Buon centenario OH1!
Cento anni fa veniva scoperto il primo ominide fossile nelle Gole di Olduvai, capostipite di una lunga serie di reperti eccezionali per la comprensione dell’evoluzione umana
Ormai da alcuni anni, la Scuola di Paleoantropologia dell’Università di Perugia organizza un field-workshop estivo nelle Gole di Olduvai in collaborazione con l’Università di Dar es Salaam. Le Gole di Olduvai, situate lungo il bordo della Gregory Rift Valley della Tanzania settentrionale, in Africa Orientale, rappresentano uno dei più importanti siti d’interesse paleoantropologico dell’intero pianeta, tanto da essere comunemente note con l’appellativo di “Cradle of Humankind” (“Culla dell’Umanità”). Gli strati rocciosi affioranti in queste gole costituiscono degli straordinari archivi dell’evoluzione umana, in grado di documentare oltre 2 milioni di anni di storia naturale dei nostri antenati, oggetto di studi e ricerche già a partire dai primi anni del Novecento.
Il primo fossile umano fu infatti scoperto a Olduvai esattamente cento anni fa, nel dicembre del 1913. Esso fu denominato “Olduvai Hominid 1”, diventando così il capostipite dell’acronimo “OH”, famosissimo in paleoantropologia perché usato per catalogare progressivamente tutti i resti fossili di ominidi rinvenuti nell’area. Il sito fu scoperto dagli europei, quasi casualmente, nel 1911 da Wilhelm Kattwinkel, neurofisiologo tedesco appassionato di entomologia, che durante un lungo viaggio nel Nord della Tanzania, allora facente parte della “Deutsch Ost-Afrika”, rincorrendo una farfalla, scivolò in un polveroso dirupo atterrando poi su un ricco deposito di fossili. O così almeno si racconta. Fu lui ad appellare le gole con il nome “Olduvai”, storpiando il termine “Oldupai” che nella lingua del popolo Maasai è il nome di una pianta succulenta dalle lunghe ed eleganti foglie molto comune in quei luoghi aridi e rocciosi, la Sansevieria ehrenbergii.
Tornato in patria con i suoi fossili e i suoi appunti, Kattwinkel mise in fermento gli ambienti paleontologici e geologici di Monaco e Berlino. Per rispondere all’interesse scientifico suscitato dalle sue scoperte, nel 1913 fu prontamente organizzata una spedizione verso Olduvai, di cui faceva parte anche un giovane paleontologo e vulcanologo tedesco, Hans Reck, già soprintendente agli scavi in un’altra straordinaria località fossilifera tanzaniana, il giacimento giurassico di dinosauri di Tendaguru.
Dicembre 1913: già da alcuni mesi Hans Reck stava cercando fossili e descrivendo la stratigrafia delle Gole di Olduvai, quando uno degli aiutanti nativi vide affiorare un osso, presumibilmente umano, in uno dei livelli allora ritenuti più antichi. Intuita l’importanza del resto fossile, Reck allestì subito un cantiere di scavo portando lentamente alla luce uno scheletro completo di un essere umano dalle caratteristiche morfologiche insolitamente “moderne” (nell’immagine). Con ulteriore storpiatura del termine, il reperto fu chiamato “Oldoway man” e archiviato come OH1. Cento anni fa. Buon compleanno!
È una storia affascinante quella di OH1, alimentata da continue dispute sulla sua posizione stratigrafica e, di conseguenza, sulla sua datazione. Una storia attraversata anche da contese antidarwinane, con i creazionisti che approfittarono dell’occasione per retrodatare di molto la presenza di Homo sapiens, rendendolo contemporaneo a specie animali estinte, per negare alla radice l’evoluzione della nostra specie. D’altronde lo scheletro fu trovato proprio lì, nel Bed II, in quello strato così antico nel quale erano stati rinvenuti fossili di faune pleistoceniche.
È una storia che si svolse nel tragico tempo delle due guerre mondiali, con morti e distruzioni immani in Europa. Un bombardamento distrusse anche una parte dello scheletro OH1. Nel frattempo, anche l’Africa fu coinvolta nei conflitti, le potenze coloniali europee si scontrarono e molte terre cambiarono “padrone”.
