Quando le specie aliene invasive sono in pericolo nei loro habitat d’origine: un paradosso della conservazione

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Alcuni mammiferi invasivi, dannosi negli ecosistemi colonizzati, potrebbero rappresentare un’ancora di salvezza per la loro specie a rischio nei territori d’origine.

Dalle nutrie all’ailanto, dalla zanzara tigre al granchio blu: sono solo alcuni esempi delle più note specie aliene invasive presenti anche in Italia. Questo significa che sono specie non autoctone (aliene) e che sono in grado di causare danni al nuovo ambiente (invasive).

Ma a volte le stesse specie in grado di “conquistare” nuovi territori, riproducendosi molto più velocemente delle specie native, possono essere classificate come in pericolo là dove si sono evolute. Uno studio pubblicato su Conservation Letters ha approfondito questo paradosso della conservazione per quanto riguarda i mammiferi.

Lo studio è stato guidato dalla dottoressa Lisa Tedeschi, affiliata alla Sapienza di Roma e all’Università di Vienna, e coordinato dal professor Carlo Rondinini della Sapienza.

Cambiare prospettiva

A causa di Homo sapiens molte specie, sono minacciate. Ed è sempre a causa nostra che, direttamente o indirettamente, alcune sono introdotte in regioni dove non avrebbero mai potuto migrare. Tuttavia, queste introduzioni potrebbero, in alcuni casi, ridurre il margine di rischio estinzione delle stesse specie che sono sotto minaccia nell’habitat originario. Nel caso dei mammiferi, esistono decine di questi casi.

“L’idea di questo studio nasce da un confronto tra me e Lisa – racconta Carlo Rondinini – anche lei aveva incontrato esempi in letteratura, e anche i co-autori dello studio [Bernd Lenzner, Anna Schertler, Dino Biancolini, Franz Essl n.d.r] erano a conoscenza di questi casi

Spiega la dott.ssa Tedeschi:

“L’idea di per sé è semplice. Abbiamo raccolto dati in letteratura e ‘sommato’ i numeri di individui stimati nelle popolazioni aliene. Abbiamo poi confrontato i chilometri quadrati occupati da queste popolazioni con i con i parametri richiesti dall IUCN, per valutare se cambiava la classificazione del rischio”

Ne è emerso che su circa 240 specie di mammiferi a rischio di estinzione nel loro areale originario, 36 hanno stabilito altrove popolazioni aliene. Queste specie “colonizzatrici” si sono insediate soprattutto nel Sud-est asiatico insulare, in Australia e, in misura minore, in Europa e negli altri continenti. A volte il trasferimento, prevalentemente per ragioni venatorie e attraverso il commercio di animali esotici, è avvenuto da un continente all’altro, ma spesso le popolazioni aliene si sono stabilite all’interno dello stesso continente. Si tratta prevalentemente di artiodattili, seguiti da primati e dai diprodonti (marsupiali).

Cercare un nuovo equilibrio

Lo studio mette in evidenza la possibilità di cambiare la classificazione di rischio estinzione considerando le popolazioni aliene. Una valutazione aggiunta rispetto a oggi che potrebbe migliorare le politiche di tutela.

Le popolazioni aliene potrebbero essere delle vere e proprie “arche”, dei “bacini di sicurezza” per salvare le specie dall’estinzione, nonostante, nel caso siano invasive, creino significativi danni agli ecosistemi. Tuttavia, anche l’estinzione della specie causerebbe un danno.

Avverte il prof Rondinini:

“Non tutti sono pienamente d’accordo con questa visione. Mentre chi si occupa di conservazione si avvicina all’idea di riconsiderare le specie aliene, chi invece si occupa di specie aliene e aliene invasive le ritiene tendenzialmente dannose. Conservazionisti e “invasionisti” tendono ad avere versioni opposte al momento, anche se questo studio è frutto di un’attenta e calibrata collaborazione, fino all’ultimo dettaglio di punteggiatura, tra me conservazionista e Franz Essl, a guida del gruppo che si occupa di invasioni biologiche presso l’Università di Vienna.”

Il coniglio europeo, il cervo di Giava o il macaco crestato di Celebes sono alcune delle specie per le quali, se si considerassero anche le popolazioni aliene, la valutazione del rischio di estinzione potrebbe cambiare. Ma la questione è delicata: se consideriamo una specie meno minacciata, allora questo potrebbe diminuire le pratiche di conservazione nei confronti delle popolazioni autoctone.

Inoltre, prosegue la dott.ssa Tedeschi:

“Molte regioni del mondo in cui questo fenomeno può essere maggiormente evidente, e ha bisogno di maggiore attenzione per essere regolato, potrebbero non avere ora i mezzi economici e normativi per gestire efficacemente le politiche di conservazione”

La proposta degli autori è quella di uscire dalle visioni polarizzanti e considerare caso per caso la complessità degli aspetti conservazionistici. Trasformare i contrasti in confronti, le diatribe in dialoghi, per poter attuare politiche di conservazione mirate che riducano i costi, sociali, economici, e aumentino i benefici.