta tra predatori e prede, quindi, porterebbe ad un aumento della diversità.
La seconda ipotesi ribalta le premesse e le conclusioni della prima. Sostiene infatti che se la biodiversità complessiva aumenta, allora sarà più probabile che compaiano forme di predatori più specializzati e che utilizzano strategie predatorie sofisticate. Quindi più diversità corrisponderebbe a maggiore predazione.
La terza, invece, chiama in causa un possibile elemento esterno che può condizionare le due precedenti variabili, ad esempio la diversa presenza di strati sedimentari nei diversi periodi, che influisce sulla disponibilità di fossili e quindi sulle stime di biodiversità.
Il gruppo di studio annuncia che le prossime ricerche saranno indirizzate proprio a testare queste tre ipotesi e valutare quale di queste si avvicina maggiormente alla realtà.
Andrea Romano
La foto, che immortala alcuni gusci di Lucinoma borealis, è tratta da Wikimedia Commons
Ecologo e docente di Etologia e Comportamento Animale presso il Dipartimento di Scienze e Politiche Ambientali dell’Università di Milano. Ha scritto di animali ed evoluzione su Le Scienze, Mente e Cervello, Oggiscienza e Focus D&R . Collabora con Pikaia, di cui è stato caporedattore dal lontano 2007 al 2020.