La scienza come habitus mentale: una conversazione con Prof.ssa di filosofia della scienza Elena Gagliasso
L’intervista alla Prof.ssa Elena Gagliasso traccia un quadro sullo stato dell’arte delle scienze e della filosofia della scienza nella società contemporanea, sul ruolo delle donne nella ricerca e sulla diversità e unità umane.
Elena Gagliasso insegna Filosofia della scienza e ha insegnato Filosofia e scienze del vivente al Dipartimento di Filosofia della Sapienza, a Roma. Ha diretto il Centro interuniversitario di ricerca in epistemologia e storia delle scienze del vivente Resviva, ha contribuito alla fondazione ed è parte dei comitati scientifici dell’Aiems (Associazione italiana di epistemologia e metodologia sistemiche), dell’Associazione ‘Nuova Accademia’ e dell’Associazione ‘Donne e Scienza’. Fa parte dei Comitati Scientifici di numerose riviste scientifico-filosofiche, tra cui ‘Paradigmi. Rivista di critica filosofica’, ‘Scienza&Filosofia’, ‘Ecologia della Salute’, ‘Testo e senso’. Le sue ricerche riguardano la filosofia della biologia e dell’ecologia moderna, le relazioni tra scienza, filosofia e società.
Per l’evoluzione non ha genere, abbiamo intervistato la professoressa sul rapporto tra scienza e filosofia della scienza, e tra queste e la società in cui viviamo.
La scienza può essere considerata un fenomeno culturale con precise origini storiche?
Sì, la scienza è un fenomeno culturale con origini storiche che si possono far risalire al Seicento oppure all’antichità (secondo il matematico e storico Lucio Russo). È una delle più straordinarie forme culturali di approccio dell’essere umano al mondo: un approccio di spiegazioni, cognitivo, operativo, manipolativo, previsionale. È un processo mentale che è anche fisico, inserito nelle forme di vita. La filosofia della scienza deve costruire un ponte tra la cultura scientifica e la cultura umanistica?
L’immagine che mi ha proposto è suggestiva: la filosofia della scienza come ponte tra la cultura scientifica e quella umanistica. Un ponte dovrebbe unire due rive separate che, poi, risulteranno collegate. Tuttavia, per come s’è data la filosofia della scienza classica, cioè come riduttore di linguaggi a un minimo comune denominatore formalizzabile, costruzione di regole procedurali, forma educativa per gli scienziati stessi su cosa sia il Metodo, essa non creava certo un ponte. Anzi imbrigliava le caratteristiche ‘serendipiche’ (vedi Serendipità. L’inatteso nella scienza, di Telmo Pievani) del fare ricerca degli scienziati. Nel fare scienza certamente c’è un know-how che include caratteristiche procedurali rigorose, assiomatizzanti, ma c’è anche molto altro. Dal canto loro le filosofie umanistiche nemmeno gettavano ponti verso le filosofie più contigue alla scienza, ovvero le filosofie analitiche, la logica, l’epistemologia classica. Intorno agli anni ’70 del XX secolo, all’interno della filosofia della scienza si è assistito ad un cambio di rotta: non si prestava più attenzione solo all’esattezza del metodo, ma alle procedure delle comunità scientifiche (ad esempio, si considerino Imre Lakatos, Marcello Cini, Thomas Kuhn). Nella filosofia della scienza di quegli anni alcune domande riguardano il ‘prima’ e altre il ‘dopo’ della ricerca, e non più solamente il metodo standard in quanto tale. Per quanto riguarda gli effetti del ‘dopo’, le ricadute positive e negative delle tecno-scienze, ma anche quelle teoriche, queste informano modi di pensare epocali, anche in maniera inconsapevole, sia i soggetti civili, sia gli scienziati stessi. E per il ‘prima’? Bisogna guardare il luogo, che non è delle regole, ma delle meta-regole (si consiglia Il gioco delle regole. L’evoluzione delle strutture del sapere scientifico, di Danielle Mazzonis e Marcello Cini). Immaginate di giocare ad un gioco da tavolo. Ovviamente, per poter giocare, si rispettano delle regole. Ma chi le ha poste? Cosa le rende assolute e inderogabili? Delle operazioni ideate e poi svolte, corroborate e rispettate da soggetti diversi, con ragioni e interessi diversi. Quali sono le conseguenze del ‘dopo’? Qual è l’alternativa al ‘ponte’?
I prodotti del ‘dopo’ ricadono sulla società e creano l’humus perché si pongano successivamente certe domande e non altre. Questo humus è fatto da due componenti: il progredire autopropulsivo interno della ricerca e il contesto storico-sociale che spinge una data società a porre domande. Quindi, tra scienze e filosofie umanistiche vedo un’infiltrazione costante con i portati culturali, dalle ideologie, dalle economie di un’epoca che entra nel meta-discorso scientifico, e da questo le trasforma ulteriormente. L’infiltrazione è modulata dal progressivo e continuo ingresso delle teorie precedenti, dei dati e dei prodotti tecnologici nelle trame conoscitive e produttive della società. Le scienze del mondo vivente, continuando con una metafora, entrano “mediante un’autostrada” nella dimensione culturale e filosofica perché quanto più si avvicinano alle questioni che ci riguardano in prima persona, tanto più rilevano aspetti basilari fisici, cognitivi, di coappartenenza col resto dei viventi, precedentemente ignoti (ad esempio, le neuroscienze). Le nostre forme culturali hanno dunque un’infiltrazione scientifica costante che investe anche tematiche materiali sostanziali: come viviamo? Come ci rapportiamo tra noi? Quali sono le regole del convivere o del confliggere? Come ci nutriamo e ci coltiviamo? Parallelamente alla moltiplicazione dei saperi scientifici e alla necessità di specializzazioni settoriali, la filosofia della scienza ha subito una frammentazione? C’è una progressiva specializzazione anche in quel campo?
