Il fossile vivente non passa mai di moda

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Basta che sia strano: ovvero, come si propaga una falsa notizia scientifica online. Attenzione a ogni volta che leggete “fossile vivente”…

In questi giorni, l’avrete letto tutti, nelle profondità delle acque oceaniche australiane, è stato pescato uno squalo di 80 milioni di anni fa! La notizia, riportata da innumerevoli quotidiani online sia italiani (La Repubblica, Secolo XIX, Il Messaggero, La Stampa, per citarne solo alcuni) che stranieri (eccone alcuni: 1, 2, 3), è certamente una bomba! Appena ho letto i titoli, come immagino molti di voi avranno fatto, sono sobbalzato sulla sedia. Ma, conscio degli ormai proverbiali (per non dimenticare che “benché considerate rettili, le tartarughe sono tra i pochi mammiferi del mare“…ma che anche gli squali sarebbero mammiferi) strafalcioni scientifici della stampa generalista di casa nostra, ho preferito indagare prima di poter confermare il mio entusiasmo. E, come sospettavo, la notizia bomba si è rivelata un flop. In verità, si tratta di una non notizia, quantomeno dal punto di vista scientifico. Lo squalo in questione non è infatti una specie nuova alla scienza, né una particolarmente rara: è semplicemente strana e brutta. Basteranno queste due caratteristiche, affiancate alla pretesa di scientificità del concetto di fossile vivente, a renderla una star, sebbene effimera, della rete?

Vediamo perché e in che modo una non notizia del genere può diventare virale in rete in poche ore, alimentando l’ormai triste serie di leggende metropolitane sulla scienza, a cui siamo già abituati da troppo tempo (si veda qui, qui e qui). Per prima cosa, indaghiamo brevemente le possibili ragioni che hanno fatto gridare al miracolo i media.   Specie nuova? No, non direi. Con una velocissima ricerca di informazioni su internet, si può infatti stabilire che la specie è nota da ben oltre un secolo, essendo stata descritta e nominata ufficialmente per la prima volta nel lontano 1884 (qui l’articolo originale), anche se esistono testimonianze precedenti. Per intenderci, il nostro caro Charles Darwin era deceduto da due soli anni e per un soffio non è stato testimone della sua scoperta. Per i curiosi, come riportano alcuni media stranieri, il nome scientifico della specie è Chlamydoselachus anguineus, in italiano anche detto squalo dal collare. Immagini e descrizioni di questo pesce cartilagineo si trovano un po’ ovunque online. Non può essere quindi questa la ragione che ha indotto i media a dare tanto rilievo alla notizia.   Specie rara? Mi sembra proprio di no. La IUCN, l’agenzia che stabilisce periodicamente lo status di rischio di estinzione di ciascuna specie mondiale, la inserisce infatti nella sua Lista Rossa tra quelle non ancora minacciate (Near Threatened). Come si può notare da una semplice mappa della sua distribuzione a livello mondiale, lo squalo dal collare vive, infatti, oltre che nelle acque australiane, anche in quelle giapponesi e in altri numerosi luoghi sparsi nell’Oceano Pacifico, ma si trova altresì nell’Oceano Atlantico, sia a largo delle coste americane (sia del Nord che del Sud America) che di quelle europee e africane. Sembra proprio essere quella che in ecologia viene definita una specie cosmopolita, sebbene presenti un areale discontinuo. Anche questa, quindi, non può essere la ragione di tanto interesse mediatico.   Specie elusiva? In parte sì, dal momento che vive a diverse centinaia di metri di profondità (può arrivare anche a oltre 1000 metri). Tuttavia, sono noti diversi avvistamenti, alcuni dei quali piuttosto recenti. Basti vedere questo video su Youtube, che già aveva fatto il giro del mondo alcuni anni fa. È quindi evidente la palese falsità di affermazioni, quali “primo avvistamento di un esemplare vivo di questa specie”. Ma, lo sappiamo, la componente unicità è fondamentale per vendere un prodotto giornalistico. La notizia deve essere sensazionale. Ci stiamo forse avvicinando al motivo del cotanto parlare di questa specie?   Specie brutta e strana? Per quanto non sia certamente una valutazione oggettiva (ma credo che tutti ne converrete con me), beh, direi di sì. Pensateci: è uno squalo che non sembra uno squalo, ma che assomiglia a una grossa anguilla. Possiede una miriade di denti acuminati di forma ‘strana’. Per di più, ha le classiche sembianze mostruiodi, con occhi sbarrati e bocca sovradimensionata rispetto al viso. Una specie da film horror, insomma. Sarà mica per questo tanto interesse? Forse no. Diciamo che una specie brutta ed elusiva non avrebbe fatto tanto parlare di sé (al massimo sarebbe stata inserita in una delle tante gallery di ‘mostri marini & co.‘ che tanto spopolano in rete), se non avesse avuto almeno un’altra peculiarità. E qui entra in gioco la scienza. Chlamydoselachus anguineus sarebbe una specie che risale a 80 milioni di anni fa…   Fossile vivente? Neanche per idea! A leggere i trafiletti dei quotidiani nazionali, una cosa sembra emerge in senso assoluto: Chlamydoselachus anguineus è presente sulla Terra da 80 milioni di anni. Deve quindi per forza essere un fossile vivente, come tutti si affannano a dichiarare (per alcuni è addirittura IL fossile vivente). Come già riportato svariate volte negli anni, il concetto di fossile vivente è stato ormai da tempo abbandonato dalla comunità scientifica (e non neghiamo di averlo usato anche noi in passato in maniera forse troppo disinvolta), in quanto implica una visione falsamente progressiva e oltremodo superficiale dei processi evolutivi. Quando si parla di fossili viventi di solito ci si riferisce ad organismi che vengono ritenuti la condizione primitiva di altre specie evolutesi in seguito: questa visione è altamente fuorviante, in quanto sottintende il passaggio da una specie all’altra verso una sempre maggiore complessità (il concetto di scala naturae; si veda qui) e non, come in realtà sarebbe opportuno, l’idea di un’evoluzione ramificata che implica varie successive linee evolutive che si diversificano a partire da antenati comuni (si veda qui, per una migliore comprensione del cosiddetto tree-thinking). È proprio questo il motivo per cui l’uomo non discende dalla scimmia (tecnicamente, l’uomo È una scimmia): uomini e scimmie hanno progenitori comuni, che, con ogni probabilità, erano ben diversi sia dalla nostra specie che dalle attuali scimmie. Ma tornando al nostro Chlamydoselachus anguineus, non è la sua specie ma il suo genere ad essere comparso nel record fossile circa 80 milioni di anni fa (si veda qui). E in questo periodo si sono avvicendate almeno una decina di specie, di cui solo due sono rimaste fino ai giorni nostri. Ma anche ammettendo che questo fosse il caso, basti pensare che gli squali si sono originati oltre 400 milioni di anni fa: per quanto affermato dai quotidiani, Chlamydoselachus sarebbe quindi una specie, passatemi il termine, assai più moderna degli antichi squali. Non proprio un fossile vivente.

