Fatti per capire – Conflitto di specie

ode all'orso di Eric Huybrechts

Riproponiamo l’approfondimento “Conflitto di specie”, a cura di Barbara Bernardini e Luca Balestri, che attraverso interviste agli esperti esplora il nostro rapporto con la fauna selvatica. Dal progetto a cura di Barbara Gallavotti “Fatti per capire” del Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci

Coste, laghi, colline e foreste, dune sabbiose e montagne: l’Italia vanta una quantità di ecosistemi unica, popolata da circa 58.000 specie animali e 7.000 vegetali, che ne fanno il Paese europeo che vanta la maggiore biodiversità. Ma l’Italia è anche la quarta nazione europea per densità di popolazione con ben 207 abitanti per Km quadrato: praticamente una folla, ovunque l’occhio si posi. Questa combinazione di fattori innesca un continuo conflitto di interessi; gli esseri umani sono dappertutto, sfruttano gli spazi, le risorse ambientali, cacciano la fauna; gli animali cercano di fare altrettanto, occupando il territorio per nutrirsi, vivere e riprodursi, ma gli interessi dei primi prevalgono inevitabilmente sui secondi nel lungo periodo. Una dominanza schiacciante che ha impoverito nei secoli gli ecosistemi e l’ambiente italiano e a cui si cerca, ove possibile, di porre rimedio attraverso programmi di reintroduzione o ripopolamento di specie selvatiche. Non è un caso che in Italia esista un protocollo denominato “Strategia Nazionale per la biodiversità” elaborato dall‘ISPRA in collaborazione con altri enti, il cui scopo è quello di ottemperare agli obiettivi della Convenzione sulla Diversità Biologica.  

Protezione della biodiversità e degli ecosistemi: siamo lontani dagli obiettivi europei



Nell’ultimo secolo animali come il Lupo Siciliano, il Pipistrello rinolfo di Blasius, lo Storione Ladano sono definitivamente scomparsi dal nostro territorio, mentre altri come il Gipeto, sono stati salvati sull’orlo dell’estinzione. La natura, si sa, non resta immobile di fronte ai cambiamenti ma tende sempre verso un nuovo equilibrio del quale sia gli animali che gli esseri umani fanno parte. Per questo, talvolta, anche la reintroduzione o il ripopolamento di una specie, pur se auspicabile e favorevole alla biodiversità, può creare competizione. Ad esempio, ungulati come cervi o cinghiali possono causare danni alle colture o competere con il bestiame per il pascolo, i lupi possono disturbare gli allevamenti e così via…. ma il caso peggiore si configura quando gli animali reintrodotti diventano pericolosi per la specie umana. Ecco perché, quando ad aprile 2023 il runner Andrea Papi è stato aggredito e ucciso dall’Orsa JJ4, in molti si sono chiesti se ripopolare un territorio così piccolo e antropizzato con specie potenzialmente “pericolose” come orsi e lupi sia alla fine una buona idea. È vero, l’orso ha agito per difesa, ma il runner non costituiva un vero pericolo. L’ipotesi di abbattere l’orso è una difesa a sua volta, ma l’orso non ha “colpa cosciente” del proprio comportamento, e gli attacchi sono rari, anche se talvolta fatali. Secondo un articolo della rivista Nature, tra il 2000 e il 2015 gli attacchi di questi animali in Europa sono stati 291, 19 dei quali fatali per le vittime.
E quindi come si sbroglia la matassa? Si deve per forza scegliere tra biodiversità e antropizzazione? O si può convivere?

Esseri umani e orsi: una convivenza possibile?



