Un nuovo modello per la biodiversità

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Perché la biodiversità è maggiore sulle terraferma rispetto al mare? C’è un legame con la latitudine degli ecosistemi? E con l’età dei cladi? Un nuovo modello aiuta a orientarsi nei “capricci” della biodiversità.

Il nostro pianeta trabocca di biodiversità: sono circa 1,8 milioni le specie identificate fino a oggi, ma gli scienziati stimano che il il numero complessivo sia tra i due e gli otto milioni. Come si sia giunti a una simile ricchezza di specie è ancora oggetto di dibattito tra gli scienziati e le domande senza risposta sono molte. È vero che l’età di un clade correla con il rischio di estinzione? Perché gli ecosistemi marini sono meno ricchi di specie rispetto a quelli sulla terraferma? Perché sembra esistere una correlazione tra latitudine ed eventi di speciazione? Un gruppo di ricercatori ha sviluppato un nuovo modello matematico che tenta di rispondere a queste domande.

L’analisi della biodiversità terrestre sembrerebbe sfuggire, quasi per definizione, a qualsiasi descrizione rigida e sistematica. Eppure esistono andamenti generali con cui gli scienziati continuano a imbattersi: si tratta delle “tre regole della biodiversità”, illustrate da Micheal J. Benton su Plos Biology. La prima regola riguarda la correlazione tra l’età del clade e il rischio di estinzione: i gruppi più antichi dal punto di vista evolutivo sembrano avere una maggiore probabilità di sopravvivere rispetto a quelli emersi in tempi più recenti.

La seconda regola illustra la diversa distribuzione della biodiversità: a partire da circa 100 milioni di anni fa, sulla terraferma le specie si sono diversificate molto più rapidamente di quanto non abbiano fatto le specie marine. Infine, la terza regola mette in luce l’effetto della latitudine, ovvero il gradiente di biodiversità che raggiunge il suo apice in corrispondenza dell’equatore. Con le dovute eccezioni, i tropici sembrano essere un immenso serbatoio di specie e forniscono la forza motrice per crearne di nuove.

Perché la biodiversità segue queste “regole”? Conoscere la risposta a questa domanda aiuterebbe gli scienziati a valutare il rischio relativo di estinzione per ogni specie. Un nuovo studio, anch’esso pubblicato su Plos Biology, getta le basi per un cambio di paradigma e suggerisce che, a differenza di quanto ritenuto finora, uno stesso clade può seguire diversi modelli di diversificazione nel corso della sua storia evolutiva.

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Una delle “regole” della biodiversità sottolinea la diversa ricchezza di specie che distingue gli habitat terrestri, in marrone, da quelli marini, in blu (Immagine: Benton M. Plos Biology 2016).


Fino a oggi i ricercatori ritenevano che, partendo da un antenato comune, l’attuale livello di biodiversità si potesse raggiungere solo in due modi: per crescita esponenziale del numero di specie oppure mediante una crescita logistica, con un aumento progressivo della diversificazione fino a un livello mantenuto stabile nel tempo. Ma la verità potrebbe stare nel mezzo. Analizzando 214 alberi filogenetici di famiglie di vertebrati, un gruppo di ricercatori ha identificato cinque modelli di diversificazione, distinguibili per la diversa distribuzione degli eventi di ramificazione dal “tronco” principale dell’albero filogenetico. Queste diverse traiettorie di sviluppo non si riscontrano solo tra cladi diversi, ma anche all’interno dello stesso clade. In altre parole, è possibile riconoscere – in momenti diversi della storia evolutiva di un clade – l’adesione a diversi modelli di speciazione.

Grazie a questa analisi, i ricercatori hanno inoltre distinto gli alberi filogenetici in due categorie principali. Gli alberi stemmy (dall’inglese stem, tronco) generano più ramificazioni vicino alla base; dal punto di vista filogenetico, questo modello riflette eventi di speciazione che si sono concentrati alle origini della vita evolutiva di un clade. Negli alberi tippy (dall’inglese tip, punta) la maggior parte delle ramificazioni si concentra invece vicino all’apice dei rami, a indicare che gli eventi di speciazione  sono sopraggiunti più tardi. Rispetto a questi ultimi, gli alberi stemmy tendono a estinguersi prima, suggerendo che troppi eventi precoci di diversificazione compromettono la sopravvivenza di un clade.

Da questa analisi emergono due interessanti conclusioni. La prima è che non tutti i modelli di diversificazione sono possibili. Esistono zone di “espansione” di un albero filogenetico che sono rimaste sempre vuote, indicando l’impossibilità (ancora senza spiegazione) a proseguire in quella direzione evolutiva. Questo potrebbe aiutare a spiegare le differenti ondate di diversificazione che hanno investito latitudini diverse o le differenze tra ecosistemi marini e terrestri.

In secondo luogo, lo sviluppo di biodiversità potrebbe seguire traiettorie evolutive che, anche se non completamente prevedibili, sono quasi obbligate. I ricercatori dovranno ora approfondire quali variabili intervengono nel determinare se un albero filogenetico si può espandere in una certa direzione evolutiva oppure no. In questo modo sarà possibile anche prevedere quali specie siano a maggior rischio di espansione e dove sia quindi necessario concentrare gli sforzi per preservare la biodiversità di un ecosistema.

 

Lara Rossi, da Zanichelli Aula di Scienze

Immagine Pixabay