Recensione scientifica di “La forma dell’acqua”

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La forma dell’acqua di Guillermo del Toro ha da poco vinto il premio Oscar come miglior film. La pellicola racconta di una stravagante storia d’amore tra una creatura anfibia e una donna. Escludendo alcuni buchi di trama evidenti di questo film, è interessante farne la recensione scientifica, per capire cosa è possibile e cosa non lo è e per imparare qualcosa insieme


Evoluzione: è un pesce? È un tritone? È un rettile?

Parliamo del protagonista della storia. Se uno zoologo trovasse un essere di quel tipo, nella foresta Amazzonica come lo classificherebbe? Questa domanda per un animale così stravagante è di difficile risposta: ha una forma umanoide, un derma tipico di un rettile e parecchi adattamenti al nuoto simili a quelli dei pesci (pinne, scaglie, ecc). Qual è l’animale a lui più imparentato? Quale può essere la sua storia evolutiva?

Uno studioso, subito, escluderebbe che possa essere un ominide adattatosi alla vita acquatica: ha le scaglie – mi raccomando, non squame – e le branchie: caratteristica che non lo può far appartenere al gruppo dei mammiferi. Difatti, tutti i mammiferi che sono ritornati alla vita acquatica (come per esempio le balene, le foche, i dugonghi) non hanno riacquistato le branchie, poiché si tratta di un vincolo morfologico insuperabile.

Allora è un rettile? Anche per questa ipotesi vale il discorso delle branchie: nessun rettile che sia tornato in acqua ha mai riacquistato le branchie, neppure dopo centinaia di milioni di anni, vedasi tartarughe, coccodrilli, ecc.

Non resta che pensare che si tratti di un pesce o di un anfibio. Ovviamente il fatto che la creatura in questione abbia una vita anfibia ci fa subito orientare verso l’idea dell’anfibio; tuttavia, questo tipo di ragionamento è in parte fallace: gli anfibi sono un gruppo di animali che ha una storia evolutiva comune – un po’ come uccelli o mammiferi – ed è questo che permette di raggrupparli. Il fatto che abbiano una vita anfibia (sia sulla terra che in acqua) non è una peculiarità esclusiva e sufficiente: esistono pesci che hanno vita anfibia, così come rettili, mammiferi e uccelli; ed esistono anfibi che hanno vita esclusivamente acquatica o esclusivamente terrestre.

Eppure, il fatto che questa creatura abbia quattro arti e che abbia la pelle che lo rende vagamente simile ad un rettile dovrebbe determinare una sua inclusione negli anfibi. Sulla terra attualmente esiste un solo gruppo di anfibi sopravvissuto all’estinzione: è il gruppo dei lissanfibi, che costituiscono un ristretto gruppo di anfibi fra tutti quelli che sono esistiti sulla terra. Quando i primi anfibi colonizzarono la terra, essi erano molto simili a grossi pesci che avevano sviluppato appendici più complesse. Questi non avevano la pelle liscia, bensì un derma ben rinforzato, un consistente strato di scaglie e delle pinne relativamente simili a quelle della creatura del film. Pertanto, si potrebbe pensare che il “mostro” appartenga ad una specie sopravvissuta di un gruppo di anfibi ormai estinti. Non sarebbe la prima volta che si scopre una specie ritenuta estinta, così come non sarebbe assurdo scoprire un nuovo grosso vertebrato in una foresta tropicale. Oltretutto, per quanto riguarda le specie di ambienti tropicali, è raro trovare fossili dato che l’umidità e la temperatura accelerano i processi di decomposizione e dilavamento di tutti i corpi senza permettere che il processo di fossilizzazione avvenga.

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Acanthostega. Credit image: Raul Martin

Per ora la storia potrebbe quadrare, ma per quanto riguarda la forma umanoide del “mostro”?  Qui l’attinenza alla realtà scientifica inizia a vacillare, ma questo è un errore che accompagna la fantascienza sin dai suoi albori: si dà per scontato che la forma umanoide sia particolarmente apprezzata dai processi evolutivi oppure che sia alquanto funzionale, ma non è così. Se noi umani abbiamo questa forma, se abbiamo cinque dita, le braccia con certe proporzioni e tutto ciò che ci caratterizza, è perché abbiamo una particolare storia e un preciso punto di partenza. La forma umanoide della nostra specie è il frutto di un percorso di contingenze e di casualità: partendo da animali simili a grossi topi, siamo arrivati alla forma attuale attraverso un processo di adattamento alla vita arborea e, secondariamente, ad un adattamento alla vita terrestre. Ripercorrendo al contrario la vita evolutiva dell’essere umano, oppure cambiando qualche evento climatico, probabilmente non ci troveremmo ad avere questa forma, o addirittura saremmo estinti. Pertanto, un anfibio amazzonico che in qualche modo riesce a raggiungere una forma umanoide è un evento praticamente impossibile.