Per capire meglio è necessario almeno conoscere a grandi linee la storia relativa alle popolazioni di lupi e di orsi in Italia dato che a loro si riferisce il maggior dibattito. Alla fine degli anni Novanta, dopo due secoli di caccia senza regole gli esemplari di orso bruno (Ursus arctos arctos) nella zona del Trentino erano soltanto 3, tutti vecchi e non più in grado di riprodursi. Per evitare l’estinzione della specie, nel 1996 con il finanziamento dell’Unione Europea, il Parco Naturale Adamello Brenta, la Provincia Autonoma di Trento e l’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica hanno realizzato il progetto “Life Ursus” che mirava a costituire nelle Alpi una popolazione sana di orsi in grado di autosostenersi, cioè che non avesse più bisogno di aiuti costanti da parte dell’uomo. Il Progetto è iniziato nel 1999, dopo uno studio di fattibilità che ha coinvolto scienziati, istituzioni e cittadini: fino al 2002 sono stati liberati nell’area del Brenta 10 orsi, in età compresa tra i 3 e i 6 anni, provenienti dalla Slovenia meridionale.
L’obiettivo era ricreare entro qualche decade una popolazione di orsi di 40-50 individui. Oggi Il numero di esemplari nella Alpi centrali è di circa 100. Sono troppi? Per la verità no, come spiega bene Filippo Zibordi (Istituto Oikos) nella sua esaustiva intervista si tratta di un numero minimo indispensabile per una popolazione vitale.

Come coesistere con i grandi predatori



Diversa è la storia del Lupo (Canis lupus italicus) che è stato dichiarato “specie protetta” negli anni ‘70 e tornò di fatto a diffondersi sulle montagne e nelle campagne che gli esseri umani avevano abbandonato a favore dei grandi centri urbani. Oggi la popolazione conta 3.307 esemplari che talvolta però si avvicinano troppo agli allevamenti, ferendo o uccidendo capi di bestiame e innescando le proteste degli allevatori. Tra il 2015 e il 2019 sono stati 17.989 gli eventi di predazione accertati, con un aumento nel periodo del 23,5%. Un caso a parte di popolazioni “fuori controllo” rappresentano invece quelle specie animali definite “aliene”, cioè non appartenenti ai nostri ecosistemi ma introdotte dall’uomo per ragioni commerciali, come il Pesce Siluro importato per la pesca sportiva o la Carpa (Cyprinus carpio) o ancora la Tartaruga Palustre e la Nutria, specie che si sono adattate fin troppo bene all’Italia e hanno finito per creare danni all’ambiente, diffuso malattie o alterato l’equilibrio della biodiversità.
Che ne facciamo quindi di questi animali che abbiamo introdotto noi ma che ora ci danneggiano? Vanno abbattuti?
Senza entrare nella questione etica, va detto che l’abbattimento, in genere tramite caccia selettiva, è uno degli strumenti previsti per la gestione e il controllo delle popolazioni faunistiche ma certo non il solo; lo sono anche la designazione di riserve faunistiche, i corridoi ecologici, il controllo delle nascite, la modifica degli habitat o il trasferimento di popolazioni, oltre al monitoraggio continuo e soprattutto al coinvolgimento delle comunità locali che devono essere correttamente informate circa la presenza degli animali e il comportamento da rispettare per la pacifica convivenza con le specie selvatiche che arricchiscono la biodiversità del luogo, come spiega Giovanni Quilghini (Carabiniere Forestale, Reparto Biodiversità di Follonica). Persino per quanto riguarda le specie aliene che, una volta presenti nel territorio è complicato eradicare del tutto, ci possono essere delle opzioni percorribili che non implicano necessariamente l’abbattimento come spiega Bruno Cignini (Università degli Studi di Roma Tor Vergata). L’abbattimento è sempre un intervento controverso, ma può essere preso in considerazione come un’opzione per garantire l’incolumità della vita umana come spiega Filippo Zibordi in riferimento al caso dell’orso JJ4. Ma il problema dei lupi che attaccano il bestiame o gli storni che invadono la città può essere affrontato con lo stesso metro? Potrebbe essere utile a questo scopo riflettere sul ruolo dell’uomo nell’ambiente, come spiega Adriano Fabris (Università di Pisa).
Oltre a chiedersi quando e se è il caso di abbattere gli animali e in quali circostanze, si deve comprendere quali siano i fattori che spingono gli animali selvatici a uscire dal loro habitat naturale per raggiungere i luoghi deputati alle attività sociali ed economiche dell’essere umano. Alcune caratteristiche dei centri urbani favoriscono l’inurbamento di alcune specie. Una differenza tra città e campagne che attira gli animali, ad esempio, è la temperatura ambientale, solitamente più alta nei centri urbani, nei quali si verifica il fenomeno delle “isole di calore”. I materiali con i quali sono costruiti gli edifici cittadini trattengono più calore rispetto agli elementi naturali presenti nei boschi e nelle foreste e rappresentano un ambiente attrattivo durante l’inverno. Ad esempio, gli Storni (Sturnus vulgaris) utilizzano i pali della luce presenti nelle città per dormire e riscaldarsi; inoltre, per questa specie il centro urbano è anche un luogo più sicuro, data l’assenza di predatori naturali e l’ovvio divieto di caccia.

