Recensione di “A cena con Darwin”
Pikaia ha letto per voi l’ultimo libro di Jonathan Silvertown
“I libri sul cibo sono troppi”. Inizia così l’interessante e sorprendente libro scritto da Jonathan Silvertown (già autore del bellissimo “La vita meravigliosa dei semi“) dal titolo “A cena con Darwin”, edito in Italia da Bollati Boringhieri e dedicato all’evoluzione di ciò che mangiamo. Non fatevi però ingannare dall’incipit, perché il libro di Silvertown è tutt’altro che il solito testo dedicato al cibo.
Leggendo “A cena con Darwin” farete un vero e proprio viaggio nel tempo perché “il nostro rapporto con il cibo dimostra come ci siamo evoluti e come si è evoluto ciò che mangiamo. Capirlo può rappresentare una fonte di nutrimento per la mente, ma anche per lo stomaco. Se vi piacciono i paroloni chiamatela <gastronomia evolutiva>, altrimenti potrete dire, più semplicemente, che stiamo per preparare un pranzo ispirato all’evoluzione”.
Non ci credete? Immaginiamo ad esempio di volerci preparare a colazione un gustoso pancake, gli ingrediente principali che vi servono sono uova, latte, zucchero e farina. Mentre li pesate e mescolate, aggiungete una visione Darwiniana e l’uovo, da ingrediente per la vostra colazione, diventerà (o meglio tornerà ad essere) una invenzione di grande successo per adattarsi alla via terrestre: “sembra quasi di sentire il grido del venditore che riecheggia nelle foreste acquitrinose primordiali del Carbonifero superiore, circa 310 milioni di anni fa: <il vostro embrione si sta seccando? C’è una novità! Provate a metterlo in questa sacca piena di acqua di palude!> (…) I primi animali a compiere la transizione dagli oceani alle terre emerse furono gli anfibi. Le loro uova, tuttavia, erano gelatinose, proprio come quelle delle rane e delle salamandre moderne, e non possedevano uno strato protettivo che impedisse loro di disidratarsi all’area aperta”. Le uova come noi le conosciamo furono una invenzione dei rettili e “sono così nutrienti perché contengono tutto il cibo necessario per lo sviluppo del pulcino, e si conservano così bene perché hanno un guscio progettato per proteggerne il contenuto dai batteri e dai funghi che lo farebbero andare a male”.
A questo punto siamo pronti per aggiungere il latte e in questo caso possiamo “tornare” all’origine dei mammiferi e allo scenario che l’ornitorinco (che produce uova, ma allatta) ci illustra sul passaggio dall’oviparità alla viviparità, così come potrete ripercorrere l’evoluzione della nostra capacità di digerirlo. Mentre mescolate uova e latte scoprirete infatti che “con l’ingesso nell’età adulta, anche i primi agricoltori neolitici europei sviluppavano un’intolleranza al latte. Circa 7500 anni fa però nelle montagne dell’Europa centrale comparve una mutazione che provocava la persistenza della lattasi e consentiva ai suoi portatori di tollerare il latte anche da adulti. La mutazione dilagò nell’Europa settentrionale, definendo l’eredità evolutiva dei popoli di origine europea, ovunque si trovino oggi”. La persistenza della lattasi “la troviamo anche in Arabia Saudita, anche se è dovuta a una mutazione diversa da quella europea (il gene però è lo stesso)”, dove ha reso possibile l’utilizzo del latte di cammella come risorsa di acqua in un ambiente arido ed è possibile che “il latte come riserva di acqua abbia avuto un ruolo anche nella selezione naturale della persistenza nell’Africa Orientale: in Tanzania, in Kenya e in Sudan i pastori riescono a bere il latte prodotto dal loro bestiame grazie a tre alleli diversi. Si tratta di tre mutazioni indipendenti tra loro e da quelle verificatesi in Europa e Aria Saudita”. L’evoluzione della persistenza della lattasi è quindi comparsa almeno cinque volte durante la nostra evoluzione e circa un terzo della popolazione mondiale umana tollera oggi il lattosio.
