Retrotrasposoni e forme di vita complesse

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“Geni saltellanti”, porzioni di genoma non codificanti e meccanismi di riparazione del DNA: le interazioni tra questi elementi potrebbero aver avuto un importante ruolo, precedentemente non compreso, nell’evoluzione degli eucarioti

I retrotrasposoni (comunemente detti jumping genes o geni saltellanti) e le particolari interazioni di tali elementi genetici con il DNA degli eucarioti, potrebbero aver avuto un importante ruolo nell’evoluzione di questi ultimi. A stabilirlo è uno studio pubblicato su Proocedings of the National Academy of Sciences condotto da un team di ricercatori provenienti dalla University of Illinois at Urbana-Champaign.

Un retrotrasposone è un frammento di DNA in grado di spostarsi e di inserirsi in zone diverse del genoma (Pikaia ne ha parlato ad esempio qui e qui). Essi si spostano grazie ad un intermedio a RNA, tramite l’azione dell’enzima trascrittasi inversa, e furono per la prima volta identificati da Barbara McClintock circa 50 anni fa.

Lo studio parte da alcune osservazioni fatte da Nigel Goldenfield, professore di fisica all’Università dell’Illinois e direttore dell’Astrobiology Institute for Universal Biology della NASA, e Thomas Kuhlman, ora ricercatore all’Università della California a Riverside. I due si sono chiesti come mai il genoma umano sia composto quasi per il 50% da elementi trasponibili, mentre essi siano così rari nei batteri. E hanno deciso di indagare.

Quando i ricercatori hanno provato ad inserire dei retrotrasposoni (quello umano LINE-1 e l’introne batterico LI-LtrB) all’interno del genoma di un batterio, ciò che hanno osservato è stata la morte del batterio stesso. Questo perché, quando i retrotrasposoni si moltiplicano all’interno del genoma batterico, nel momento in cui essi si traspongono (si trasferiscono), possono andare facilmente ad interferire con un gene necessario alla sopravvivenza del batterio, che inevitabilmente muore. Alcuni batteri, come ad esempio E. coli, possono riparare il danno solamente rimuovendo l’ospite indesiderato, e mantenendo di conseguenza pressappoco inalterate le dimensioni del genoma.

Gli eucarioti, al contrario, possono contare su un altro meccanismo di riparazione del DNA, il cosiddetto non-homologous end-joining (NHEJ) che consente di saldare due estremità di DNA anche in assenza di una sequenza che possa fungere da stampo. I ricercatori hanno dunque deciso di “fornire” ai batteri la stessa capacità degli eucarioti di effettuare NHEJ, ritenendo che in questo modo la sopravvivenza batterica sarebbe aumentata. Ciò che accadde fu invece il contrario: l’effetto letale dei retrotrasposoni risultò amplificato.

Secondo i ricercatori, la differenza fondamentale risiede nel fatto che negli eucarioti, gli elementi mobili sono spesso associati al cosiddetto DNA spazzatura (Junk DNA), ovvero porzioni non codificanti del genoma. Insieme, accumulo di DNA non codificante, retrotrasposoni e interazione di questi ultimi con il NHEJ, fanno sì che il genoma possa aumentare di dimensioni e divenire sempre più complesso.

Come emerge anche da numerosi studi effettuati in precedenza, in questo modo le nuove porzioni genomiche possono interagire, e sequenze prive di utilità possono cambiare ruolo nel corso dell’evoluzione e acquisire funzioni totalmente nuove. Un esempio è dato da uno dei due elementi per il controllo del gene codificante per la propiomelanocortina (POMC), che deriva da proprio un retrotrasposone. Non è raro nemmeno che copie dello stesso retrotraspone siano “riciclate” in altre parti del genoma (Pikaia ne ha parlato ad esempio qui).

Inoltre, i retrotrasposoni potrebbero aver significativamente contribuito alla transizione tra cromosomi circolari (tipici dei batteri) a quelli lineari, ulteriore indicatore di complessità.

Gli organismi complessi possono contare anche sullo spliceosoma per il controllo del proprio genoma, un complesso enzimatico che rimuove dal DNA porzioni non codificanti (così come il Junk DNA) dopo la trascrizione. Poiché gli spliceosomi hanno una struttura molto simile al gruppo II degli introni, di origine batterica, l’ipotesi dei ricercatori è che tali introni abbiano in qualche modo “invaso” le prime cellule eucariotiche, e che, grazie all’interazione col meccanismo di riparazione NHJE, abbia avuto origine il primo spliceosoma.

Sarebbe poi stato lo spliceosoma, grazie alla capacità di “tagliare e cucire” il genoma in punti diversi, a fornire agli organismi la capacità di fare di più con il proprio DNA e generare differenti prodotti a partire dallo stesso gene. Nella nostra specie tale capacità è particolarmente spiccata, se pensiamo che Homo sapiens possiede all’incirca lo stesso numero di geni del nematode Caenorhabditis elegans: noi però, con i nostri geni possiamo fare molto di più.


Riferimento:
Gloria Lee, Nicholas A. Sherer, Neil H. Kim, Ema Rajic, Davneet Kaur, Niko Urriola, K. Michael Martini, Chi Xue, Nigel Goldenfeld, Thomas E. Kuhlman. Testing the retroelement invasion hypothesis for the emergence of the ancestral eukaryotic cellProceedings of the National Academy of Sciences, 2018; 201807709 DOI: 10.1073/pnas.1807709115

 

Immagine da Pixabay