Quello che ci dicono le ali delle farfalle
Scaglie d’ali di farfalle trovate in sedimenti del Mesozoico possono contribuire a conoscere meglio le origini dei lepidotteri e della loro spiritromba
L’ordine dei lepidotteri, che comprende farfalle e falene (delle cui differenze Pikaia ha parlato qui), deve il proprio nome alle scaglie – in greco: λεπίς – che ne ricoprono le ali – in greco: πτερόν – fornendo loro quella straordinaria varietà di colori e disegni che le rende così ammirate. Si tratta in realtà di setole modificate, sono infatti rivestite di chitina, la proteina presente nell’esoscheletro degli insetti. Il colore può essere ottenuto per via chimica, con pigmenti colorati; oppure tramite il fenomeno fisico dell’interferenza luminosa, grazie ai sottilissimi solchi che le attraversano, di dimensioni paragonabili a quelle delle lunghezze d’onda della luce.
Tuttavia le scaglie hanno anche l’importante caratteristica di essere tassonomicamente informative, cioè è possibile inferire da esse il gruppo di appartenenza del loro possessore. Questa proprietà potrebbe ora aiutare a stabilire l’origine dei lepidotteri, che resta in gran parte ignota, anche per l’esiguità del repertorio fossile. Le analisi filogenetiche suggeriscono che la divergenza dal gruppo fratello dei tricotteri sia avvenuta in un periodo molto ampio che va dal Permiano al tardo Triassico, mentre i reperti fossili risalgono a un’epoca assai più recente. Infatti, il più antico fossile noto del gruppo “stelo” dei lepidotteri, appartenente alla specie Archaeolepis mane, è stato datato al Giurassico inferiore, mentre al Cretaceo inferiore il più antico fossile noto del gruppo “corona” dei lepidotteri, dall’arduo nome di Parasabatinca aftimacrai.
Per contribuire a colmare la lacuna, un recente studio pubblicato su Science Advances ha esaminato un insieme di circa 70 scaglie fossilizzate, e frammenti di esse, recuperati nella Germania del nord, in sedimenti che spaziano dal tardo Triassico fino al primo Giurassico, al limite tra piano Retico e Hettangiano, in corrispondenza della crisi ecologica di fine Triassico. Con il microscopio elettronico a scansione, i ricercatori hanno confrontato le scaglie con quelle di lepidotteri attuali e altri insetti che ne sono muniti. L’analisi ha consentito di escludere altri esapodi come possibili proprietari delle scaglie; e le ha suddivise in quattro gruppi morfologici, in base a caratteristiche che spaziano dalla forma globale, più o meno arrotondata o allungata, alla struttura dei margini, che possono essere variamente seghettati o frangiati.
Le più interessanti si sono rivelate le scaglie di tipo I e II. Le scaglie di tipo I sono solide, avendo lamina superiore e inferiore fuse tra loro e presentano sulla superficie superiore un motivo a spina di pesce. Le scaglie di tipo II sono cave, con le due lamine connesse tra loro da trabecole, presentano margine seghettato e piccole perforazioni circolari. Le caratteristiche di entrambi i tipi di scaglie permettono di considerarle affini a quelle dei lepidotteri non-Ditrysia, un gruppo parafiletico di famiglie che comprende solo l’1 o 2% di specie e avrebbe avuto precoce divergenza nell’albero dei lepidotteri. Tali famiglie condividono la caratteristica di avere l’apparato genitale femminile dotato di una sola apertura, a differenza della grande maggioranza degli odierni lepidotteri, in cui la femmina ha un orifizio per l’accoppiamento e uno per l’ovodeposizione. Tra queste famiglie, Micropterigidae, Agathiphagidae e Heterobathmiidae presentano i motivi a spina di pesce presenti nel tipo I. Si tratta di piccole falene con residui di parti boccali munite di mandibole in parte atrofizzate e prive di spiritromba. Le famiglie estinte di mandibolati a noi note non presentano però alcun motivo a scaglia di pesce, pertanto le scaglie di tipo I potrebbero individuare un nuovo clade di lepidotteri mandibolati risalente al Mesozoico inferiore.
Le scaglie di tipo II mostrano poi alcune affinità con quelle del clade Coelolepida, che comprende la maggior parte delle Glossata, cioè dei lepidotteri muniti di spiritromba, sofisticato sistema di alimentazione atto a succhiare da goccioline o superfici liquide. Finora al clade dei Glossata era stata attribuita l’età minima del medio Cretaceo inferiore, circa 129 milioni di anni fa, mentre le scaglie recuperate arretrerebbero l’età di circa 70 milioni di anni, spingendo la divergenza dei Glossata dagli antenati mandibolati al medio Triassico superiore, 212 milioni di anni fa.
I ricercatori ipotizzano che l’evoluzione della spiritromba possa essere stato un adattamento al caldo e all’aridità diffusi durante il Norico, la seconda delle tre età in cui viene suddiviso il Triassico superiore. La piccola dimensione dei Lepidotteri dell’epoca implicava un elevato valore del rapporto tra superficie e volume corporeo, il che aggrava le perdite di umidità durante il volo nell’aria secca; bere liquido libero può essere un modo efficace per mantenere il corretto bilancio idrico. In seguito le proboscidi corte e di semplice struttura, che si osservano ancora in alcuni lignaggi, come le Eriocraniidae e le Mnesarchaeidae, e che probabilmente servivano per bere goccioline d’acqua o di linfa dalle spezzature delle foglie, si sarebbero evolute per alimentarsi dai nettari dei fiori, in associazione con la crescita e la diversificazione delle angiosperme durante il Cretaceo.
Questo avrebbe poi portato alla moltitudine di mutualismi d’impollinazione tra lepidotteri e piante da fiore che possiamo ammirare oggi. Tuttavia, data la precoce comparsa della spiritromba, è probabile che la prima radiazione delle Glossata si sia verificata in parallelo alla diversificazione delle gimnosperme durante il Triassico e Giurassico. Come anche oggi avviene, gli ovuli delle gimnosperme secernevano gocce micropilari, utili per catturare i grani di polline portati dal vento e innescarne la germinazione. Tali gocciole zuccherine potevano fornire una sorgente nutritiva molto energetica per i lepidotteri proboscidati del Mesozoico. Si trattava probabilmente di un fenomeno non mutualistico, giacché solo con l’evoluzione di strutture riproduttive bisessuali le piante avrebbero in seguito potuto sfruttare i benefici dell’impollinazione entomogama.
Come altri insetti, i primi lepidotteri sarebbero stati essenzialmente immuni all’estinzione di fine Triassico, forse perché sia le loro forme larvali che adulte potevano prosperare su molte piante diverse; e la presenza di tale molteplicità è testimoniata dal notevole assortimento di polline di gimnosperme che si ritrova negli strati geologici fra Triassico e Giurassico, appartenente a conifere, cicadofite, e alle estinte pteridosperme.
Può darsi che le condizioni verificatesi all’epoca, con il rapido seppellimento di materiale organico in condizioni di anossia, abbiano favorito la conservazione delle delicate strutture chitinose. Le minuscole scaglie hanno offerto preziose informazioni sull’albero filogenetico dei lepidotteri; altri ritrovamenti potranno aiutarci a colmarne le residue lacune.
Riferimenti
Timo J. B. van Eldijk et al. 2018. A Triassic-Jurassic window into the evolution of Lepidoptera. Science Advances 4 (1): e1701568; doi: 10.1126/sciadv.1701568
Immagine: Wikimedia Commons. Anatoly Mikhaltsov – Butterfly Wing Scale – Peacock (Inachis io). Licenza: CC BY-SA 4.0