Giorello: La scienza antidoto al fanatismo

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Ricordiamo il grande filosofo della scienza Giulio Giorello con un suo testo su scienza e religione, pubblicato alcuni anni fa su Micromega


Se da un lato ciascuno, dunque anche gli scienziati, può credere in quel che vuole – credenze che sono libere finché però non nuocciono agli altri – dall’altro, chi lavora nel campo della scienza non dovrebbe permettere che la sua eventuale fede interferisca con la sua ricerca. Peraltro, al contrario di quel che di solito si sostiene, scienza e tecnologia “sono riuscite a realizzare, seppur con non poche ‘contorsioni’, una profonda unità spirituale, ben superiore a quella tentata senza successo da troppi ‘folli di Dio’”

di Giulio Giorello, da MicroMega 8/2017


1. Vorrei sottolineare che anche secondo l’atteggiamento religioso ogni fenomeno ha una causa, riconducibile alla volontà divina. Dunque non vedo perché si debbano considerare i cosiddetti «miracoli» come fatti «soprannaturali», a meno che non si voglia abbassare tanto la nozione di Dio quanto quella di natura. Certo, religione e scienza forniscono schemi di spiegazione piuttosto diversi, eppure non mi pare questa una mancanza di una società economicamente matura e sufficientemente «liberale». Intendo quest’ultimo termine non certo quale sinonimo di liberista, ma come ulteriore esplicazione dell’ideale di una società aperta, come è stato definito con grande chiarezza da Karl Popper e, qui da noi, da Luigi Einaudi. Tanto per essere esplicito, personalmente non mi interessa che un grande cosmologo come Georges Lemaître credesse in Dio, quanto piuttosto il modo in cui ha formulato in maniera convincente ed empiricamente consistente la sua concezione dell’«atomo primevo» da cui è scaturito il nostro universo.

2. Non ho molta simpatia per tutti quegli intellettuali (e credo ce ne siano molti) che cercano consolazione al malessere della società in questa o quella credenza religiosa. Di fronte alle difficoltà talvolta enormi del mondo in cui viviamo, essi scelgono di arrendersi a forze che producono fanatismo e ignoranza. Non intendo con ciò contestare il diritto di ognuno di seguire la religione che più gli aggrada, purché in questa sua scelta si astenga da qualsiasi danno ad altri. È stato questo per altro l’insegnamento dei Padri fondatori degli Stati Uniti d’America, ai tempi di George Washington e di Thomas Jefferson — e lasciamo perdere il detto In God We Trust, stampato poi sulle banconote dei capitalisti Usa! Del resto, uno dei malanni ricorrenti negli stessi paesi europei è la tendenza di non pochi politici a palesare un atteggiamento «religioso» per conquistare voti alle elezioni. Bisogna dire subito che un malcostume del genere non ha nulla a che vedere con un genuino sentimento religioso e nemmeno con l’adesione a questa o a quella religione positiva. Tuttavia, i rappresentanti di ogni religione dovrebbero essere ben più severi nei confronti di tale sfruttamento della loro fede e della loro forma di vita.

3. Ce l’ha insegnato l’Illuminismo radicale, che diede vita a una cultura ricca e varia senza cercare rifugio in alcuna religione positiva. Questo tipo di cultura ha duramente lottato nella storia europea contro l’invadenza istituzionale del cristianesimo nelle sue diverse rielaborazioni dopo la Riforma. Ritengo che nemmeno oggi si abbia bisogno della condanna di Serveto da parte di Giovanni Calvino o di quella di Giordano Bruno da parte dell’Inquisizione cattolica. Per quanto riguarda poi la «religione profetica» non si deve neanche dimenticare che alcune tendenze in questa direzione furono stolidamente represse dalle Chiese istituzionali; rispetto inoltre alla possibilità di affidare la tutela delle strutture di una società davvero libera a una particolare religione positiva, intesa come strumento di difesa contro altre forme di aggressione religiosa, non ho affatto fiducia che sia una strategia utile. Più precisamente, la ritengo altamente insidiosa, perché induce, per così dire, ad abbassare la guardia. Ricordiamoci che fanatici e intolleranti delle più varie confessioni, pur non cessando spesso di perseguitarsi reciprocamente, sono poi capaci di spregiudicate alleanze contro la libertà di ricerca e la stessa autonomia morale degli individui. Da quanto si è appena detto, consegue non la scelta di una qualche religione di Stato (né tanto meno di un qualche ateismo di Stato) così come non si può sostenere che l’impresa scientifica «imponga» una scelta di questo genere! Infine, si può essere perfettamente consapevoli delle proprie responsabilità etiche e politiche anche e soprattutto non etichettandosi come appartenente a una qualsiasi Chiesa, come già insegnava John Milton nella sua Areopagitica del 1644.