Ma ciò che spinge gli animali a frequentare i luoghi adibiti alle attività umane è anche la presenza di cibo e il frequente contatto con l’essere umano tende a rendere le specie animali meno timide e meno spaventate dalla sua presenza e quindi sempre più a loro agio in città. Succede così che la convivenza tra uomini e animali diventi talvolta pericolosa per gli uni e per gli altri oltre che un fenomeno di complessa gestione visto che per gli animali l’habitat ideale per vivere non è necessariamente il bosco o la prateria ma semplicemente il luogo che facilita l’approvvigionamento di cibo e la riproduzione, come spiega Fausto Barbagli (Museo di Storia Naturale e Università di Firenze). Il fatto è che la Natura è di tutti coloro che la abitano e nella ricerca di un delicato equilibrio di interessi è probabile che spetti ai più razionali il delicato compito di cercare una mediazione.

Fatti, idee e punti di vista

Fausto Barbagli, zoologo, Museo di Storia Naturale e Università di Firenze

Come si può gestire la convivenza tra essere umani e animali, nei centri urbani o dove sono presenti attività socioeconomiche umane?

La questione della fauna in città non è discutibile soltanto in relazione a ciò che infastidisce l’attività umana, perché la città è un ecosistema tanto quanto gli altri ambienti.
Per gli animali l’ambiente urbano altro non è che un habitat particolare in cui si replicano situazioni già presenti nel loro luogo d’elezione. È molto complicato organizzare una convivenza tra l’attività umana e quella animale, soprattutto quando le due entrano in conflitto. Oggi buona parte del territorio è antropizzato: il frequente contatto con l’essere umano tende a far assuefare gli animali all’uomo, e di conseguenza a spaventarli meno.
Questo è un elemento di vantaggio per l’animale affamato, che così diminuisce la sua paura nei confronti dell’essere umano. La soluzione più rapida ai danni prodotti dagli animali è da molti ritenuta il loro abbattimento, ma questa è una pratica che limita gli effetti del danno prodotto, non le cause. Se non si guarda le cause, il posto dei soggetti abbattuti sarà ben presto occupato da nuovi individui con conseguenti nuovi abbattimenti. Ritenere le entità naturali come fattori di disturbo da rimuovere, rischia di innescare un processo difficilmente arrestabile. I centri urbani sono soggetti alle stesse leggi naturali degli altri ambienti. Il problema di convivenza tra esseri umani e animali in ambiente urbano possono essere limitati solo da un corretto rapporto tra uomo e natura sull’intero territorio.

Nessun conflitto di interesse da dichiarare.

