Siamo tutti un po’ razzisti?

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Uno studio del 2012 fa ancora parlare di sé, il motivo? Dimostrerebbe che una parte del nostro cervello è portata ad etichettare come pericolose persone appartenenti ad una “razza” diversa dalla nostra, innescando un conflitto tra istinto e ragione che potrebbe essere alla base delle discriminazioni di matrice razziale, un problema messo oggi in risalto dalla crisi europea dei migranti

Il nostro comportamento nei confronti del diverso è legato solo a pregiudizi e stereotipi oppure dipende anche dall’attività intrinseca del nostro cervello? Uno studio pubblicato su Nature Neurosciences del 2012, che continua a suscitare dibattito, condotto da Jennifer T. Kubota, Mahazarin R. Banaji e Elizabeth A. Phelps, di Harvard University e New York University, ha cercato di indagare su come l’attività cerebrale influenzi il modo in cui gli esseri umani percepiscono e categorizzano persone appartenenti a differenti “razze”, termine scorretto per indicare le diverse etnie ma usato nell’esperimento per valutare la percezione comune della diversità.

Il team statunitense, tramite test d’associazione implicita, che verifica la forza dei legami associativi nelle persone, ha analizzato la risposta spontanea dei soggetti sottoposti alla visione di immagini raffiguranti volti appartenenti a persone di differenti etnie. Tramite risonanza magnetica poi sono state individuate le aree del cervello operanti in questi processi di percezione, che coinvolgono quattro aree ben definite del telencefalo: l’amigdala, la FFA (area fusiforme facciale), l’ACC (corteccia cingolata anteriore) e la DLPFC (corteccia dorsolaterale prefrontale).

Il test ha rivelato come il giudizio razziale operi in due fasi: la prima, istintiva, coinvolge l’amigdala e l’area fusiforme facciale che si occupano della categorizzazione immediata del diverso, mentre la seconda, più razionale, riguarda la corteccia cingolata anteriore e la corteccia dorsolaterale prefrontale, che integrano l’esperienza personale e il contesto sociale.

L’attività istintiva iniziale si traduce nella diffidenza del soggetto verso la persona raffigurata e nella sua alienazione rispetto al proprio contesto sociale e culturale, in un atteggiamento di difesa da ciò che è percepito come estraneo e che potrebbe costituire una minaccia. Questa attività è stata registrata quando, ad esempio, a statunitensi bianchi venivano mostrate immagini ritraenti soggetti afroamericani.
Questa iniziale diffidenza però viene subito mitigata dall’attività razionale esercitata dalla corteccia cerebrale che riconosce l’individuo come appartenente ad un contesto comune. Siamo quindi neurologicamente portati ad avere, in prima istanza, pregiudizi ed un’empatia minore nei confronti del “diverso”, visto come qualcosa di estraneo al nostro contesto sociale e familiare. La parte razionale però subentra immediatamente e fa la differenza, prevalendo su quella istintiva, permettendoci di identificarci come appartenenti ad un unico grande gruppo: quello umano. In sostanza, i ricercatori hanno rilevato un conflitto tra aree differenti del cervello quando il soggetto osserva un individuo diverso da lui o da lei.

Nonostante questo istinto quasi automatico, rimane molto forte l’influenza dell’apprendimento sociale e culturale, come mostrano, per esempio, i dati relativi agli individui afroamericani che hanno partecipato al test: la percentuale di soggetti con pregiudizi nei confronti del loro stesso gruppo di appartenenza era molto elevata. In altre parole, molti afroamericani sono predisposti (come conseguenza di meccanismi sociali originati dalla comunità di appartenenza) a temere i membri del loro stesso gruppo. Un altro punto che rafforza l’idea di un’influenza di questo tipo si riscontra nel fatto che persone di colore famose, come politici, attori e sportivi, vengano visti come un modello positivo e percepiti quindi subito come familiari, senza che vi sia l’attivazione iniziale delle aree emozionali istintive.

In conclusione, possiamo affermare che una parte del nostro cervello è predisposta a reagire in modo negativo se esposta alla diversità umana, anche se il cervello tende rapidamente a razionalizzare questa reazione, la quale è comunque influenzata dalla cultura e dalle esperienze che il soggetto ha fatto. Ne deriva che per arginare le tentazioni razziste è necessario un impegno educativo precoce e costante volto alla mediazione e all’integrazione.


Autori:
Sara Catalanotti, Francesco Lunardelli, Giorgia Malfatti, Samirah Nirou, Lorenzo Rigotti 

Immagine: Collective [CC BY-SA 3.0], via Wikimedia Commons