La frammentazione dei saperi permette anche il loro avanzamento e l’approfondimento specialistico, ma può anche deprivarli di possibilità connettive e della libertà di usare strumenti diversi per inseguire uno stesso problema. Oggi però siamo chiamati a risolvere problemi ecosistemici complessi che richiedono il convergere di più chiavi esplicative. È necessario quindi che specialisti diversi cooperino, collaborino e dialoghino, traducendosi reciprocamente i loro lessici. Inoltre, in parallelo alla moltiplicazione dei saperi scientifici, c’è anche una frammentazione delle filosofie delle scienze: vi è la filosofia della fisica, della matematica, della biologia (si consiglia La filosofia della scienza in Italia, di Eleonora Montefuschi e Pierluigi Barrotta). Tuttavia, l’aspetto più interessante non riguarda la molteplicità delle filosofie delle scienze, ma che esistano dei trend che collegano trasversalmente diverse discipline, aggregandole su due grandi assi del pensiero: il modo di pensare delle leggi e il modo di pensare dei processi.
Attenzione, entrambe le modalità di pensiero si possono trovare all’interno di una stessa disciplina. È il caso della biologia. Infatti, all’interno della biologia c’è la fisiologia che ha più bisogno di generalizzazioni e di leggi (si consiglia Fisiologia evolutiva. Riflessioni su stabilità e modificazioni nei viventi, di Luca Munaron). Poi c’è la spiegazione induttiva, abduttiva, narrativa, ricostruttiva che è legata a tutti i processi evolutivi. Quanto descritto lo ritroviamo anche in altre discipline e soprattutto in quelle che, fino a ieri, erano emblematiche di uno solo dei due stili, quello delle leggi. In particolare, la fisica dei sistemi complessi non è più la fisica delle sole leggi (si consiglia In un volo di storni, di Giorgio Parisi). Diverse filosofie delle scienze per diverse discipline e diverso accesso mentale tra scienze delle leggi e scienze dei processi. Ciò consente di comprendere come le più grandi trasformazioni, sia a livello epistemico che scientifico, hanno investito, come un’onda d’urto, contemporaneamente molte discipline e sono entrate soprattutto in quelle più nuove (climatologia, intelligenza artificiale ecc.). Secondo il CICAP, Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze “le affermazioni, le teorie, le ipotesi di spiegazione sollevate dalla scienza, che sono immesse nel dibattito pubblico, devono essere sostenute da prove e informazioni accurate, per garantire ad una società democratica le condizioni necessarie a prendere decisioni consapevoli”. Qual è il ruolo della scienza nella società contemporanea?
Prove e accesso democratico alle prove, esattezza fin dove possibile, accuratezza, trasparenza: in una parola accesso open source e condivisione. Credo che non si tratti solo di difendere il ruolo della scienza per quello che offre come crescita di conoscenze sul mondo, ma anche del suo ruolo indiretto come esempio di habitus mentale. Nel momento in cui impariamo-insegniamo le teorie scientifiche o eseguiamo esperimenti o creiamo modelli, dovremmo comunicare anche come tali caratteristiche metodologiche sono vere e proprie perle per le nostre democrazie in affanno. Sono l’obbligo alla trasparenza, lo smascheramento solerte delle fake news, il modo di porsi con scetticismo autocritico sul proprio prodotto e con un’autorizzazione reciproca ad essere scettici sul prodotto altrui (l’onere della prova).
Infine, nella filosofia della scienza più recente, si fa largo la richiesta di un ampliamento della classica ‘comunità di pari’ interna a una disciplina a molte più componenti della società (si consiglia Il valore democratico della conoscenza, a cura di Fabrizio Rufo). Ciò si realizza articolando più punti di vista, tra ricercatori di diversi campi, tra interno ed esterno dei laboratori, tra soggetti privilegiati e altri in passato emarginati. Il risultato è una un’oggettività più forte in quanto situata e plurale. Fare scienza è un modo di stare al mondo, di incontrare l’attrito della realtà, di interrogarsi sulla realtà, di condividere e mantenere l’equilibrio su quello che ognuno fa, di condividere il dubbio sistematico, le domande tenute in sospeso con fiducia nel futuro e, con questa stessa postura, affrontare l’incertezza costitutiva della realtà. Sono tutti criteri importanti se riuscissero ad essere considerati, al pari del ruolo fattivo della tecnoscienza nella società, esempi formativi che dalla ricerca possono diffondersi all’habitus di una società. Sempre secondo il CICAP “Oggi sono sempre più diffuse e seducenti idee e affermazioni pseudoscientifiche a sostegno di terapie di non provata efficacia, teorie del complotto, leggende urbane e falsificazioni storiche.”. Qual è il ruolo delle pseudoscienze nella società contemporanea?
Le pseudoscienze sono costituite da una serie di isolotti, piccoli arcipelaghi di temi sui generis che si sono enormemente amplificati con le comunicazioni virtuali nelle echo-chambers. Richiederanno sempre più un’indagine accurata per poter rispondere con il debunking (lo smontaggio) informato, ma anche per entrare in contatto con le ragioni psichiche dell’affidamento credulo a credenze indimostrabili, ma meno controintuitive per chiunque abbia necessità di ‘soluzioni facili’. Infatti, tra le pseudoscienze inseriamo alla rinfusa tanto le bufale del terrapiattismo, quanto le teorie No-vax. Eppure, portano a esiti completamente diversi per orientamenti e ricadute globali. Anche l’Italia ha avuto le sue pseudoscienze…
In Italia, abbiamo avuto, per citare i più recenti, il caso Di Bella e il caso Stamina. Esempi istruttivi perché ritengo, che in tali casi entra in gioco, quando vi entra, la ‘frode’ solo a partire da un certo punto in poi: è infatti improbabile che i soggetti interessati agissero consapevolmente in malafede fin dagli esordi. Credo, invece, che fossero medici che avessero avuto qualche feedback positivo sulle proprie ricerche, dimenticando però che ogni scienza si basa sul confronto, sul sottoporsi alle verifiche rigorose della comunità di appartenenza (peer-review), attraverso il prestigio delle pubblicazioni: svincolati dalla collettività scientifica autorevole e lavorando in mondi sempre più circoscritti e autoreferenziali hanno ceduto all’hỳbris (gr. ῞Υβρις).