In un’altra accezione, il termine fossile vivente fa invece riferimento a specie che si sono modificate (morfologicamente) poco nel corso del tempo. In questo caso, tale affermazione è spesso non dimostrabile per assenza di prove paleontologiche in suo supporto. In ogni caso, gruppi di organismi come gli squali o i coccodrilli tout court, che spesso vengono nominati in questo modo, hanno sperimentato nel corso dell’evoluzione una miriade di forme e adattamenti diversi (si veda qui), di cui molti dei quali ancora sopravvivono. Una di queste è proprio il nostro Chlamydoselachus.

Infine, sono chiamati fossili viventi le specie residuali di un gruppo numeroso e diversificato in passato. Secondo questa accezione sarebbero fossili viventi i monotremi (ornitorinchi ed echidna), i celacanti (si veda qui perché NON sono fossili viventi), e magari pure gli elefanti e i cavalli. Come facciamo a stabilire quanto tempo di assenza dal record fossile è necessario per poter decretare lo status di fossile vivente di una specie? Come facciamo a sapere che il record fossile di quel gruppo è completo (ovvero, come sappiamo che non ci sono altri fossili sconosciuti che smentirebbero quell’idea?)? La questione è evidentemente arbitraria. L’ironia della sorte è che a dirimerla deve essere l’unica specie di primate bipede rimasta in un genere che, nei passati 3 milioni di anni, ha contato decine di componenti…   Conclusione e nota lieta finale E’ inutile sottolineare come un giornalismo spettacolarizzante di questo tipo sia non solo inutile a capire la scienza, ma anche deleterio, perché alimenta una serie di errori e contribuisce al loro consolidamento e alla loro diffusione (si veda anche qui). Sono ben consapevole che una descrizione del tipo “Catturato per la terza volta esemplare di Chlamydoselachus anguineus, pesce cartilagineo appartenente alla famiglia dei Clamidoselachidi, la cui origine si colloca intorno a 80 milioni di anni fa” avrebbe destato molto meno scalpore mediatico. Ma se si vuole parlare di scienza, almeno un po’, la scienza la si deve conoscere. Rimane solo un’ultima considerazione da fare: se non altro, questa triste storia di propagazione degli errori scientifici attraverso i media ha avuto l’effetto positivo di far conoscere al grande pubblico una delle straordinarie forme di vita attualmente esistenti. Una specie frutto di milioni di anni di evoluzione e minuzioso adattamento alle condizioni ambientali.


Credit image: Citron / CC-BY-SA-3.0, via Wikimedia Commons