Bruno Cignini, biologo, Università di Roma Tor Vergata

Come si può tutelare la biodiversità in presenza delle specie aliene?
Innanzitutto, per rispettare la biodiversità si deve agire sull’educazione dei cittadini alla biodiversità ed evitare l’importazione di specie alloctone, cioè specie che in natura non appartengono a un determinato territorio. Prendiamo l’esempio della Nutria (Myocastor coypus), considerata una delle 100 specie maggiormente invasive. A metà degli anni ‘90 furono erroneamente introdotte 3 nutrie a Villa Doria Pamphili, a Roma. I roditori recisero le radici degli alberi facendoli cadere e di conseguenza le specie che vi nidificavano sparirono da Villa Pamphili, in quanto era venuto a mancare l’ambiente ideale per le loro attività. Allo stesso modo scomparvero anche gli esemplari di animali acquatici presenti nel laghetto della Villa. La presenza delle nutrie richiamò i visitatori del parco, che alimentavano abbondantemente le nutrie, che però non riuscivano a mangiare tutto ciò che veniva loro dato. Ciò che le nutrie non riuscivano a mangiare attirò i ratti, che arrivarono in massa a Villa Pamphili, andando a danneggiare anche loro l’equilibrio di un ecosistema chiuso. Per risolvere il problema si sono tolte le nutrie dal parco della Villa e si sono trasportate verso il fiume Tevere, dove l’animale è andato incontro a una selezione naturale. Il numero delle nutrie, una volta nel fiume, è diminuito, e l’ecosistema di Villa Pamphili è tornato ad essere quello che era prima dell’invasione.

Nessun conflitto di interesse da dichiarare.

Giovanni Quilghini, Colonnello dei Carabinieri Forestali e Comandante del Reparto Biodiversità di Follonica

Come si arriva ad un eventuale abbattimento o salvataggio di un animale dannoso per l’ecosistema?

Per capire se degli animali hanno un’eccessiva pressione su un ecosistema si devono fare degli studi e monitoraggi per comprendere il loro reale impatto sul territorio, e compararli a studi fatti in contesti simili dal punto di vista della biodiversità. Occorre inoltre avere un quadro ed una chiara conoscenza sulla popolazione animale, da attuarsi mediante censimenti, con varie tecniche, che ci permettono di constatare l’andamento della popolazione in termini di numero degli individui, di rapporto tra i due sessi, di uso dello spazio da parte degli esemplari. Nei casi in cui l’impatto è elevato occorre attuare misure di gestione della popolazione animale e dell’ambiente, con il fine di contenere gli impatti, aumentare la capacità portante dell’ecosistema, predisporre aree di salvaguardia per la conservazione delle risorse. In alcuni casi può essere necessario ricorrere al contenimento della popolazione animale che provoca impatti diretti sui sistemi ecologici, ricorrendo, dopo attenta analisi, alla riduzione degli individui, da attuarsi, laddove possibile, mediante traslocamento previa cattura. In casi particolari si ricorre al prelievo mediante abbattimento degli individui; operazione che deve essere attentamente pianificata e seguita da uno staff multidisciplinare: è previsto per questo uno staff veterinario che tenga conto della specificità dell’esemplare durante il suo prelievo. Per la conservazione della specie si possono adottare due diverse strategie di conservazione: “ex situ”, che prevede che l’esemplare venga spostato in un posto terzo, oppure “in situ”, che prevede che la conservazione avvenga nel contesto ambientale, storico, paesaggistico e socio economico che gli è proprio, provvedendo a contenere o a ridurre eventuali impatti sugli ecosistemi e sulla biodiversità attuando opportune politiche di gestione.

Nessun conflitto di interesse da dichiarare.

Adriano Fabris, Filosofia morale, Università di Pisa

È eticamente accettabile abbattere gli animali importati dall’uomo in determinati ambienti?