Quest’ultima è sempre in agguato, soprattutto quando la ricerca tocca da vicino i temi della salute e se si è carismatici verso un pubblico sofferente e fragile, bisognoso di cure salvifiche. La ricerca scientifica, inizialmente corretta, è così deviata e perde trasparenza e rigore nella verifica tra pari. Invece, fama e notorietà crescono in maniera inversa. È in questo frangente che si può entrare impercettibilmente nella dimensione della frode e si può essere un rischio per la società. Ma dall’altro lato occorre un ‘pubblico’ ricettivo di credenze al limite della superstizione e non di prove. Notizie infondate e autentiche truffe si mimetizzano con linguaggio scientifico per diffondere contenuti privi di qualsiasi riscontro effettivo che rendono difficile un esame accurato e razionale di molti problemi ed eventi. Anche la campagna vaccinale per la Covid-19 è stata interessata dal fenomeno.
All’interno di una risposta sociale complessiva, va detto, decisamente responsabile per quanto riguarda le vaccinazioni anti Covid-19, non sorprende l’esistenza del movimento anti-vaccinisti, né è certo una novità dal punto di vista storico (si consiglia l’articolo “La lunga storia dell’opposizione ai vaccini”). Il principio stesso del vaccino è controintuitivo sul piano emozionale con l’introdurre in un corpo sano un elemento potenzialmente nocivo. Invece di reagire in maniera contrastiva si potevano raggiungere più persone allargando i loro confini cognitivi con forme di persuasione, ascolto, convincimento. In tal modo, forse si sarebbe contrastata una disinformazione che si espandeva nel mondo dei social. La scienza ha fatto il carico di critiche. Perché?
Chi si occupa di scienza si deve anche interrogare su quale immagine di essa e di sé (come ricercatore/ricercatrice) abbia dato. Le critiche forti, che vedevano la scienza come disumanizzante e contro la dimensione ineffabile ‘romantica’ dell’essere umano, sono di due secoli fa. Più vicine a noi sono state le critiche nel dopoguerra, che nascevano da efferati crimini di fine conflitto, nati direttamente dalla ricerca sull’atomo: l’uso della bomba atomica. Tuttavia, quello che non è mai stato sufficientemente diffuso è il travaglio e il dibattito scientifico che ci sono stati nelle comunità dei fisici proprio dietro l’uso della bomba atomica. Un travaglio che, ritengo, ha poi permesso a distanza di una generazione la nascita di importanti riflessioni sulla non-neutralità della scienza negli anni ’70 (si consiglia Per una scienza critica). Ecco, è come se tutto ciò ultimamente si fosse diluito, spinti anche dalla necessità di fare della scienza sempre più un’impresa e a causa della scarsa preparazione scientifica di base nell’istruzione. Cosa si può contrapporre a questa ‘diluizione’ di cui parla?
Credo sia necessario ritornare periodicamente su che cos’è fare scienza e diffonderlo: la capacità di una sorveglianza costantemente autocritica, di dubitare costruttivamente nello scetticismo metodologico, l’interrogarsi anche sui suoi fini, sui concetti influenti nelle teorie, sui contesti delle domande. È un passaggio fondamentale per non presentare solo la “scienza delle promesse e delle soluzioni” che conforta quello che indicherò come il “paradigma della rassicurazione umana”, ma che ha armi spuntate di fronte alle mistificazioni delle pseudoscienze. Di fronte a queste ultime, in continua metamorfosi, la credibilità della scienza non si salva con messaggi di progressismo incline al mito. Al contrario, c’è la necessità di prendere decisioni urgenti con delle conoscenze incerte e con un grande contrasto di valori all’interno: si tratta di un’impresa complessa ed estranea a qualsiasi semplificazione scientista. Probabilmente, la via d’uscita la si può ritrovare anche nell’istruzione: insegnare l’arte del dubbio e applicare il metodo scientifico nella vita come presupposto per diventare cittadini più consapevoli e partecipare criticamente alla vita democratica.
Esatto, questa è la strada giusta: una crescita collettiva diffusa e precoce, che oggi manca ed espone a messaggi più seducenti, e mentalmente riposanti del rigore e del dubbio. Bisogna avere il coraggio di conoscere, di superare i confini, i limiti che ci poniamo o che la società, la cultura impongono. La parola “confine” ha diversi significati: demarca realtà diverse, dà senso a ciò che delimita, evita la fusione; è una barriera che può separare o unire perché lì dove c’è un confine ci sono due versanti che, in qualche modo, comunicano.
Concordo. I confini sono cruciali, inevitabili e delimitativi nel conoscere e diventano pericolosi se sono barriere. Quanto siamo coscienti dei modi peculiari che abbiamo di stare nella ricerca, di quali sono i giusti limiti da rispettare o le barriere che ostacolano da superare? Le donne nella scienza, ad oggi, si aprono verso l’esterno? È davvero concesso loro di aprirsi verso l’esterno o restano “confinate”?
Spesso utilizziamo in maniera indifferente i termini “confine” e “frontiera”. Eppure, la differenza è abissale: la frontiera è uno sbarramento; il confine è un territorio pervio. Dal punto di vista geopolitico, spesso sentiamo parlare di frontiere e non di confini. Ma i confini non sono propriamente solo linee, se non appunto sulle carte. Il confine è in senso lato ciò che permette la relazione tra un sistema e l’ambiente circostante. Nella realtà hanno spessore: c’è una parte che sporge verso l’esterno e una verso l’interno, e c’è anche dunque lo spazio intermedio. Le donne sono ‘dentro’ i confini? O possono osare e andare oltre? Le donne, direi piuttosto, stanno probabilmente, in ordine sparso, allargando le maglie di questi spazi dei confini, per sé stesse e forse anche per altri: fuor di metafora, non è questione di metri, ma di uno spazio-tempo. Si sta dentro questa realtà che non è ancora quella di domani e non è più quella di prima.