4. Se guardo alle espressioni letterarie del secolo appena trascorso, non mi pare che la grande letteratura abbia necessariamente avuto bisogno della religione. Visto che l’Ottocento si è concluso all’insegna della nietzschiana «morte di Dio», che tanto ha influito sulla letteratura del Novecento, in che senso sono «religiose» opere come L’uomo senza qualità di Musil o l’Ulisse di Joyce, per non dire della Montagna magica di Mann? Certo, in opere del genere possono comparire i personaggi più diversi, ma difficilmente direi che il punto di vista di uno di essi diviene quello dell’autore, il quale semmai «si diverte» con la dottrina della Trinità o quella dell’Incarnazione proprio come fa, poniamo, riecheggiando la teoria darwiniana dell’origine delle specie per selezione naturale! Non si confonda poi la funzione della religione con quella del mito, il quale — nelle più diverse antropologie — tende già a differenziarsi non poco e a conquistare una sua autonomia concettuale e figurativa, sì da poter essere utilizzato liberamente nella stessa riflessione filosofica (Platone rappresenta, in questa prospettiva, l’esempio per antonomasia). Del resto, miti pagani diventano spesso espedienti narrativi in grandi autori cristiani (Dante valga per tutti). Il fatto è che la concezione di un’umanità multiforme e modulata da differenti credenze è stata una conquista raggiunta attraverso scontri, conflitti, ma anche complicate mediazioni. Sotto questo profilo, consiglierei a tutti i nostalgici della letteratura impregnata di religione di rileggersi con attenzione Hume e Voltaire.

5. Non ho nessuna intenzione di contestare la possibilità di una «coscienza religiosa» che non si cristallizzi in particolari «credenze». Alcuni filosofi del Novecento hanno fornito interessanti vie d’accesso per un atteggiamento del genere, spesso con esiti estremamente interessanti. Il caso di Heidegger è il più noto, ma non l’unico – io preferisco Lévinas. Faccio notare che nella tradizione ebraica più vivace sono presenti germi di critica razionale forse più forti che nel cristianesimo o nell’islam. Quanto alla credenza nel soprannaturale, riconosco che attribuire a Dio o agli dei la causa di fenomeni che ci appaiono inspiegabili è antica quanto il mondo e nasce anch’essa da un bisogno di spiegazione di ciò che maggiormente ci colpisce. Non è però recitando un qualche «credo» che si affrontano con successo le grandi sfide scientifiche del nostro tempo, in fisica o in biologia. Bisogna dunque essere chiari su un punto preciso: qualunque siano le proprie convinzioni personali, chi fa parte della comunità scientifica internazionale non deve mai e poi mai essere disposto a rinunciare in nome di una qualsiasi credenza religiosa al cannocchiale di Galileo o agli acceleratori di particelle. Ritengo, infine, che questa sia oggi una condizione irrinunciabile per un mondo come quello della scienza e della tecnologia che è riuscito a realizzare, seppur con non poche «contorsioni» una profonda unità spirituale, ben superiore a quella tentata senza successo da troppi «folli di Dio».

Tratto da Micromega