Confini aperti – quinta e ultima puntata
Pikaia ha parlato qui del convegno Confini Aperti: sul rapporto esterno / interno in biologia (Roma, 11-12 febbraio 2011). Qui invece la prima puntata del racconto, qui la seconda e qui la terza e qui la quarta.«Se Dio esiste, da dove viene il male? E se non esiste, da dove viene il bene?» (Boezio, De consolatione philosophiae). Con questa citazione […]
Pikaia ha parlato qui del convegno Confini Aperti: sul rapporto esterno / interno in biologia (Roma, 11-12 febbraio 2011). Qui invece la prima puntata del racconto, qui la seconda e qui la terza e qui la quarta.
«Se Dio esiste, da dove viene il male? E se non esiste, da dove viene il bene?» (Boezio, De consolatione philosophiae). Con questa citazione Emanuele Coco ci conduce a una delle più grandi consolazioni umane, quella del riduzionismo genetico. Non siamo più negli anni della contrapposizione fra genetica e biologia dello sviluppo, o in quelli della sociobiologia (fenice risorta nelle vesti della psicologia evoluzionistica). Tuttavia, se nel contesto scientifico, la presenza di articoli riduzionisti si è ridotta nel tempo, al di fuori di quel contesto l’immaginario del riduzionismo genetico è fortissimo: abbiamo il gene della moda, il gene del cuoco, il gene della fede religiosa, per non parlare del gene dell’omosessualità (solo su riviste di costume?). Come ogni metafora, quella del corredo di geni come un libro di ricette, non è solo congeniale a certe pratiche, ma è anche rappresentativa del bisogno di combattere il dolore, l’ignoto, il male e l’incertezza, bisogno che attraversa la storia del pensiero umano. Pensare di avere un DNA con geni semplici, in modo da poterli controllare semplicemente, ci dà la sensazione di governare il nostro organismo, del quale sappiamo tanto, ma tanto ancora dobbiamo conoscere: morto Dio, è un modo come un altro per naturalizzare il problema di Boezio. Il cannocchiale di Galilei funzionava sugli oggetti vicini, noti – che riconosciamo correggendo automaticamente effetti di irraggiamento, diffrazione e miopia – ma, in mancanza di una “scienza ausiliaria” non permetteva di interpretare correttamente le osservazioni sui corpi celesti, lontani e ignoti. Per spiegare la forza applicata senza continuità fisica a un corpo, Keplero ricorre a un’analogia: è come la luce, dà più luminosità ai corpi vicini e meno a quelli lontani. Konrad Lorenz ritenne che il comportamento umano si potesse studiare come le parti morfologiche dell’anatomia comparata. La similitudine, usata per comprendere il rapporto fra genotipo e fenotipo, suona così: i geni determinano tutti i tratti morfologici, i tratti comportamentali sono omologhi ai tratti morfologici; dunque anche i comportamenti sono geneticamente determinati. In certi casi l’analogia è stata utile, ma può creare problemi se scade nell’omologia. La differenza fra il canto di un grillo e quello della Callas risiede nelle possibilità in più di cui la seconda dispone nel costruire il proprio fenotipo comportamentale. L’iter che dai geni conduce al fenotipo non è ostaggio di un processo sempre identico, ma beneficia di un ventaglio di modalità biologiche caratterizzate da differenti gradi di libertà. Dal punto di vista naturale i processi sono quindi analoghi, più che “omologhi”. L’omologia à la Lorenz ha viaggiato nel tempo. Idealmente si può immaginare un suo passaggio a Oxford, dove N. Tinbergen – Premio Nobel insieme a K. Lorenz e K. von Frisch nel 1973 – sarà maestro di R. Dawkins, il quale rimarrà impressionato dai concetti di ‘macchinosità del comportamento’ ed ‘equipaggiamento da sopravvivenza’ (= macchina da sopravvivenza). Che il sodalizio fra etologia e genetica delle popolazioni sia stato alla radice del riduzionismo gene-determinante della sociobiologia?