Attenzione, non dev’essere inteso come la possibilità di scavalcare il proprio settore disciplinare in maniera impropria, ma va riconosciuto che gli spazi disciplinari vengono allargati soprattutto dalle ricercatrici. Di questo ne abbiamo evidenza: molte tra le ricerche più interessanti mostrano che una caratteristica presente – e anche, a volte, penalizzante in base ai rigidi sistemi di valutazione delle pubblicazioni scientifiche e del loro impatto all’interno della comunità scientifica – per molte scienziate sia quella di essere fortemente trans-disciplinari. Ciò consente l’interazione tra domande di un settore e un altro, di appoggiarsi a realtà di ricerca diverse tra loro che poi si coerentizzano in una prospettiva nuova dei fenomeni. Pensare le ricercatrici chiuse dentro il confine o vederle, finalmente, fare il fatidico salto fuori è una visione un po’ superata, perché è negli spazi intermedi di passaggio tra dentro e fuori dei confini disciplinari e nelle aree di confluenza tra campi di studio anche distanti che nasce il nuovo. Quale ruolo ha il mentoring nel superamento di tali confini?
Guardando ai lavori di epistemologhe come Donna Haraway ed Evelyn Fox Keller, vediamo che non si tratta solo di superare barriere sociali d’accesso o di crescita professionale, aiutando ad esempio le giovani nell’upgrading. C’è qualcosa di più sottile e interessante di cui non siamo fino in fondo consapevoli e riguarda l’affiorare del nostro modo di stare di fronte alla realtà naturale o dentro la realtà naturale o di sentirsene parte. Quando Evelyn Fox Keller intervistò Barbara McClintock scrisse il libro “In sintonia con l’organismo”: Barbara McClintock aveva un modo di stare e ‘com-partecipare’ con gli oggetti viventi della sua ricerca peculiare perché entrava in risonanza biologica con essi. Queste riflessioni non erano mai state fatte prima e rappresentano modi diversi e nuovi di porsi che precedono il metodo. Attenzione perché da qui è facile cadere nell’ideologia (le donne si sentono diverse, le donne si sentono migliori) e mettere in secondo piano la comune co-appartenenza di ricercatrici, ricercatori e mondi naturali. Come si sviluppa, nel corso della vita di una ricercatrice e studiosa, e come sono traducibili e/o comunicabili la passione, la fatica, la meraviglia, il disgusto, la costrizione, il potere, l’esultanza e le sconfitte proprie di una lunga vita di ricerca? Sono tutti elementi che fanno parte dello ‘stare’ nella ricerca, e non vengono quasi mai verbalizzati. Né dovranno essere necessariamente verbalizzati, ma devono poter filtrare tra mentore e discente. Credo il vero mentoring sia l’esempio di vita quotidiana nella ricerca: una tutor/docente a suo agio, ma sempre “in cerca” e che ricava anche dalle difficoltà la ricarica con cui andare avanti. Utopia? Oggi in vari campi è già possibile, anche grazie alle molte lotte delle donne del passato. Facendo seguito al suo chiarimento sulle parole confine e frontiera nell’ambito della scienza, il discorso può ampliarsi e toccare temi importanti, evidenziati anche da Papa Francesco nell’Enciclica sociale “Fratelli tutti”: “[…] come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi […]”. Questo mi riporta al Manifesto della diversità & dell’unità umana. Le diversità sono utilizzate, spesso, per mostrare l’inferiorità e/o la presunta superiorità dell’uno verso l’Altro.
Il Manifesto della diversità & dell’unità umana del 2018 è stato scritto in occasione degli ottant’anni dal manifesto della razza dell’Italia fascista del 14 luglio 1938. La risposta antitetica del nostro manifesto è alla luce delle ricerche più recenti che evidenziano l’importanza della diversità umana come diversità sostanzialmente interindividuale, modulabile entro l’uguaglianza politica e dei diritti. Si è messo in discussione il concetto stesso di razza, sottolineando le differenze interindividuali in tutte le popolazioni e contemporaneamente la loro grande e variegata unità. Questo manifesto del 2018 faceva peraltro seguito ad un altro del 2008: il manifesto degli scienziati contro il razzismo. Nel 2008 rispondemmo, colpo su colpo più dal versante biologico, politico ed epistemologico (anche alla luce degli studi di Luigi Luca Cavalli-Sforza) ai dieci articoli del Manifesto della razza fascista, con dieci corrispondenti confutazioni. Oggigiorno, la coesione sociale e la convivenza civile sono minate da razzismo, stigmi di disuguaglianza e xenofobia, alimentati ancor di più dalla crisi economica dei paesi occidentali e dal deterioramento ambientale. Le nuove forme di razzismo riguardano le differenze culturali e religiose. Eppure, la scienza ha dimostrato l’infondatezza di antiche e nuove forme di razzismo (si consiglia “L’invenzione delle razze” di Guido Barbujani). Cosa manca, ancora, per rendere possibile la coesione sociale?
Per sopravvivere fin dagli esordi dei processi evolutivi che hanno condotto all’attuale specie umana, l’Altro, diverso dal ‘noi’, può essere una potenziale minaccia, dal punto di vista etologico e psichico. Successivamente le diverse culture hanno rimodulato in varie forme questo retaggio evolutivo e là dove cresce l’accoglienza e la curiosità simpatetica si creano mondi migliori. Facendo un passo indietro nella paleo-storia umana, la necessità di sopravvivere prevaleva sul bisogno-rischio di fare amicizia. Su tale retaggio remoto sono sorti pregiudizi e ideologie sui quali la scienza non sempre può agire. La scienza, infatti, non risolve tutto. C’è la storia, la politica e la geopolitica, le economie differenziali, le regressioni insieme agli avanzamenti dei valori. I manifesti del 2008 e del 2018 sono stati in questo senso strumenti importanti, diffusi nelle scuole, nei siti, nei social, offerti alla riflessione e alla crescita collettiva della società. Ma c’è bisogno di dare ancora seguito a queste iniziative, inventarne ulteriori cablate sul momento di nuovo pericolosamente oscuro che stiamo vivendo. Parafrasando Kant, già Ulrich Beck aveva affermato che “la razionalità scientifica senza quella sociale rimane vuota, la razionalità sociale senza quella scientifica rimane cieca” (Gagliasso, E. & Campanella S., 2020). Per approfondire: Turchetti, S., Capocci, M., & Gagliasso, E. (2002). Production, Science and Epistemology. An Overview on New Models and Scenarios. Model-Based Reasoning: Science, Technology, Values. Springer, Boston, MA. doi: 10.1007/978-1-4615-0605-8_7 Gagliasso E., Frezza G. (a cura di), 2010, Metafore del vivente. Linguaggi e ricerca scientifica tra filosofia, bios e psiche, Franco Angeli. Continenza, B., Gagliasso, E. e Sterpetti, F. (a cura di), 2013, Confini Aperti. Il rapporto interno/esterno in biologia, Franco Angeli.