Ricapitolando, le probabilità che in Amazzonia si possa ritrovare un grosso anfibio con un derma compatto, scaglie e pinne non è una cosa improbabile, lo è il fatto che esso abbia sembianze umanoidi. Si può anche escludere che si tratti di un primate adattatosi alla vita acquatica – cosa che ne spiegherebbe la forma – ma se così fosse, esso non avrebbe branchie, scaglie o pinne, le quali sono caratteristiche peculiari dei pesci e degli anfibi. In tal caso si verificherebbero adattamenti più simili a quelli delle foche o dei cetacei.

In ogni caso, la soluzione migliore sarebbe una analisi genetica, permettendo di capire chiaramente con chi questo essere sia più imparentato.


Acqua e sale

Per essere un film che si intitola La forma dell’acqua, ci sono varie problematiche che nascono dall’ignoranza riguardo le proprietà dell’acqua. Il primo fatto evidente avviene in una delle scene più caratteristiche e più problematiche di questo film: la protagonista entra in una stanza ed apre i rubinetti del lavandino e della vasca da bagno, cercando con un asciugamano di tappare la fessura sotto alla porta al fine di riempire una stanza. Questa stanza è circa larga 3 metri, profonda 4 e alta 3: ciò significa che il suo volume è di 3mx4mx4m=36 metri cubi. L’intento quindi, è di riempire di una stanza di 36.000 litri di acqua. Non considerando per un momento il fatto che l’acqua continui ad uscire dai buchi e dalle fessure, assumendo che da ogni singolo lavandino escano 200 litri l’ora, ci vorrebbero circa 4 giorni interi per riempire la stanza. Ma il problema più grande è che in realtà l’acqua ha un peso notevole (circa 1 kg per litro) e ciò significa che la stanza piena peserebbe 36 tonnellate: il peso di 6 elefanti adulti. Non serve sottolineare che un peso di 36 tonnellate sopra ad un cinema con le travi in legno, senza neppure delle colonne portanti, causerebbe non pochi danni.

L’altro grosso problema del film riguarda il sale. Qui la faccenda non è affatto chiara: inizialmente è detto che la creatura provenga dall’Amazzonia, ma poco dopo si scopre che necessita di 35 grammi di sale per litro di acqua – che per inciso è la quantità di sale che si trova negli oceani. In una delle scene a seguire, si vede il mostro rischiare la vita per la mancanza di sale, problema che viene risolto aggiungendone una manciata in una vasca da bagno contenente circa 100 litri: stando ai calcoli, allora, la creatura avrebbe avuto bisogno di circa 3,5 kg di sale, non semplicemente mezzo barattolo!

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Successivamente, l’essenzialità del sale sembra non avere più importanza: quando la stanza viene riempita d’acqua, la salinità è per forza precipitata a zero, così come quando il mostro si trova sotto la pioggia e avrebbe dovuto soffrire la totale mancanza di sali in essa.


Sesso

La forma dell’acqua è una storia d’amore, e in quanto tale è singolare, poiché i due innamorati sono animali di due specie differenti: una femmina di Homo sapiens ed un anfibio umanoide. Per tale ragione vi è un aspetto particolarmente interessante: il coito. La protagonista lascia intendere che tra i due avvenga un rapporto sessuale completo, grazie al fatto che l’anfibio abbia un pene retrattile – il pene retrattile non è una cosa scientificamente così improbabile. Molti mammiferi acquatici, a causa di una pressione selettiva dovuta all’idrodinamicità, hanno peni che possono essere tenuti dentro a particolari “tasche” durante il nuoto e liberati per il rapporto sessuale.

In biologia, tuttavia, vi è una cosa importante da tenere in considerazione nel caso del pene: la coevoluzione. Bisogna pensare al pene e alla vagina di una stessa specie come due sistemi che si evolvono insieme e che negli ultimi milioni di anni si siano adattati l’uno all’altro. Perciò ipotizzare che il pene di una qualsiasi altra specie non umana possa essere compatibile e possa stimolare una donna è praticamente impossibile. Per quanto riguarda l’organo del pene, esiste una grande variabilità in natura: i rettili di solito ne hanno due (anche se si chiamano emipeni), moltissimi animali lo hanno di forme strane, non compatibili con una vagina umana, altri hanno spine o sono troppo piccoli. Persino i nostri parenti più stretti (i primati) hanno peni troppo piccoli e non compatibili. E quindi, di nuovo, l’idea che un anfibio possa avere un pene compatibile con la vagina di una donna è alquanto assurdo; per di più, gli anfibi viventi non hanno peni e basandosi su come avviene il loro sviluppo embrionale, se proprio dovessero sviluppare un pene, probabilmente ne avrebbero due.


Questo film ha meritato il premio Oscar per la storia, la scrittura dei personaggi, la fotografia e gli spunti che riesce a dare. Ovviamente l’attendibilità scientifica passa in secondo piano e non è mai stata un obiettivo del regista e degli sceneggiatori. Lungi dal disincentivare qualcuno nel vedere questo film, per noi è stato una possibilità per approfondire dei temi e scoprire alcune peculiarità del mondo scientifico.