Per finire, questo convegno è la dimostrazione che i confini fra ambiti disciplinari e – con moderato realismo – fra piani di realtà esistono, e che, proprio perché esistono, si possono trapassare senza aver timore dell’anarchica mancanza di egemonia di un territorio sugli altri: l’incertezza è l’altra faccia della libertà relativa, ed è un rischio da correre se si vogliono sperimentare nuove – perché estese – possibilità pratiche e conoscitive.
Foto: di Cristiano Corsini in licenza creative commons non commerciale.
«Se Dio esiste, da dove viene il male? E se non esiste, da dove viene il bene?» (Boezio, De consolatione philosophiae). Con questa citazione Emanuele Coco ci conduce a una delle più grandi consolazioni umane, quella del riduzionismo genetico. Non siamo più negli anni della contrapposizione fra genetica e biologia dello sviluppo, o in quelli della sociobiologia (fenice risorta nelle vesti della psicologia evoluzionistica). Tuttavia, se nel contesto scientifico, la presenza di articoli riduzionisti si è ridotta nel tempo, al di fuori di quel contesto l’immaginario del riduzionismo genetico è fortissimo: abbiamo il gene della moda, il gene del cuoco, il gene della fede religiosa, per non parlare del gene dell’omosessualità (solo su riviste di costume?). Come ogni metafora, quella del corredo di geni come un libro di ricette, non è solo congeniale a certe pratiche, ma è anche rappresentativa del bisogno di combattere il dolore, l’ignoto, il male e l’incertezza, bisogno che attraversa la storia del pensiero umano. Pensare di avere un DNA con geni semplici, in modo da poterli controllare semplicemente, ci dà la sensazione di governare il nostro organismo, del quale sappiamo tanto, ma tanto ancora dobbiamo conoscere: morto Dio, è un modo come un altro per naturalizzare il problema di Boezio. Il cannocchiale di Galilei funzionava sugli oggetti vicini, noti – che riconosciamo correggendo automaticamente effetti di irraggiamento, diffrazione e miopia – ma, in mancanza di una “scienza ausiliaria” non permetteva di interpretare correttamente le osservazioni sui corpi celesti, lontani e ignoti. Per spiegare la forza applicata senza continuità fisica a un corpo, Keplero ricorre a un’analogia: è come la luce, dà più luminosità ai corpi vicini e meno a quelli lontani. Konrad Lorenz ritenne che il comportamento umano si potesse studiare come le parti morfologiche dell’anatomia comparata. La similitudine, usata per comprendere il rapporto fra genotipo e fenotipo, suona così: i geni determinano tutti i tratti morfologici, i tratti comportamentali sono omologhi ai tratti morfologici; dunque anche i comportamenti sono geneticamente determinati. In certi casi l’analogia è stata utile, ma può creare problemi se scade nell’omologia. La differenza fra il canto di un grillo e quello della Callas risiede nelle possibilità in più di cui la seconda dispone nel costruire il proprio fenotipo comportamentale. L’iter che dai geni conduce al fenotipo non è ostaggio di un processo sempre identico, ma beneficia di un ventaglio di modalità biologiche caratterizzate da differenti gradi di libertà. Dal punto di vista naturale i processi sono quindi analoghi, più che “omologhi”. L’omologia à la Lorenz ha viaggiato nel tempo. Idealmente si può immaginare un suo passaggio a Oxford, dove N. Tinbergen – Premio Nobel insieme a K. Lorenz e K. von Frisch nel 1973 – sarà maestro di R. Dawkins, il quale rimarrà impressionato dai concetti di ‘macchinosità del comportamento’ ed ‘equipaggiamento da sopravvivenza’ (= macchina da sopravvivenza). Che il sodalizio fra etologia e genetica delle popolazioni sia stato alla radice del riduzionismo gene-determinante della sociobiologia?
Per finire, questo convegno è la dimostrazione che i confini fra ambiti disciplinari e – con moderato realismo – fra piani di realtà esistono, e che, proprio perché esistono, si possono trapassare senza aver timore dell’anarchica mancanza di egemonia di un territorio sugli altri: l’incertezza è l’altra faccia della libertà relativa, ed è un rischio da correre se si vogliono sperimentare nuove – perché estese – possibilità pratiche e conoscitive.
Foto: di Cristiano Corsini in licenza creative commons non commerciale.