Sì, la scienza è un fenomeno culturale con origini storiche che si possono far risalire al Seicento oppure all’antichità (secondo il matematico e storico Lucio Russo). È una delle più straordinarie forme culturali di approccio dell’essere umano al mondo: un approccio di spiegazioni, cognitivo, operativo, manipolativo, previsionale. È un processo mentale che è anche fisico, inserito nelle forme di vita. La filosofia della scienza deve costruire un ponte tra la cultura scientifica e la cultura umanistica?
L’immagine che mi ha proposto è suggestiva: la filosofia della scienza come ponte tra la cultura scientifica e quella umanistica. Un ponte dovrebbe unire due rive separate che, poi, risulteranno collegate. Tuttavia, per come s’è data la filosofia della scienza classica, cioè come riduttore di linguaggi a un minimo comune denominatore formalizzabile, costruzione di regole procedurali, forma educativa per gli scienziati stessi su cosa sia il Metodo, essa non creava certo un ponte. Anzi imbrigliava le caratteristiche ‘serendipiche’ (vedi Serendipità. L’inatteso nella scienza, di Telmo Pievani) del fare ricerca degli scienziati. Nel fare scienza certamente c’è un know-how che include caratteristiche procedurali rigorose, assiomatizzanti, ma c’è anche molto altro. Dal canto loro le filosofie umanistiche nemmeno gettavano ponti verso le filosofie più contigue alla scienza, ovvero le filosofie analitiche, la logica, l’epistemologia classica. Intorno agli anni ’70 del XX secolo, all’interno della filosofia della scienza si è assistito ad un cambio di rotta: non si prestava più attenzione solo all’esattezza del metodo, ma alle procedure delle comunità scientifiche (ad esempio, si considerino Imre Lakatos, Marcello Cini, Thomas Kuhn). Nella filosofia della scienza di quegli anni alcune domande riguardano il ‘prima’ e altre il ‘dopo’ della ricerca, e non più solamente il metodo standard in quanto tale. Per quanto riguarda gli effetti del ‘dopo’, le ricadute positive e negative delle tecno-scienze, ma anche quelle teoriche, queste informano modi di pensare epocali, anche in maniera inconsapevole, sia i soggetti civili, sia gli scienziati stessi. E per il ‘prima’? Bisogna guardare il luogo, che non è delle regole, ma delle meta-regole (si consiglia Il gioco delle regole. L’evoluzione delle strutture del sapere scientifico, di Danielle Mazzonis e Marcello Cini). Immaginate di giocare ad un gioco da tavolo. Ovviamente, per poter giocare, si rispettano delle regole. Ma chi le ha poste? Cosa le rende assolute e inderogabili? Delle operazioni ideate e poi svolte, corroborate e rispettate da soggetti diversi, con ragioni e interessi diversi. Quali sono le conseguenze del ‘dopo’? Qual è l’alternativa al ‘ponte’?
I prodotti del ‘dopo’ ricadono sulla società e creano l’humus perché si pongano successivamente certe domande e non altre. Questo humus è fatto da due componenti: il progredire autopropulsivo interno della ricerca e il contesto storico-sociale che spinge una data società a porre domande. Quindi, tra scienze e filosofie umanistiche vedo un’infiltrazione costante con i portati culturali, dalle ideologie, dalle economie di un’epoca che entra nel meta-discorso scientifico, e da questo le trasforma ulteriormente. L’infiltrazione è modulata dal progressivo e continuo ingresso delle teorie precedenti, dei dati e dei prodotti tecnologici nelle trame conoscitive e produttive della società. Le scienze del mondo vivente, continuando con una metafora, entrano “mediante un’autostrada” nella dimensione culturale e filosofica perché quanto più si avvicinano alle questioni che ci riguardano in prima persona, tanto più rilevano aspetti basilari fisici, cognitivi, di coappartenenza col resto dei viventi, precedentemente ignoti (ad esempio, le neuroscienze). Le nostre forme culturali hanno dunque un’infiltrazione scientifica costante che investe anche tematiche materiali sostanziali: come viviamo? Come ci rapportiamo tra noi? Quali sono le regole del convivere o del confliggere? Come ci nutriamo e ci coltiviamo? Parallelamente alla moltiplicazione dei saperi scientifici e alla necessità di specializzazioni settoriali, la filosofia della scienza ha subito una frammentazione? C’è una progressiva specializzazione anche in quel campo?
La frammentazione dei saperi permette anche il loro avanzamento e l’approfondimento specialistico, ma può anche deprivarli di possibilità connettive e della libertà di usare strumenti diversi per inseguire uno stesso problema. Oggi però siamo chiamati a risolvere problemi ecosistemici complessi che richiedono il convergere di più chiavi esplicative. È necessario quindi che specialisti diversi cooperino, collaborino e dialoghino, traducendosi reciprocamente i loro lessici. Inoltre, in parallelo alla moltiplicazione dei saperi scientifici, c’è anche una frammentazione delle filosofie delle scienze: vi è la filosofia della fisica, della matematica, della biologia (si consiglia La filosofia della scienza in Italia, di Eleonora Montefuschi e Pierluigi Barrotta). Tuttavia, l’aspetto più interessante non riguarda la molteplicità delle filosofie delle scienze, ma che esistano dei trend che collegano trasversalmente diverse discipline, aggregandole su due grandi assi del pensiero: il modo di pensare delle leggi e il modo di pensare dei processi.
