Ripensare il genere Homo

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Gli antropologi Jeffrey H. Schwartz e Ian Tattersaal richiamano l’attenzione sulla definizione del genere Homo e le specie in esso incluse, proponendo di fare chiarezza sulla scelta dei criteri morfologici che hanno caratterizzato la nostra lussureggiante diversità, pari a quella di altri mammiferi

Sarà la dipendenza da uno dei principi più fondamentali della cognizione, quello che Aristotele enunciava come “impossibilità che la stessa cosa insieme inerisca e non inerisca alla medesima cosa e secondo il medesimo rispetto” (Metafisica, Γ 1005b 15-20), a rendere quanto più chiari, precisi e non ambigui i criteri per un’ attribuzione definitoria. Quasi mai, però, l’impresa tassonomica è esente da incertezze, e fatto salvo il principio di non contraddizione, per cui un esemplare non può godere contemporaneamente di una doppia attribuzione classificatoria, i confini che ricomprendono tale classificazione secondo gerarchie di distinzioni crescenti possono però modificarsi, rimodulando l’ambito di pertinenza nel caso di una nuova scoperta. Lo aveva sperimentato da vicino Darwin alle prese con la classificazione dei cirripedi, un lavoro così complesso da confessare nella corrispondenza con l’amico botanico Joseph Dalton Hooker “cosa mai avesse commesso per meritare una tale punizione!” (lettera 25 settembre 1853).

Da quando la comprensione dei processi evolutivi ha deflagrato la fissità metafisica della specie, il tempo e lo spazio profondi ne hanno attraversato la costituzione, mostrandone anche l’incertezza. È questo, ad esempio, il caso dell’individuazione di specie incipienti che rendono sottili le distinzioni tra la nuova specie e quella di provenienza. Le difficoltà emergono ancora più chiaramente quando i criteri adottati per la distinzione, non afferiscono alla sola sfera morfologica, e dunque alla descrizione fisica degli organismi in questione, ma anche alla sfera ecologica come l’individuazione delle relazioni trofiche con l’ambiente, o a quella comportamentale attraverso l’osservazione di pattern riproduttivi divergenti.

Anche la riflessione sul genere non sfugge a queste difficoltà. Anzi, poiché il genere abbraccia, per definizione, uno spettro ampio di diversità specie-specifica, ne è forse investito con maggiore forza. Occorre, infatti, individuare criteri che siano abbastanza stringenti da distinguere un genere dall’altro, ma allo stesso tempo quanto più condivisi dalle diverse specie incluse. A ciò va aggiunto che quanto maggiori sono le difficoltà, tanto più è vicino il focus d’indagine. E in questo caso è il genere Homo, la questione che ci “riguarda”. Infatti, il “conosci te stesso”, la massima delfica che il tassonomista Linneo riecheggiava nel suo Systema Naturae (1735) al momento della definizione del nostro genere, tuona ancora, anche nel dominio paleoantropologico.

Il genere Homo che a lungo ha annoverato una sola specie, H. sapiens, e che tuttora ne annovera solo una esistente, è un caso unico.  A partire dall’Ottocento, con la scoperta della dimensione fossile del nostro passato evolutivo, questo genere ha cominciato ad estendere i suoi confini, e questa estensione è certo influenzata dalla rappresentazione dei criteri che noi stessi abbiamo ritenuto fondamentali per la sua individuazione.

A richiamare l’attenzione sulla definizione sul genere Homo sono gli antropologi Jeffrey H. Schwartz e Ian Tattersaal in un recente articolo su Science. Gli autori denunciano una crescente ambiguità del termine a causa delle recenti attribuzioni di resti fossili ad esso ricondotte, lamentando una attenzione particolarmente scarsa ai dettagli morfologici. Secondo quali criteri è possibile distinguere l’ “Homo antico” da altri generi con cui pure abbiamo condiviso parte della nostra storia evolutiva?

Alla fine del Settecento, ricordano gli antropologi, il naturalista Johann Friedrich Blumenbach distingueva Homo da altri mammiferi per la presenza di particolari caratteristiche morfologiche come i canini piccoli, la coda, la postura eretta, ecc., caratteristiche che contraddistinguevano l’uomo moderno e che invece, le scoperte successive attribuirono anche agli ominidi. Nel secolo successivo, la scoperta di H. neanderthalensis ampliava per la prima volta il genere Homo ad un’altra specie oltre alla nostra. Estensione che avrebbe ancora allargato i suoi confini, con la scoperta di H. erectus e H. habilis. A questo punto i criteri di distinzione morfologica come il bipedismo, l’espansione cerebrale si ibridano con altre caratteristiche come la capacità di adattamento agli ecosistemi (Dobzhansky) o la fabbricazione degli strumenti litici (Leakey), una attribuzione particolarmente sentita a dispetto di una morfologia ancora molto vicina al genere Australopithecus. É proprio l’accento sul piano adattativo piuttosto che su quello morfologico a rafforzarsi in ambito paleoantropologico e a rendere ancora più oscura la definizione di Homo. L’inclusione di H. habilis nel genere Homo ne ha talmente ampliato i tratti morfologici che molti ceppi di svariati esemplari antichi potrebbero essergli attribuiti senza particolari restrizioni. Una volta che la definizione espansa di Homo si è imposta, infatti, le specie di “Homo antico”si sono ineluttabilmente moltiplicate. Ciò ha acceso alcune controversie sulla base delle ricostruzioni cladistiche, cioè genealogiche, che potrebbero aver interessato alcune specie tra i primi Homo e altre appartenenti al genere Australopithecus. Si sono aggiunte discussioni sulle caratteristiche di riconoscimento dei primi esemplari del genere Homo che, ad esempio, per l’equipe di Susan Antòn et al. sarebbero identificabili per aspetti adattativi connessi al clima e al territorio e non tanto sulla base delle dimensioni cerebrali, mentre per Fred Spoor et al. sarebbero legate alle dimensioni craniche, pur rimanendo primitiva la struttura delle fauci. Brian Villmoare et al. sostiene, invece, di aver identificato il primo esemplare di Homo con la mandibola LD350-1, descrivendo tratti distintivi rispetto a Astalopithecus afarensis e concludendo che l’uomo antico ha fin dalla sua storia arcaica imboccato una strada diversificata.

Questi esempi ci dicono che la morfologia di Homo va ridefinita con precisione. Sono in questione i criteri adattativi e morfologici che ora spingono alcuni antropologi a distinguere alcune specie tra i primi Homo dagli australopiteci, ora a raggrupparli tra questi ultimi. Per Schwartz e Tattersaal occorre un riassestamento delle specie incluse nel genere Homo e un’analisi più puntuale dei dettagli morfologici che l’analisi paleantropologica ha oscurato a favore di generalizzazioni adattative.  «Se vogliamo essere obiettivi – concludono radicalmente  gli autori – dovremmo almeno abolire la lista iconica di nomi  in cui sono stati intrappolati storicamente gli esemplari fossili di ominidi e ripartire dall’inizio ipotizzando forme, costruendo teorie sperimentali di parentela e ripensando generi e specie». Una prospettiva non certo lineare, ma che va in direzione del fatto che l’evoluzione umana al pari di quella degli altri mammiferi, presenta un’alta sperimentazione evolutiva e una lussureggiante diversità, non imbrigliata nei ristretti schemi adattativi che ci siamo costruiti.


Riferimenti:
Jeffrey H. Schwartz, Ian Tattersall, Defining the genus Homo, Science 28 August 2015: Vol. 349 no. 6251 pp. 931-932 DOI: 10.1126/science.aac6182

Credit image: Jeffrey H. Schwartz