Nel 1914 Hans Reck tornò in Germania con il suo carico di fossili, con gli appunti sulla suddivisione stratigrafica di Olduvai in diversi “Bed” (livelli), ma soprattutto con quello scheletro di “uomo moderno” emerso da un sedimento considerato antichissimo nel quale non avrebbe dovuto essere. Nel marzo di quell’anno Reck tenne una conferenza pubblica a Berlino in cui illustrò la sua scoperta e portò elementi di valutazione consistenti per supportare che OH1 fosse databile al Pleistocene medio. La notizia corse veloce investendo il mondo scientifico europeo e nordamericano e già il 3 luglio, l’antropologo statunitense George Mac Curdy scrisse un articolo sulla prestigiosa rivista Science avvalorando le tesi di Reck.
Ma i venti della Prima Guerra Mondiale cominciarono a soffiare coinvolgendo appieno anche le colonie tedesche in Africa e dunque i siti di scavo, comprese le Gole di Olduvai. Le ricerche e i dibattiti scientifici si fermarono fino agli anni 20. La vecchia “Deutsch Ost-Afrika”, l’Africa Orientale Tedesca, passò agli inglesi e divenne la Colonia del Tanganiyka (parte integrante della “British East Africa”) e Hans Reck, che era prigioniero degli inglesi, venne liberato e tornò a lavorare al Museo di Monaco di Baviera.
Nel primo dopoguerra, la ripresa delle ricerche in Africa portò a due interessanti ritrovamenti: nel 1921, nell’attuale Zambia, il minatore svizzero Tom Zwiglar trovò il cranio di un probabile Homo heidelbergensis, mentre in Sudafrica, nel 1924, Raymond Dart studiò il famoso “Bambino di Taung”, un giovane esemplare della specie Australopithecus africanus.
In Kenya, suo paese natale, cominciarono le ricerche paleontologiche del giovane Louis Seymour Bazett Leakey, fresco dei suoi studi antropologici e archeologici a Cambridge e specializzato nelle tecniche di datazione dei fossili. Louis aveva già fatto parte di spedizioni scientifiche in Africa Orientale quando ancora era studente del St. John’s College di Cambridge, fornendo un valido contributo anche perché parlava correntemente la lingua kiswahili appresa sin da bambino. Egli stesso asseriva con orgoglio di avere imparato questa lingua prima ancora dell’inglese!
A un giovane pieno di passione come Leakey non potevano sfuggire l’importanza e le contraddizioni legate alla scoperta di OH1, ma il suo giudizio fu mutevole. Il 31 marzo del 1928, dopo aver fatto visita a Hans Reck a Monaco e aver potuto vedere direttamente il cranio e gli appunti di scavo, Louis Leakey scrisse un primo articolo sulla rivista Nature confermando non solo che si trattava di un “uomo morfologicamente moderno”, ma anche avallando l’ipotesi di datazione avanzata da Reck. L’anno dopo, invece, Leakey cominciò ad avanzare forti dubbi e nel suo libro “The Stone Age Cultures of Kenya Colony” scrisse che con buona probabilità OH1 non era contemporaneo alle faune trovate in quei livelli, ma poteva trattarsi di una sepoltura intenzionale intrusiva e successiva. Lo indusse a questa ipotesi anche la particolare posizione “prenatale” o “fetale” dello scheletro, ordinatamente adagiato sul fianco destro, rannicchiato e con le ginocchia tirate sino al petto, come si può vedere chiaramente nella fotografia d’epoca scattata dallo stesso Reck.
Nel 1931 Leakey cambiò di nuovo opinione: assieme allo stesso Hans Reck e altri ricercatori, riesaminò con cura il luogo di ritrovamento di OH1 e il 24 ottobre sottoscrisse insieme a Reck e Arthur T. Hopwood un nuovo articolo su Nature nel quale riaffermò che lo scheletro era stato rinvenuto in una parte incontaminata del Bed II e che quindi poteva considerarsi databile, coerentemente con i sedimenti e la fauna associata, al Pleistocene medio. Questo altalenarsi di opinioni non deve stupire. All’epoca gli strumenti e le tecnologie a disposizione per effettuare analisi e datazioni scientificamente attendibili erano scarsi e spesso si doveva fare affidamento soprattutto sull’intuito e sull’esperienza personale. Va certo detto che Louis Leakey sapeva mettersi in discussione, e questo per un ricercatore è sempre da considerarsi un grande pregio.