Attenzione, entrambe le modalità di pensiero si possono trovare all’interno di una stessa disciplina. È il caso della biologia. Infatti, all’interno della biologia c’è la fisiologia che ha più bisogno di generalizzazioni e di leggi (si consiglia Fisiologia evolutiva. Riflessioni su stabilità e modificazioni nei viventi, di Luca Munaron). Poi c’è la spiegazione induttiva, abduttiva, narrativa, ricostruttiva che è legata a tutti i processi evolutivi. Quanto descritto lo ritroviamo anche in altre discipline e soprattutto in quelle che, fino a ieri, erano emblematiche di uno solo dei due stili, quello delle leggi. In particolare, la fisica dei sistemi complessi non è più la fisica delle sole leggi (si consiglia In un volo di storni, di Giorgio Parisi). Diverse filosofie delle scienze per diverse discipline e diverso accesso mentale tra scienze delle leggi e scienze dei processi. Ciò consente di comprendere come le più grandi trasformazioni, sia a livello epistemico che scientifico, hanno investito, come un’onda d’urto, contemporaneamente molte discipline e sono entrate soprattutto in quelle più nuove (climatologia, intelligenza artificiale ecc.). Secondo il CICAP, Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze “le affermazioni, le teorie, le ipotesi di spiegazione sollevate dalla scienza, che sono immesse nel dibattito pubblico, devono essere sostenute da prove e informazioni accurate, per garantire ad una società democratica le condizioni necessarie a prendere decisioni consapevoli”. Qual è il ruolo della scienza nella società contemporanea?
Prove e accesso democratico alle prove, esattezza fin dove possibile, accuratezza, trasparenza: in una parola accesso open source e condivisione. Credo che non si tratti solo di difendere il ruolo della scienza per quello che offre come crescita di conoscenze sul mondo, ma anche del suo ruolo indiretto come esempio di habitus mentale. Nel momento in cui impariamo-insegniamo le teorie scientifiche o eseguiamo esperimenti o creiamo modelli, dovremmo comunicare anche come tali caratteristiche metodologiche sono vere e proprie perle per le nostre democrazie in affanno. Sono l’obbligo alla trasparenza, lo smascheramento solerte delle fake news, il modo di porsi con scetticismo autocritico sul proprio prodotto e con un’autorizzazione reciproca ad essere scettici sul prodotto altrui (l’onere della prova).
Infine, nella filosofia della scienza più recente, si fa largo la richiesta di un ampliamento della classica ‘comunità di pari’ interna a una disciplina a molte più componenti della società (si consiglia Il valore democratico della conoscenza, a cura di Fabrizio Rufo). Ciò si realizza articolando più punti di vista, tra ricercatori di diversi campi, tra interno ed esterno dei laboratori, tra soggetti privilegiati e altri in passato emarginati. Il risultato è una un’oggettività più forte in quanto situata e plurale. Fare scienza è un modo di stare al mondo, di incontrare l’attrito della realtà, di interrogarsi sulla realtà, di condividere e mantenere l’equilibrio su quello che ognuno fa, di condividere il dubbio sistematico, le domande tenute in sospeso con fiducia nel futuro e, con questa stessa postura, affrontare l’incertezza costitutiva della realtà. Sono tutti criteri importanti se riuscissero ad essere considerati, al pari del ruolo fattivo della tecnoscienza nella società, esempi formativi che dalla ricerca possono diffondersi all’habitus di una società. Sempre secondo il CICAP “Oggi sono sempre più diffuse e seducenti idee e affermazioni pseudoscientifiche a sostegno di terapie di non provata efficacia, teorie del complotto, leggende urbane e falsificazioni storiche.”. Qual è il ruolo delle pseudoscienze nella società contemporanea?
Le pseudoscienze sono costituite da una serie di isolotti, piccoli arcipelaghi di temi sui generis che si sono enormemente amplificati con le comunicazioni virtuali nelle echo-chambers. Richiederanno sempre più un’indagine accurata per poter rispondere con il debunking (lo smontaggio) informato, ma anche per entrare in contatto con le ragioni psichiche dell’affidamento credulo a credenze indimostrabili, ma meno controintuitive per chiunque abbia necessità di ‘soluzioni facili’. Infatti, tra le pseudoscienze inseriamo alla rinfusa tanto le bufale del terrapiattismo, quanto le teorie No-vax. Eppure, portano a esiti completamente diversi per orientamenti e ricadute globali. Anche l’Italia ha avuto le sue pseudoscienze…
In Italia, abbiamo avuto, per citare i più recenti, il caso Di Bella e il caso Stamina. Esempi istruttivi perché ritengo, che in tali casi entra in gioco, quando vi entra, la ‘frode’ solo a partire da un certo punto in poi: è infatti improbabile che i soggetti interessati agissero consapevolmente in malafede fin dagli esordi. Credo, invece, che fossero medici che avessero avuto qualche feedback positivo sulle proprie ricerche, dimenticando però che ogni scienza si basa sul confronto, sul sottoporsi alle verifiche rigorose della comunità di appartenenza (peer-review), attraverso il prestigio delle pubblicazioni: svincolati dalla collettività scientifica autorevole e lavorando in mondi sempre più circoscritti e autoreferenziali hanno ceduto all’hỳbris (gr. ῞Υβρις).
Quest’ultima è sempre in agguato, soprattutto quando la ricerca tocca da vicino i temi della salute e se si è carismatici verso un pubblico sofferente e fragile, bisognoso di cure salvifiche. La ricerca scientifica, inizialmente corretta, è così deviata e perde trasparenza e rigore nella verifica tra pari. Invece, fama e notorietà crescono in maniera inversa. È in questo frangente che si può entrare impercettibilmente nella dimensione della frode e si può essere un rischio per la società. Ma dall’altro lato occorre un ‘pubblico’ ricettivo di credenze al limite della superstizione e non di prove. Notizie infondate e autentiche truffe si mimetizzano con linguaggio scientifico per diffondere contenuti privi di qualsiasi riscontro effettivo che rendono difficile un esame accurato e razionale di molti problemi ed eventi. Anche la campagna vaccinale per la Covid-19 è stata interessata dal fenomeno.