Nel complesso quindi i nostri primi due ingredienti (uova e latte) hanno un elemento in comune nella loro evoluzione cioè “rappresentano una risposta a una domanda fondamentale che ogni genitore ben conosce: come proteggere e nutrire i propri piccoli?” Potrà sembrarvi strano ma ambedue questi ingredienti del vostro pancake hanno costituito “un punto di svolta nell’evoluzione della vita sulla Terra”.
Se poi avete creduto al fatto che zucchero e farina fossero “uno spontaneo frutto della Terra”, grazie a Silvertowon scoprirete (o forse vi farà piacere ricordare) che sono in realtà il risultato di un lungo lavorio dell’essere umano: “La prima pianta domesticata per la coltivazione fu probabilmente il farro, cui però si aggiunsero presto altre otto o nove colture. Oltre al farro, i primi agricoltori della Mezzaluna Fertile domesticarono il piccolo farro, l’orzo, la lenticchia, il pisello, il cece, la vecciola, il lino e forse la fava. (…) “L’enorme quantità di variazioni cumulative introdotte da allevatori e agricoltori è la dimostrazione di ciò che si può ottenere attraverso un processo graduale di selezione artificiale. (…) La selezione artificiale guida l’evoluzione delle piante e degli animai nello stesso modo in cui un in genere guida il flusso di un fiume modellando il paesaggio con canali, dighe e argini per far sì che la gravità incanali l’acqua nella direzione voluta”. Agricoltori e allevatori hanno quindi guidato (meglio di come hanno fatto gli ingegneri con i fiumi!) il flusso di geni selezionando gli individui che presentavano i caratteri più interessanti e per noi più utili. Potrà sembrarvi strano, ma la farina che state attentamente miscelando evitando di formare grumi è “sufficiente per viaggiare a ritroso nel tempo fino agli albori dell’agricoltura e poi muoverci nella direzione opposta per esplorare le conseguenze evolutive della domesticazione delle colture sulla nostra specie”.
Se per pranzo volete invece gustarvi un saporito spezzatino con le patate, è bene che ricordiate che “le nostre abitudini carnivore risalgono a prima che esistesse la specie umana e sono forse addirittura più antiche del genere Homo. (…) I resti vegetali (trovati in scavi archeologici n.d.a) mostrano però molto chiaramente che gli antichi cacciatori-raccoglitori dell’ultimo massimo glaciale non ci cibavano esclusivamente di carne. (…) Ciò nonostante, potrebbe essere stata proprio la scomparsa della selvaggina, causata dall’aumento demografico, a spingere le popolazioni dell’Asia sud-occidentale, della Cina e di altre aree del pianeta a coltivare piante alimentari e a domesticare animali selvatici”. Vedere nel vostro vitello ridotto a bocconcini un oggetto con una storia evolutiva può essere un modo anche per interrogarvi sui processi di domesticazione. “L’analisi genetica ci dice, ad esempio, che gli uri (gli antenati selvatici dei nostri bovini n.d.a) furono domesticati tre volte: nell’Asia sud-occidentale (molto probabilmente in Siria), nella valle dell’Indo (dove gli Uri diedero origine allo zebù domestico (riconoscibile dalla gobba), e in Africa. In Europa gli uri selvatici erano ancora comuni in epoca romana, ma tutte le razze bovine europee moderne discendono da progenitori domesticati nell’Asia sud-occidentale e non dalle popolazioni locali. Studi di genetica umana dimostrano che nell’Europa occidentale la stessa agricoltura si diffuse con la migrazione di contadini dal Vicino Oriente: è probabile, quindi, che il loro bestiame li abbia seguiti. L’agricoltura, i contadini e il bestiame giunsero in Europa con la formula all inclusive”.
Mentre poi pelate e spezzettate le patate, pensate al vantaggio che ha avuto la sua domesticazione: “le patate selvatiche hanno tuberi piccoli, di dimensioni paragonabili a quelle di una prugna o di un pisello e distribuiti intorno alla pianta su stoloni lunghi anche più di un metro. Ovviamente nelle patate selvatiche la selezione naturale favorisce le piante capaci di diffondersi, cioè quelle che privilegiano la produzione di stoloni lunghi rispetto a quella di grossi tuberi. Con la selezione artificiale, l’uomo ha invertito le priorità per soddisfare le proprie esigenze: le varietà coltivate sono caratterizzate da tuberi di grandi dimensioni che crescono su stoloni corti, posti proprio sotto la pianta”.