Oggi l’abbattimento di alcuni animali è richiesto per esigenze di parte, in virtù del fatto che questi esemplari possano essere pericolosi per l’incolumità umana o per le sue attività socio-economiche. Ma l’essere umano, grazie alla sua capacità di ragionare, non può agire per le sue sole esigenze. Per evitare di discutere sugli abbattimenti degli animali secondo necessità di parte si deve cercare un equilibrio tra gli attori in campo, evitando così una dannosa conflittualità. Si devono quindi attuare delle buone pratiche di convivenza tra essere viventi. Si prenda l’esempio del ghepardo in Namibia. In questa regione dell’Africa sud-occidentale questo felino si è ridotto a poche centinaia di esemplari nel corso degli anni per mano dell’uomo, che sterminava i genitori anche per far morire i cuccioli che dovevano ricevere lo svezzamento. Ciò era disastroso per l’equilibrio dell’ecosistema. Qualche anno fa questa sottospecie, però, è stata emblema della cura dell’ecosistema: la Namibia è stata ripopolata di ghepardi e si è fatto sì che i cuccioli crescessero in maniera sana. Al contempo sono stati immessi nel Paese i Pastori turchi e sono stati allenati i pastori namibiani all’addestramento di questi cani, che i ghepardi rispettano e ai quali non si avvicinano. Questo significa salvaguardare l’intero ecosistema.

Nessun conflitto di interesse da dichiarare.

L’intervista

Filippo Zibordi, naturalista, Istituto Oikos

È vero che la popolazione degli orsi in Trentino è cresciuta troppo?

No, nello studio di fattibilità era stata stabilita la quota di 50 esemplari come popolazione minima vitale, non come un massimo. Ma 50 orsi sono pochi per garantire la sopravvivenza a medio termine di una popolazione animale, per questo non ha senso dire che 100 – il numero attuale sulle Alpi centrali – è troppo elevato.
Il Progetto prevedeva che la popolazione crescesse, cosa che è avvenuta, e che si creasse un collegamento con la popolazione sorgente della Slovenia, cosa che invece non si è ancora verificata se non in modo sporadico.
Ogni ambiente ha poi quella che si definisce “capacità portante”, ossia superato un certo limite gli orsi per forza di cose si allontanano dal luogo di nascita in modo spontaneo, perché non trovano più risorse a sufficienza. I maschi vanno “in dispersione” come si dice in gergo. Alcuni sono arrivati in Germania, in Svizzera, in Austria … se poi non trovano femmine ritornano nel periodo riproduttivo. Quello che sta succedendo è che le femmine restano molto legate al territorio di nascita, quindi, il Trentino occidentale in questo momento ha una densità abbastanza alta che però si sta regolando e si regolerà naturalmente. Non è vero che non c’è spazio, o non ci sono risorse, perché la popolazione si sta riproducendo e l‘ambiente è sano. Un discorso totalmente diverso è quello della densità di orsi socialmente tollerabile perché comunque orsi ed esseri umani devono convivere, e questo non dovrebbe essere un tabù, come non dovrebbe esserlo quello di allontanare o abbattere gli individui problematici se si rende necessario.


Perché nella popolazione degli orsi d’Abruzzo non si sono mai avuti incidenti?

Ci sono diversi fattori da considerare: il primo è che si tratta di due sottospecie diverse. Un recente studio genetico ha caratterizzato gli orsi marsicani dimostrando la loro minore aggressività rispetto alle altre sottospecie, probabilmente secoli di isolamento e di selezione da parte dell’uomo che per lungo tempo li ha cacciati selezionando i più schivi e meno aggressivi. Inoltre, la popolazione abruzzese di orsi è più piccola di quella trentina (sono solo 50 individui circa) e, al contrario, in Trentino ci sono molti più abitanti e turisti.


L’eventuale abbattimento degli individui aggressivi o problematici è una scelta arbitraria?

No, esistono delle linee guida scritte stabilite al momento dell’attuazione del progetto nel ‘97 e attualizzate in seguito che specificano chiaramente che “ad alcune azioni dell’orso devono corrispondere azioni da parte dell’Ente gestore”. Per esempio, gli orsi che fanno danni devono essere dissuasi e quelli che aggrediscono se non provocati, eliminati o catturati a scopo di captivazione permanente. È necessario avere il coraggio di farlo. Non è infatti un azzardo reintrodurre una specie potenzialmente aggressiva se questo ripristina e arricchisce la biodiversità naturale, ma lo è invece non seguire delle “regole d’ingaggio” nella convivenza tra orsi ed esseri umani che non devono essere superate da una parte e dall’altra. Queste regole sono essenzialmente tre. La prima è la gestione degli orsi problematici con azioni di dissuasione e, in casi estremi, di abbattimento/prelievo per captivazione. La seconda è la ricerca scientifica che va proseguita, avere infatti monitoraggi con radiocollare, per esempio, avrebbe permesso di comprendere meglio la dinamica delle popolazioni ed essere utile alla gestione. La terza è quella dell’informazione degli abitanti. Il pubblico deve conoscere queste dinamiche e anche essere al corrente di come ci si deve comportare nel bosco che è un habitat che appartiene sia agli orsi che agli esseri umani quando lo frequentano.