All’interno di una risposta sociale complessiva, va detto, decisamente responsabile per quanto riguarda le vaccinazioni anti Covid-19, non sorprende l’esistenza del movimento anti-vaccinisti, né è certo una novità dal punto di vista storico (si consiglia l’articolo “La lunga storia dell’opposizione ai vaccini”). Il principio stesso del vaccino è controintuitivo sul piano emozionale con l’introdurre in un corpo sano un elemento potenzialmente nocivo. Invece di reagire in maniera contrastiva si potevano raggiungere più persone allargando i loro confini cognitivi con forme di persuasione, ascolto, convincimento. In tal modo, forse si sarebbe contrastata una disinformazione che si espandeva nel mondo dei social. La scienza ha fatto il carico di critiche. Perché?
Chi si occupa di scienza si deve anche interrogare su quale immagine di essa e di sé (come ricercatore/ricercatrice) abbia dato. Le critiche forti, che vedevano la scienza come disumanizzante e contro la dimensione ineffabile ‘romantica’ dell’essere umano, sono di due secoli fa. Più vicine a noi sono state le critiche nel dopoguerra, che nascevano da efferati crimini di fine conflitto, nati direttamente dalla ricerca sull’atomo: l’uso della bomba atomica. Tuttavia, quello che non è mai stato sufficientemente diffuso è il travaglio e il dibattito scientifico che ci sono stati nelle comunità dei fisici proprio dietro l’uso della bomba atomica. Un travaglio che, ritengo, ha poi permesso a distanza di una generazione la nascita di importanti riflessioni sulla non-neutralità della scienza negli anni ’70 (si consiglia Per una scienza critica). Ecco, è come se tutto ciò ultimamente si fosse diluito, spinti anche dalla necessità di fare della scienza sempre più un’impresa e a causa della scarsa preparazione scientifica di base nell’istruzione. Cosa si può contrapporre a questa ‘diluizione’ di cui parla?
Credo sia necessario ritornare periodicamente su che cos’è fare scienza e diffonderlo: la capacità di una sorveglianza costantemente autocritica, di dubitare costruttivamente nello scetticismo metodologico, l’interrogarsi anche sui suoi fini, sui concetti influenti nelle teorie, sui contesti delle domande. È un passaggio fondamentale per non presentare solo la “scienza delle promesse e delle soluzioni” che conforta quello che indicherò come il “paradigma della rassicurazione umana”, ma che ha armi spuntate di fronte alle mistificazioni delle pseudoscienze. Di fronte a queste ultime, in continua metamorfosi, la credibilità della scienza non si salva con messaggi di progressismo incline al mito. Al contrario, c’è la necessità di prendere decisioni urgenti con delle conoscenze incerte e con un grande contrasto di valori all’interno: si tratta di un’impresa complessa ed estranea a qualsiasi semplificazione scientista. Probabilmente, la via d’uscita la si può ritrovare anche nell’istruzione: insegnare l’arte del dubbio e applicare il metodo scientifico nella vita come presupposto per diventare cittadini più consapevoli e partecipare criticamente alla vita democratica.
Esatto, questa è la strada giusta: una crescita collettiva diffusa e precoce, che oggi manca ed espone a messaggi più seducenti, e mentalmente riposanti del rigore e del dubbio. Bisogna avere il coraggio di conoscere, di superare i confini, i limiti che ci poniamo o che la società, la cultura impongono. La parola “confine” ha diversi significati: demarca realtà diverse, dà senso a ciò che delimita, evita la fusione; è una barriera che può separare o unire perché lì dove c’è un confine ci sono due versanti che, in qualche modo, comunicano.
Concordo. I confini sono cruciali, inevitabili e delimitativi nel conoscere e diventano pericolosi se sono barriere. Quanto siamo coscienti dei modi peculiari che abbiamo di stare nella ricerca, di quali sono i giusti limiti da rispettare o le barriere che ostacolano da superare? Le donne nella scienza, ad oggi, si aprono verso l’esterno? È davvero concesso loro di aprirsi verso l’esterno o restano “confinate”?
Spesso utilizziamo in maniera indifferente i termini “confine” e “frontiera”. Eppure, la differenza è abissale: la frontiera è uno sbarramento; il confine è un territorio pervio. Dal punto di vista geopolitico, spesso sentiamo parlare di frontiere e non di confini. Ma i confini non sono propriamente solo linee, se non appunto sulle carte. Il confine è in senso lato ciò che permette la relazione tra un sistema e l’ambiente circostante. Nella realtà hanno spessore: c’è una parte che sporge verso l’esterno e una verso l’interno, e c’è anche dunque lo spazio intermedio. Le donne sono ‘dentro’ i confini? O possono osare e andare oltre? Le donne, direi piuttosto, stanno probabilmente, in ordine sparso, allargando le maglie di questi spazi dei confini, per sé stesse e forse anche per altri: fuor di metafora, non è questione di metri, ma di uno spazio-tempo. Si sta dentro questa realtà che non è ancora quella di domani e non è più quella di prima.
Attenzione, non dev’essere inteso come la possibilità di scavalcare il proprio settore disciplinare in maniera impropria, ma va riconosciuto che gli spazi disciplinari vengono allargati soprattutto dalle ricercatrici. Di questo ne abbiamo evidenza: molte tra le ricerche più interessanti mostrano che una caratteristica presente – e anche, a volte, penalizzante in base ai rigidi sistemi di valutazione delle pubblicazioni scientifiche e del loro impatto all’interno della comunità scientifica – per molte scienziate sia quella di essere fortemente trans-disciplinari. Ciò consente l’interazione tra domande di un settore e un altro, di appoggiarsi a realtà di ricerca diverse tra loro che poi si coerentizzano in una prospettiva nuova dei fenomeni. Pensare le ricercatrici chiuse dentro il confine o vederle, finalmente, fare il fatidico salto fuori è una visione un po’ superata, perché è negli spazi intermedi di passaggio tra dentro e fuori dei confini disciplinari e nelle aree di confluenza tra campi di studio anche distanti che nasce il nuovo. Quale ruolo ha il mentoring nel superamento di tali confini?