Il 14 maggio del 1932, ancora su Nature, Leakey si disse abbastanza d’accordo con un articolo del 27 febbraio dello stesso anno, firmato sempre su Nature da C. Forster Cooper e D.M.S. Watson, nel quale venne ripresa la tesi che lo scheletro OH1 potesse rappresentare una sepoltura recente. Leakey si recò di nuovo a Monaco di Baviera, ospite del professor Theodore Mollison, che lo invitò a riesaminare i resti scheletrici. Leakey sottopose a test con luce fluorescente sia OH1 che alcune ossa di faune estinte del Bed II. La differenza fra i reperti risultò immediata: l’uomo ritrovato da Hans Reck, alla luce di queste nuove analisi, non poteva più considerarsi databile al Pleistocene medio, bensì a un periodo molto più recente.
I risultati furono così convincenti che il 18 marzo del 1933 Louis Leakey pubblicò con Hans Reck (che nel frattempo si era sempre più avvicinato alle tesi di Leakey), Boswell, Hopwood e Solomon un ulteriore articolo su Nature che, ripercorrendo la lunga e travagliata storia delle diverse datazioni proposte per OH1, concludeva che i famosi resti scheletrici dovevano essere attribuiti a un essere umano moderno, inumato in una sepoltura non contemporanea al Bed II ma probabilmente databile al Bed V. La partita della datazione di OH1 si concluse così nel 1933.
Diversi anni dopo, tale ipotesi fu perfezionata grazie al metodo del radiocarbonio, che fissò a circa 10.000 anni l’età di OH1, come riportato da un articolo su Science di Louis Leakey, Reiner Protsch e Rainer Berger del 1 novembre 1968.
Ancora oggi il sito di Olduvai, a distanza di ben 100 anni dalla scoperta di OH1, continua a restituire importanti resti fossili e manufatti dei nostri antenati. Resti che hanno già ampiamente contribuito, e certamente contribuiranno nei prossimi decenni, a ricostruire sempre più tasselli del complesso mosaico della storia naturale della “scimmia nuda”.
Angelo Barili, Marco Cherin, Sergio Gentili, Mirko Lombardi
Scuola di Paleoantropologia, Università degli Studi di Perugia
Il primo fossile umano fu infatti scoperto a Olduvai esattamente cento anni fa, nel dicembre del 1913. Esso fu denominato “Olduvai Hominid 1”, diventando così il capostipite dell’acronimo “OH”, famosissimo in paleoantropologia perché usato per catalogare progressivamente tutti i resti fossili di ominidi rinvenuti nell’area. Il sito fu scoperto dagli europei, quasi casualmente, nel 1911 da Wilhelm Kattwinkel, neurofisiologo tedesco appassionato di entomologia, che durante un lungo viaggio nel Nord della Tanzania, allora facente parte della “Deutsch Ost-Afrika”, rincorrendo una farfalla, scivolò in un polveroso dirupo atterrando poi su un ricco deposito di fossili. O così almeno si racconta. Fu lui ad appellare le gole con il nome “Olduvai”, storpiando il termine “Oldupai” che nella lingua del popolo Maasai è il nome di una pianta succulenta dalle lunghe ed eleganti foglie molto comune in quei luoghi aridi e rocciosi, la Sansevieria ehrenbergii.
Tornato in patria con i suoi fossili e i suoi appunti, Kattwinkel mise in fermento gli ambienti paleontologici e geologici di Monaco e Berlino. Per rispondere all’interesse scientifico suscitato dalle sue scoperte, nel 1913 fu prontamente organizzata una spedizione verso Olduvai, di cui faceva parte anche un giovane paleontologo e vulcanologo tedesco, Hans Reck, già soprintendente agli scavi in un’altra straordinaria località fossilifera tanzaniana, il giacimento giurassico di dinosauri di Tendaguru.