Non è poi un caso che le patate debbano essere ben cotte perché “il tubero di una patata o di uno zigolo è una cassaforte ben difesa in cui la pianta immagazzina l’energia che in futuro le servirà per crescere e riprodursi. (…) L’amido presente nei tuberi è talmente compatto che gli enzimi intestinali non riescono a trasformarlo. Un boccone di patata mal cotta può attraversare l’intestino quasi intatto, soprattutto nei bambini. I blocchi cristallini delle molecole di amido sono racchiusi in granuli minuscoli così piccoli da non poter essere spezzati macinandoli con i denti o tra due pietre. La cottura annulla gran parte dei meccanismi di difesa del tubero: le tossine e gli inibitori enzimatici vengono distrutti, i tessuti si ammorbidiscono e i granuli scoppiano, facendo sì che l’amido passi dalla forma cristallina disidratata a una umida e gelatinosa accessibile agli enzimi intestinali”. Come be illustrato da Silvertown, la patata può essere utile anche per ricordarci che sebbene l’uomo non sia un animale così diverso dagli altri ha probabilmente la sua unica e incommensurabile specificità nel fatto che sia l’unico a cucinare: “la cucina è il tratto più evidente della nostra evoluzione”.
Per chiudere il pranzo non può mancare la frutta e perché non optare per una buona uva da tavola. Leggendo Silvertown scoprirete che “i colpi di scena della storia genetica dell’uva potrebbe alimentare la trama di una serie televisiva in 26 puntate. Basterebbe dare un volto ai suoi protagonisti per trasformarla in una saga su unioni proibite che ridanno vigore a vecchie dinastie in declino, con tanto di cambi di sesso, pestilenze e ricomparsa di parenti creduti morti”. Il cammino dell’evoluzione è molto più intrigato della trama della più fantasiosa telenovela televisiva!
Come suggerisce Silvertown “tutto quello che mangiamo ha una storia evolutiva. Gli scaffali dei supermercati traboccano di prodotti dell’evoluzione, anche se l’etichetta sulle confezione del pollo non ce lo ricorderà con una data di scadenza giurassica e i cartellini del reparto ortofrutta non ci sveleranno che il mais ha alle sue spalle seimila anni di selezione artificiale ad opera di civiltà precolombiane. In tutte le liste della spesa, le ricette, i menù e gli ingredienti c’è quindi un silenzioso invito a cena con il padre dell’evoluzione, Charles Darwin”.
Silvertown ci invita quindi a una cena immaginaria a casa Darwin utilizzando l’evoluzione come chiave per rileggere quello che ogni giorno cuciniamo e mangiamo: oggi il cibo può avere un gusto nuovo, che deriva dal ripercorrere/ricostruire il modo in cui ogni ingrediente si è evoluto. Darwin soffrì tutta la vita di dolori di stomaco per cui rinunciò ben presto a grandi cene e pranzi e rileggendo oggi le ricette di Emma (di recente stampate in un libro) troviamo indubbiamente poche idee in grado di ispirare grandi chef per utilizzare i diversi ingredienti di cui Silvertwon illustra l’evoluzione. Da casa Darwin però uscì una “ricetta” ben più importante: la ricetta dell’evoluzione.
Biologo e genetista all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove studia le basi molecolari dell’evoluzione biologica con particolare riferimento alla citogenetica e alla simbiosi. Insegna genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie. Ha pubblicato più di centosessanta articoli su riviste nazionali internazionali e tenuto numerose conferenze nelle scuole. Nel 2020 ha pubblicato per Zanichelli il libro Nove miliardi a tavola- Droni, big data e genomica per l’agricoltura 4.0. Coordina il progetto More Books dedicato alla pubblicazione di articoli e libri relativi alla teoria dell’evoluzione tra fine Ottocento e inizio Novecento in Italia.