A distanza di dieci anni dal suo sequenziamento, il genoma dell’ape
Apis mellifera continua a riservare sorprese. L’ultima serie, in ordine puramente cronologico, di interessanti scoperte deriva da una recente pubblicazione del gruppo di ricerca coordinato da
Matthew Webster dell’
Uppsala University, in cui è stata studiata la variabilità genetica
di 14 popolazioni di api campionate in diverse località del mondo.
Secondo quanto riportato sulla rivista
Nature Genetics,
Apis mellifera avrebbe ancora una ampia variabilità genetica, contrariamente a quanto più volte suggerito nel corso degli ultimi anni. Questa ipotesi si basava sul fatto che le api hanno mostrato una grande sensibilità a patogeni e agrofarmaci, oltre che difficoltà nel fronteggiare i cambiamenti climatici. Secondo alcuni autori questo risultato poteva derivare dal fatto che le pratiche apistiche avevano portato ad altissimi livelli di
inincrocio (ovvero di incroci tra individui geneticamente simili), tanto da comportare una sensibile perdita di variabilità genetica. Al contrario, sebbene le popolazioni africane sia quelle con la maggiore variabilità, anche le api europee possiedono una ampia variabilità genetica. I dati pubblicati confermano quindi
precedenti risultati (ottenuti però analizzando un set di dati più ridotto) secondo cui le pratiche apistiche avrebbero mantenuto alti livelli di variabilità genetica, anche grazie all’incrocio tra popolazioni differenti di api. Questo set di dati inoltre indica la presenza di quattro grandi gruppi a cui sarebbero riconducibili le api moderne, ma il gruppo comprendente le popolazioni africane non è in posizione basale nel senso che non sarebbe all’origine dell’ape, come invece spesso suggerito in
precedenti pubblicazioni. Sebbene i dati pubblicati non diano precise indicazioni sull’origine, sono però sufficienti per escludere una origine africana di
A. mellifera, rafforzando l’ipotesi suggerita alcuni anni fa secondo cui l’ape avrebbe in realtà origini asiatiche.
Il gruppo di Webster ha inoltre identificato tracce di selezione naturale su alcuni geni dal cui funzionamento è derivato l’adattamento delle api in aree geografiche differenti. Le api europee, ad esempio, hanno fissato alcune mutazioni che permettono un maggiore accumulo di vitellogenina (una proteina che svolge funzione di riserva proteica), aspetto che risulta fondamentale per la sopravvivenza invernale in Europa, a differenza di quanto accade nelle popolazioni che vivono nei climi decisamente più miti a cui si sono adattate le popolazioni di api africane.
Le popolazioni africane hanno invece fissato numerose mutazioni che andrebbero a influenzare la motilità spermatica aumentandola. Tenendo conto del fatto che una singola regina può accoppiarsi con più maschi (sino a 20), questo potrebbe suggerire un maggior livello di
poliandria delle api africane, da cui deriverebbe una maggiore
competizione spermatica. Quando infatti una femmina si accoppia con molti maschi, gli spermi dei diversi partner entrano in competizione per fecondare le uova disponibili per cui una maggiore motilità potrebbe rivelarsi molto utile.
Un ultimo dato interessante è legato al fatto che le popolazioni africane avrebbero una maggior variabilità genetica in diversi geni implicati nella risposta immune a patogeni e parassiti. Questi dati confermano osservazioni già consolidate che indicano una maggior resistenza delle api africane a patogeni e parassiti (tra cui il temutissimo acaro Varroa destructor) e aprono interessanti quesiti sulle origini di tale differenza. La selezione verso api molto produttive potrebbe avere avuto come rovescio della medaglia un minor investimento in termini di funzionalità del sistema immunitario e questo passaggio potrebbe essere stato favorito dalla selezione di popolazioni basate sulla sola produttività come parametro di selezione artificiale. Questa situazione ricorda molto quanto accaduto, ad esempio, nel mais in cui la selezione di piante molto produttive ha portato ad avere sfortunatamente anche piante incapaci di difendersi in modo efficace da alcuni parassiti radicali.
Il fatto che esistano popolazioni con caratteristiche genetiche diverse potrebbe essere una risorsa per la tutela delle api perché realizzando incroci mirati si potrebbe pensare di “recuperare” ad esempio una più efficace risposta immunitaria. Purtroppo però questo andrebbe a influenzare (se non addirittura compromettere) la peculiarità di alcune popolazioni tipiche già oggi oggetto di iniziative di recupero e salvaguardia, quali ad esempio l’ape sicula.
Mauro Mandrioli
Riferimento bibliografico:
Wallberg A
et al. (2014) A worldwide survey of genome sequence variation provides insight into the evolutionary history of the honeybee
Apis mellifera.
Nature Genetics 2014, in stampa.
Biologo e genetista all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove studia le basi molecolari dell’evoluzione biologica con particolare riferimento alla citogenetica e alla simbiosi. Insegna genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie. Ha pubblicato più di centosessanta articoli su riviste nazionali internazionali e tenuto numerose conferenze nelle scuole. Nel 2020 ha pubblicato per Zanichelli il libro Nove miliardi a tavola- Droni, big data e genomica per l’agricoltura 4.0. Coordina il progetto More Books dedicato alla pubblicazione di articoli e libri relativi alla teoria dell’evoluzione tra fine Ottocento e inizio Novecento in Italia.
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