Qual è la regola fondamentale di comportamento nell’incontro con l’orso?

L’orso è un animale imponente ma è tendenzialmente schivo e non attacca l’essere umano. Reagisce principalmente per autodifesa se si sente minacciato o, nel caso delle femmine, per proteggere i cuccioli. È importante “fare rumore”, annunciarsi in qualche modo, così che l’animale abbia il tempo di accorgersi della potenziale minaccia e abbia modo di allontanarsi. Le persone che più frequentemente hanno incontri pericolosi con gli orsi non sono infatti i turisti che fanno escursioni di gruppo chiacchierando, ma i residenti che abitano come me al confine con i boschi e magari vanno da soli per una passeggiata in silenzio e possono accidentalmente incappare in un esemplare o entrare nel territorio di riproduzione o dove ci sono cuccioli. Annunciarsi in zone di scarsa visibilità salva la vita.


Come è stato possibile individuare l’orso che ha effettuato l’attacco?

Il Progetto Life Ursus, caso quasi unico al mondo, prevede la tipizzazione genetica di tutta la popolazione: si conosce quindi il DNA degli orsi con cui è stata popolata la zona e anche degli individui nati successivamente, a parte le ultime cucciolate. È per questo che la raccolta del DNA sul luogo dell’incidente ha condotto all’identificazione dell’orsa che ha aggredito.


L’orsa che ha aggredito è “un orso problematico”?

Gli orsi che attaccano senza essere provocati sono incompatibili con le regole necessarie per garantire la presenza degli orsi sulle Alpi perché il territorio non è vasto come l’Alaska ed esiste la necessità di tutelare al contempo sia la biodiversità e la vita animale che la vita umana. Può essere impopolare dirlo, ma la gestione faunistica responsabile prevede anche questo tipo di interventi.


Si possono confinare gli orsi in un’area del parco?

No, perché gli orsi hanno un territorio molto vasto che include aree impervie ma anche i fondovalle dove il bosco confina con i paesi. Quindi anche dire istintivamente che siano gli esseri umani che invadono il territorio dell’orso a sproposito non è corretto, perché i territori si sovrappongono in alcune aree ed è necessario stabilire regole di convivenza.


Perché la ricerca scientifica può aiutare la corretta gestione?

Poiché se si monitora la popolazione e si individuano i cuccioli, per esempio, in un territorio dove in quel momento ci sono femmine con cuccioli o è terreno di riproduzione – come nella stagione tra aprile e maggio – si può limitare o addirittura interdire temporaneamente l’accesso a quelle aree. È una limitazione per le attività turistiche, ma in questo modo con la conoscenza si tutela sia la biodiversità che la vita umana.

Nessun conflitto di interesse da dichiarare.

Fonte: questo testo, a cura di Barbara Bernardini e Luca Balestri, è stato pubblicato per la prima volta il 23 luglio su Fatti per capire – Voci della ricerca su temi controversi. Fatti per capire è progetto della giornalista Barbara Gallavotti realizzato dal Museo Nazionale Scienza e Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, è dedicato ad approfondire argomenti al centro di dibattito pubblico, grazie a fatti, idee e punti di vista di ricercatori con competenze specifiche sulla questione di volta in volta trattata.

Immagine in apertura: Ode all’orso,di Eric Huybrechts via Flickr, pubblicata con licenza CC BY-ND 2.0 DEED. La scultura è di Maurizio Misseroni