Dicembre 1913: già da alcuni mesi Hans Reck stava cercando fossili e descrivendo la stratigrafia delle Gole di Olduvai, quando uno degli aiutanti nativi vide affiorare un osso, presumibilmente umano, in uno dei livelli allora ritenuti più antichi. Intuita l’importanza del resto fossile, Reck allestì subito un cantiere di scavo portando lentamente alla luce uno scheletro completo di un essere umano dalle caratteristiche morfologiche insolitamente “moderne” (nell’immagine). Con ulteriore storpiatura del termine, il reperto fu chiamato “Oldoway man” e archiviato come OH1. Cento anni fa. Buon compleanno!
È una storia affascinante quella di OH1, alimentata da continue dispute sulla sua posizione stratigrafica e, di conseguenza, sulla sua datazione. Una storia attraversata anche da contese antidarwinane, con i creazionisti che approfittarono dell’occasione per retrodatare di molto la presenza di Homo sapiens, rendendolo contemporaneo a specie animali estinte, per negare alla radice l’evoluzione della nostra specie. D’altronde lo scheletro fu trovato proprio lì, nel Bed II, in quello strato così antico nel quale erano stati rinvenuti fossili di faune pleistoceniche.
È una storia che si svolse nel tragico tempo delle due guerre mondiali, con morti e distruzioni immani in Europa. Un bombardamento distrusse anche una parte dello scheletro OH1. Nel frattempo, anche l’Africa fu coinvolta nei conflitti, le potenze coloniali europee si scontrarono e molte terre cambiarono “padrone”.
Nel 1914 Hans Reck tornò in Germania con il suo carico di fossili, con gli appunti sulla suddivisione stratigrafica di Olduvai in diversi “Bed” (livelli), ma soprattutto con quello scheletro di “uomo moderno” emerso da un sedimento considerato antichissimo nel quale non avrebbe dovuto essere. Nel marzo di quell’anno Reck tenne una conferenza pubblica a Berlino in cui illustrò la sua scoperta e portò elementi di valutazione consistenti per supportare che OH1 fosse databile al Pleistocene medio. La notizia corse veloce investendo il mondo scientifico europeo e nordamericano e già il 3 luglio, l’antropologo statunitense George Mac Curdy scrisse un articolo sulla prestigiosa rivista Science avvalorando le tesi di Reck.
Ma i venti della Prima Guerra Mondiale cominciarono a soffiare coinvolgendo appieno anche le colonie tedesche in Africa e dunque i siti di scavo, comprese le Gole di Olduvai. Le ricerche e i dibattiti scientifici si fermarono fino agli anni 20. La vecchia “Deutsch Ost-Afrika”, l’Africa Orientale Tedesca, passò agli inglesi e divenne la Colonia del Tanganiyka (parte integrante della “British East Africa”) e Hans Reck, che era prigioniero degli inglesi, venne liberato e tornò a lavorare al Museo di Monaco di Baviera.
Nel primo dopoguerra, la ripresa delle ricerche in Africa portò a due interessanti ritrovamenti: nel 1921, nell’attuale Zambia, il minatore svizzero Tom Zwiglar trovò il cranio di un probabile Homo heidelbergensis, mentre in Sudafrica, nel 1924, Raymond Dart studiò il famoso “Bambino di Taung”, un giovane esemplare della specie Australopithecus africanus.
In Kenya, suo paese natale, cominciarono le ricerche paleontologiche del giovane Louis Seymour Bazett Leakey, fresco dei suoi studi antropologici e archeologici a Cambridge e specializzato nelle tecniche di datazione dei fossili. Louis aveva già fatto parte di spedizioni scientifiche in Africa Orientale quando ancora era studente del St. John’s College di Cambridge, fornendo un valido contributo anche perché parlava correntemente la lingua kiswahili appresa sin da bambino. Egli stesso asseriva con orgoglio di avere imparato questa lingua prima ancora dell’inglese!
