Senza il lupo, le prede ballano

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Diciamocelo, ognuno di coloro che si sono occupati anche solo lontanamente di ecologia non può non sapere che le conclusioni di un recente studio sono ovvie. E in effetti pochi articoli sono chiari fin dalle prime righe. Uscito su Science, ha un titolo palese (Trophic downgrading of Planet Earth) e dimostra le proprietà sintetiche ed eleganti del linguaggio scientifico quand’è […]


Diciamocelo, ognuno di coloro che si sono occupati anche solo lontanamente di ecologia non può non sapere che le conclusioni di un recente studio sono ovvie. E in effetti pochi articoli sono chiari fin dalle prime righe. Uscito su Science, ha un titolo palese (Trophic downgrading of Planet Earth) e dimostra le proprietà sintetiche ed eleganti del linguaggio scientifico quand’è usato bene. Prima di tutto il fatto che nel titolo si usi “Pianeta Terra” è emblematico dell’importanza del lavoro stesso, poi in un paio di parole dimostra come il peggiorament odella situazione sia dovuto a un aspetto fondamentale dell’ecologia, quello del passaggio di energia sotto forma di cibo attraverso i livelli ecologici. Ma vediamo le righe che spiegano il tutto:
 
Until recently, large apex consumers were ubiquitous across the globe and had been for millions of years. The loss of these animals may be humankind’s most pervasive influence on nature.

Uccidere un lupo, uno squalo e un orso non è solo un peccato dal punto di vista etico ed estetico, come insistono a dire i cacciatori europei, per i quali un approccio utilitaristico giustificherebbe le uccisioni. È anche un grave danno fatto all’intero tessuto del pianeta. E questo perché la mancanza di un livello trofico, la distruzione di un nodo nelle reti alimentari ha profonde ripercussioni su tutto quello che c’è a livelli più bassi. Insomma, la tesi degli autori è che le conseguenze pratiche della sparizione dei predatori di vertice o in generale di specie “pivot” di un ecosistema sono difficili da determinare in pratica, ma non complesse in teoria. E la teoria dice appunto che un sistema può assumere stati diversi che però non fanno parte di un continuum, ma sono “stati stabili alternativi” discreti. L’ecosistema può saltare dall’uno all’altro in un tempo relativamente breve, spinto da cambiamenti esterni quando questi sono abbastanza ampi e costanti nel tempo. Ovviamente ogni sistema tende a resistere alle modifiche finché non raggiunge quello che si definisce tipping point, il momento in cui le complesse interazioni si spezzano e il sistema si riposiziona nel suo nuovo stato. Che spesso, proprio perché manca un componente importante (predatore in particolare, ma non solo) è anche più semplice dell’altro. Se ricordo bene, la semplicità può essere calcolata come numero di interazioni tra le specie ed è direttamente proporzionale alla biodiversità. Non è detto che un ecosistema più semplice sia anche più instabile, ma in ogni caso dovrebbe essere meno produttivo e forse meno resistente alle invasioni (qui un outline del dibattito, e qui un bell’articolo sull’argomento). Insomma, un ecosistema privo di predatori di vertice non può far altro che diventare più povero di specie e con poche specie dominanti; i predatori selezionano le specie più abbondanti e quindi il loro effetto è aumentare il numero di specie di prede.
 
Ma fosse solo questo (pochi leoni, tanti gnu, pochi alberi) in fondo tutto ciò sarebbe limitato. L’articolo invece esamina molti altri esempi di ecosistemi modificati e delle conseguenze della perdita di predatori di vertice. Per esempio il classico caso dei ricci di mare e delle alghe: nelle foreste di kelp del Pacifico settentrionale (Pikaia ne ha parlato qui) il collasso della popolazione di lontre marine (Enhydra lutris – dovute in questi anni anche anche al cambiamento di dieta da parte delle orche, che hanno dovuto mangiare quel che avevano dopo che l’uomo ha sottratto loro le balene di cui si nutrivano. Nel secolo scorso fu causato dalla caccia per la pelliccia), ha portato a un aumento della popolazione di ricci di mare (Strongylocentrotus spp.), che hanno a loro volta mangiato le alghe brune (kelp) che in quell’angolo di Pacifico costituiscono vere e proprie foreste estremamente ricche di specie.

Altri esempi sono quelli di un lago in Michigan, dove sono stati rimossi i persici trota (Micropterus salmoides) e nel quale la catena trofica ha fatto sì che il lago diventasse più chiaro perché i predatori mangiano i piccoli pesci che mangiano lo zooplancton che mangia il fitoplancton. Il quale se diminuisce trasforma il lago da sink a source di CO2 (come qui)

Nell’articolo ci sono molti altri esempi di questo tipo, e alcuni spiegano com’è possibile che la scomparsa di predatori o in genere di specie importanti possa avere grosse conseguenze non solo localmente, ma anche e soprattutto a livello globale o almeno di bioma. Per esempio l’introduzione del rinderpest in Africa orientale ha decimato la popolazione di gnu e bufali e di conseguenza ha provocato un aumento della copertura arborea, con conseguente maggior numero di incendi. Quando la malattia è stata debellata, gli erbivori sono aumentati ed è diminuita la copertura arborea, con conseguente diminuzione anche degli incendi. Un altro esempio lo si legge nella didascalia della foto sotto. Per non parlare dell’aumento degli incendi in Australia dopo l’arrivo dell’uomo (qui si tratta dell’arrivo di un superpredatore non del contrario).
 
Altri comparti degli ecosistemi riguardano il suolo, i nutrienti (l’arrivo delle volpi polari in alcune isole artiche ha diminuito l’apporto dei nutrienti perché sono crollati gli uccelli marini che portavano sull’isola le feci dei pesci catturati) e la biodiversità. Gli articoli che denunciano come la scomparsa di un predatore diminuisca la biodiversità sono ormai innumerevoli, anche se non tutti sono convinti (filosoficamente) che un ambiente ricco di specie sia “meglio” di uno povero. Quello che invocano gli autori è un cambio di paradigma, cioè dalla considerazione delle specie viventi (e di quelle rare e “grosse” come i predatori in particolare) come sovrastrutture ai cicli biogeochimici, che vanno avanti da soli anche senza di loro, a importanti componenti dell’ambiente senza i quali, e senza il loro controllo dall’alto (top-down) non possono esistere ecosistemi ricchi e stabili. L’articolo è ricco di riferimenti bibliografici, di rimandi e di passi problematici. Se riuscite a metterci le mani sopra, da tenere in gran conto.

Tratto da Leucophaea, il blog di Marco Ferrari

Foto di Andrea Romano