Una coltellata nel buio

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Nemmeno il più macabro dei registi di Hollywood poteva pensare ad una vicenda tanto spietata. Questa inquietante storia riguarda un piccolo e all’apparenza insignificante uccellino africano, l’indicatore maggiore (Indicator indicator), appartenente ad una famiglia (Indicatoridae) strettamente imparentata con i comuni picchi (Picidae).Questa specie si nutre prevalentemente prelevando dagli alveari larve, pupe e uova di ape e gli insetti che si […]


Nemmeno il più macabro dei registi di Hollywood poteva pensare ad una vicenda tanto spietata. Questa inquietante storia riguarda un piccolo e all’apparenza insignificante uccellino africano, l’indicatore maggiore (Indicator indicator), appartenente ad una famiglia (Indicatoridae) strettamente imparentata con i comuni picchi (Picidae).

Questa specie si nutre prevalentemente prelevando dagli alveari larve, pupe e uova di ape e gli insetti che si nutrono della cera prodotta dagli industriosi imenotteri, ma è un’altra la sua caratteristica peculiare: è un parassita di cova obbligato, dal momento che le madri depongono un solo uovo in nidi altrui, solitamente di gruccione (Merops pusillus). Grazie ad un sistema di microtelecamere a raggi infra-rossi nelle cavità dei nidi ospiti, un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge ha documentato per la prima volta l’incredibile comportamento sia delle madri che dei nidiacei parassiti. Al momento della deposizione, le madri parassita sono solite beccare le uova dell’ospite, provocando spesso la morte degli embrioni e garantendo così le intere cure parentali dei genitori adottivi per il proprio figlio. Ma accade che a volte le uova non vengano danneggiate e che i piccoli di gruccione riescano a nascere: qui inizia l’inquietante vicenda che ha per protagonista il piccolo indicatore maggiore, un vero e proprio baby killer.

Non appena venuto alla luce, ancora incapace di aprire gli occhi e non in grado di termoregolarsi da solo, attende che i piccoli della specie ospite facciano capolino dall’uovo per sferrargli potenti colpi sul corpicino inerme (su schiena, testa e addome) ed ucciderli tutti (immagini b e d sopra). Al piccolo parassita sono sufficienti attacchi di 1-5 minuti per provocare la morte dei malcapitati, che possono agonizzare sul fondo del nido anche per diverse ore (qui un agghiacciante video). Una caratteristica impressionante di questi uccelli è la presenza di due uncini affilati alle estremità del becco (immagine a), utili per sferrare i colpi mortali, che verranno riassorbiti nel corso dello sviluppo (immagine e) e scompariranno del tutto in età adulta (questo il suo aspetto da adulto).

Il nidiaceo parassita è in grado di ucciedere gli ospiti in virtù delle sue dimensioni superiori, raggiunte grazie al fatto che può beneficiare da solo del cibo dei genitori adottivi nei giorni precenti la nascita dei fratellastri: l’incubazione delle uova di indicatore nel nido ospite dura, infatti, 15-17 giorni contro i 18-20 di quelle di gruccione. Questa breve durata dello sviluppo viene favorita dall’incubazione interna che precede la deposizione dell’uovo da parte della madre naturale. Grazie a questi straordinari e specializzati adattamenti alla vita da parassita, il baby killer ha dunque 2-3 giorni per prepararsi fisiologiamente e premeditare l’assassinio.

Ma non si creda che questa strategia riproduttiva sia altamente efficace: infatti, in oltre il 50% dei casi la coppia di gruccione non accoglie l’uovo ospite e abbandona il nido, ad indicare un processo di coevoluzione ospite-parassita attualmente in atto, forse guidato dall’estrema virulenza del comportamento dell’indicatore maggiore. Questa specie, concludono i ricercatori sulla rivista Biology Letters, potrebbe essere ‘intrappolata’ in una strategia parassitica molto antica che non le consente di sfruttare le altre opportunità, forse più adattative, del parassitismo.

Andrea Romano


Riferimenti:
Claire N. Spottiswoode, Jeroen Koorevaar. A stab in the dark: chick killing by brood parasitic honeyguides. Biology Letters published online 7 September 2011. doi: 10.1098/rsbl.2011.0739

L’immagine è tratta dall’articolo originale