A un giovane pieno di passione come Leakey non potevano sfuggire l’importanza e le contraddizioni legate alla scoperta di OH1, ma il suo giudizio fu mutevole. Il 31 marzo del 1928, dopo aver fatto visita a Hans Reck a Monaco e aver potuto vedere direttamente il cranio e gli appunti di scavo, Louis Leakey scrisse un primo articolo sulla rivista Nature confermando non solo che si trattava di un “uomo morfologicamente moderno”, ma anche avallando l’ipotesi di datazione avanzata da Reck. L’anno dopo, invece, Leakey cominciò ad avanzare forti dubbi e nel suo libro “The Stone Age Cultures of Kenya Colony” scrisse che con buona probabilità OH1 non era contemporaneo alle faune trovate in quei livelli, ma poteva trattarsi di una sepoltura intenzionale intrusiva e successiva. Lo indusse a questa ipotesi anche la particolare posizione “prenatale” o “fetale” dello scheletro, ordinatamente adagiato sul fianco destro, rannicchiato e con le ginocchia tirate sino al petto, come si può vedere chiaramente nella fotografia d’epoca scattata dallo stesso Reck.
Nel 1931 Leakey cambiò di nuovo opinione: assieme allo stesso Hans Reck e altri ricercatori, riesaminò con cura il luogo di ritrovamento di OH1 e il 24 ottobre sottoscrisse insieme a Reck e Arthur T. Hopwood un nuovo articolo su Nature nel quale riaffermò che lo scheletro era stato rinvenuto in una parte incontaminata del Bed II e che quindi poteva considerarsi databile, coerentemente con i sedimenti e la fauna associata, al Pleistocene medio. Questo altalenarsi di opinioni non deve stupire. All’epoca gli strumenti e le tecnologie a disposizione per effettuare analisi e datazioni scientificamente attendibili erano scarsi e spesso si doveva fare affidamento soprattutto sull’intuito e sull’esperienza personale. Va certo detto che Louis Leakey sapeva mettersi in discussione, e questo per un ricercatore è sempre da considerarsi un grande pregio.
Il 14 maggio del 1932, ancora su Nature, Leakey si disse abbastanza d’accordo con un articolo del 27 febbraio dello stesso anno, firmato sempre su Nature da C. Forster Cooper e D.M.S. Watson, nel quale venne ripresa la tesi che lo scheletro OH1 potesse rappresentare una sepoltura recente. Leakey si recò di nuovo a Monaco di Baviera, ospite del professor Theodore Mollison, che lo invitò a riesaminare i resti scheletrici. Leakey sottopose a test con luce fluorescente sia OH1 che alcune ossa di faune estinte del Bed II. La differenza fra i reperti risultò immediata: l’uomo ritrovato da Hans Reck, alla luce di queste nuove analisi, non poteva più considerarsi databile al Pleistocene medio, bensì a un periodo molto più recente.
I risultati furono così convincenti che il 18 marzo del 1933 Louis Leakey pubblicò con Hans Reck (che nel frattempo si era sempre più avvicinato alle tesi di Leakey), Boswell, Hopwood e Solomon un ulteriore articolo su Nature che, ripercorrendo la lunga e travagliata storia delle diverse datazioni proposte per OH1, concludeva che i famosi resti scheletrici dovevano essere attribuiti a un essere umano moderno, inumato in una sepoltura non contemporanea al Bed II ma probabilmente databile al Bed V. La partita della datazione di OH1 si concluse così nel 1933.
Diversi anni dopo, tale ipotesi fu perfezionata grazie al metodo del radiocarbonio, che fissò a circa 10.000 anni l’età di OH1, come riportato da un articolo su Science di Louis Leakey, Reiner Protsch e Rainer Berger del 1 novembre 1968.
Ancora oggi il sito di Olduvai, a distanza di ben 100 anni dalla scoperta di OH1, continua a restituire importanti resti fossili e manufatti dei nostri antenati. Resti che hanno già ampiamente contribuito, e certamente contribuiranno nei prossimi decenni, a ricostruire sempre più tasselli del complesso mosaico della storia naturale della “scimmia nuda”.
Angelo Barili, Marco Cherin, Sergio Gentili, Mirko Lombardi
Scuola di Paleoantropologia, Università degli Studi di Perugia