Guardando ai lavori di epistemologhe come Donna Haraway ed Evelyn Fox Keller, vediamo che non si tratta solo di superare barriere sociali d’accesso o di crescita professionale, aiutando ad esempio le giovani nell’upgrading. C’è qualcosa di più sottile e interessante di cui non siamo fino in fondo consapevoli e riguarda l’affiorare del nostro modo di stare di fronte alla realtà naturale o dentro la realtà naturale o di sentirsene parte. Quando Evelyn Fox Keller intervistò Barbara McClintock scrisse il libro “In sintonia con l’organismo”: Barbara McClintock aveva un modo di stare e ‘com-partecipare’ con gli oggetti viventi della sua ricerca peculiare perché entrava in risonanza biologica con essi. Queste riflessioni non erano mai state fatte prima e rappresentano modi diversi e nuovi di porsi che precedono il metodo. Attenzione perché da qui è facile cadere nell’ideologia (le donne si sentono diverse, le donne si sentono migliori) e mettere in secondo piano la comune co-appartenenza di ricercatrici, ricercatori e mondi naturali. Come si sviluppa, nel corso della vita di una ricercatrice e studiosa, e come sono traducibili e/o comunicabili la passione, la fatica, la meraviglia, il disgusto, la costrizione, il potere, l’esultanza e le sconfitte proprie di una lunga vita di ricerca? Sono tutti elementi che fanno parte dello ‘stare’ nella ricerca, e non vengono quasi mai verbalizzati. Né dovranno essere necessariamente verbalizzati, ma devono poter filtrare tra mentore e discente. Credo il vero mentoring sia l’esempio di vita quotidiana nella ricerca: una tutor/docente a suo agio, ma sempre “in cerca” e che ricava anche dalle difficoltà la ricarica con cui andare avanti. Utopia? Oggi in vari campi è già possibile, anche grazie alle molte lotte delle donne del passato. Facendo seguito al suo chiarimento sulle parole confine e frontiera nell’ambito della scienza, il discorso può ampliarsi e toccare temi importanti, evidenziati anche da Papa Francesco nell’Enciclica sociale “Fratelli tutti”: “[…] come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi […]”. Questo mi riporta al Manifesto della diversità & dell’unità umana. Le diversità sono utilizzate, spesso, per mostrare l’inferiorità e/o la presunta superiorità dell’uno verso l’Altro.
Il Manifesto della diversità & dell’unità umana del 2018 è stato scritto in occasione degli ottant’anni dal manifesto della razza dell’Italia fascista del 14 luglio 1938. La risposta antitetica del nostro manifesto è alla luce delle ricerche più recenti che evidenziano l’importanza della diversità umana come diversità sostanzialmente interindividuale, modulabile entro l’uguaglianza politica e dei diritti. Si è messo in discussione il concetto stesso di razza, sottolineando le differenze interindividuali in tutte le popolazioni e contemporaneamente la loro grande e variegata unità. Questo manifesto del 2018 faceva peraltro seguito ad un altro del 2008: il manifesto degli scienziati contro il razzismo. Nel 2008 rispondemmo, colpo su colpo più dal versante biologico, politico ed epistemologico (anche alla luce degli studi di Luigi Luca Cavalli-Sforza) ai dieci articoli del Manifesto della razza fascista, con dieci corrispondenti confutazioni. Oggigiorno, la coesione sociale e la convivenza civile sono minate da razzismo, stigmi di disuguaglianza e xenofobia, alimentati ancor di più dalla crisi economica dei paesi occidentali e dal deterioramento ambientale. Le nuove forme di razzismo riguardano le differenze culturali e religiose. Eppure, la scienza ha dimostrato l’infondatezza di antiche e nuove forme di razzismo (si consiglia “L’invenzione delle razze” di Guido Barbujani). Cosa manca, ancora, per rendere possibile la coesione sociale?
Per sopravvivere fin dagli esordi dei processi evolutivi che hanno condotto all’attuale specie umana, l’Altro, diverso dal ‘noi’, può essere una potenziale minaccia, dal punto di vista etologico e psichico. Successivamente le diverse culture hanno rimodulato in varie forme questo retaggio evolutivo e là dove cresce l’accoglienza e la curiosità simpatetica si creano mondi migliori. Facendo un passo indietro nella paleo-storia umana, la necessità di sopravvivere prevaleva sul bisogno-rischio di fare amicizia. Su tale retaggio remoto sono sorti pregiudizi e ideologie sui quali la scienza non sempre può agire. La scienza, infatti, non risolve tutto. C’è la storia, la politica e la geopolitica, le economie differenziali, le regressioni insieme agli avanzamenti dei valori. I manifesti del 2008 e del 2018 sono stati in questo senso strumenti importanti, diffusi nelle scuole, nei siti, nei social, offerti alla riflessione e alla crescita collettiva della società. Ma c’è bisogno di dare ancora seguito a queste iniziative, inventarne ulteriori cablate sul momento di nuovo pericolosamente oscuro che stiamo vivendo. Parafrasando Kant, già Ulrich Beck aveva affermato che “la razionalità scientifica senza quella sociale rimane vuota, la razionalità sociale senza quella scientifica rimane cieca” (Gagliasso, E. & Campanella S., 2020). Per approfondire: Turchetti, S., Capocci, M., & Gagliasso, E. (2002). Production, Science and Epistemology. An Overview on New Models and Scenarios. Model-Based Reasoning: Science, Technology, Values. Springer, Boston, MA. doi: 10.1007/978-1-4615-0605-8_7 Gagliasso E., Frezza G. (a cura di), 2010, Metafore del vivente. Linguaggi e ricerca scientifica tra filosofia, bios e psiche, Franco Angeli. Continenza, B., Gagliasso, E. e Sterpetti, F. (a cura di), 2013, Confini Aperti. Il rapporto interno/esterno in biologia, Franco Angeli.
Dopo la laurea magistrale in Neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2015, ho conseguito il Dottorato di ricerca in scienze biomediche sperimentali all’Università di Padova nel 2020. Da ottobre 2019 sono un’insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ad ottobre 2022 ho concluso il Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Parma, grazie al quale ho iniziato a collaborare con Pikaia.