I superpoteri delle elefantesse e il disegno intelligente

Misto masakru temer 90 savanovych slonu v Cadu brezen 2013

Come la distorsione mediatica dell’informazione scientifica rivela e consolida un modo di pensare antiscientifico

Ai non anziani ricordo che “Babbo Natale” in Italia è arrivato come migrante dal Nord non prima degli anni ’50 di questo secolo. Prima il suo ruolo di distributore ai bambini di regali comprati dai genitori era occupato da “Gesù Bambino”, personaggio immaginario che solo nel nome coincide con la persona storica di Gesù Cristo e con il suo ruolo nella religione cattolica. Ancora oggi si discute tra psicologi ed educatori se sia bene per i bambini credere a Babbo Natale, ma assicuro che prima si discuteva allo stesso modo su Gesù Bambino. Si può discutere sul valore sociale ed educativo di Babbo Natale o di Gesù Bambino ma non si può negare la loro consistenza come oggetti culturali.

Il discorso è ancora più valido per i miti che interessano intere società adulte e hanno inciso profondamente sulla loro storia. Da quando la capacità di rappresentazione è diventata componente specifica della natura umana, rendendo possibile l’evoluzione culturale, miti e favole ne fanno parte e, al netto di una valutazione sociologica, pedagogica, etica, politica dei singoli miti e favole nella loro specificità, credo abbiano anche un ruolo positivo.

La battaglia culturale che noi evoluzionisti sosteniamo contro il “creazionismo” non è contro la rappresentazione dell’origine della Terra o della vita sulla Terra come un atto di “creazione” (tra virgolette perché un conto è usare questa parola, un conto è verificare a quale rappresentazione mentale e culturale si riferisca), ma contro la pretesa di farla passare per scientifica, quando non risponde ai criteri della scientificità, i quali, pur essendo oggetto di discussione  epistemologica, non sono affatto affidati alla soggettività, e tanto meno alla “pancia” (le virgolette per ricordare che si tratta di una metafora e per fare riferimento all’uso ormai decisivo per la nostra vita individuale e sociale di questa metafora volgare e soprattutto scientificamente infondata).

Penso che più che sul “creazionismo” faremmo bene a concentrare le nostre energie sul “disegno intelligente” che è molto insidioso soprattutto perché non sta solo nel campo avverso, ma anche in quello che dovrebbe essere “amico”, sta nel nostro spazio culturale. E ci sta per ragioni profonde, epistemologiche, nel senso di legate alle modalità stesse del pensiero umano. Questa modalità di pensiero, il “finalismo” è portato in luce, è praticato e produce i sui effetti attraverso il linguaggio.

Come evoluzionista sento un grande debito di riconoscenza nei confronti di Charles Darwin che ha speso la propria vita nel tentativo di eliminare il finalismo dalla rappresentazione della natura, mettendo in moto una rivoluzione “naturalista”, e quindi pienamente scientifica, che evidentemente è solo all’inizio o forse è già abortita. Perciò, a costo di sentirmi come il soldato giapponese che combatte nella giungla anni dopo che la guerra è finita, faccio ancora una volta un esempio che traggo dal un articolo pubblicato in questi giorni dal maggiore quotidiano italiano.

Già il titolo dell’articolo “Gli elefanti nascono senza zanne, per sopravvivere ai bracconieri” rivela, in quel “per”, la antica e mai morta idea che la natura funzioni come la mente umana sulla base di una finalizzazione intenzionale (il “disegno intelligente”). Quel “per” in italiano significa inequivocabilmente che gli elefanti, anzi le elefantesse come riferisce l’ (Sono le femmine a dare segni di ‘adattamento’ ), allo scopo di sfuggire ai bracconieri, consapevolmente e intenzionalmente promuovono un cambiamento nel loro corpo già alla nascita. Chiederemo a qualche esperto di elefanti se possiedono questa qualità, che non si riscontra in nessun’altra specie, di poter modificare il proprio corpo. Se così fosse, almeno avremmo dato un duro colpo all’idea della “superiorità umana” (altro caposaldo culturale messo in discussione dalla rivoluzione darwiniana), dal momento che noi umani per riuscirci dobbiamo ricorrere alla scienza e alla tecnologia che agiscono dall’esterno sul corpo.

Sappiamo bene come sia difficile, in un paese in cui la competenza scientifica diminuisce anziché aumentare, conciliare l’esigenza di informare su argomenti scientifici anche i non esperti con la correttezza scientifica, ovvero con la scienza stessa. Per questo noi evoluzionisti avevamo apprezzato la svolta quando su quel giornale, su argomenti relativi all’evoluzione, ha cominciato a scrivere qualcuno (più precisamente qualcuna) che, pur dentro una narrazione coinvolgente, presenta informazioni corrette, dà voce al pensiero critico degli scienziati, preferisce dare spazio a ipotesi di ricerca e relative incertezze, lasciando agli emuli del mago Otelma le certezze su un meraviglioso prossimo futuro.

Ma nell’articolo citato si legge: “A forza di rubargliele non ricrescono più. È ancora presto per parlare di mutazione genetica, ma quello che sta accadendo in alcuni branchi di elefanti africani è un campanello d’allarme serio: molti cuccioli stanno nascendo senza zanne o con zanne più piccole della norma” [sottolineatura mia]. Questo decisamente ci riporta all’epoca precedente in cui altri autori parlavano delle mutazioni “che non darebbero il medesimo vantaggio. Dunque non avvengono” (Pikaia ne ha parlato qui) o addirittura di “automutazioni” (“La pianta nel deserto che si annaffia da sola” in La Repubblica del 19/2/2009).

Tenderei ad escludere che ci si riferisca all’“assimilazione genetica” di Waddington o all’epigenetica di oggi, non solo perché non se ne scrive, come sarebbe necessario per dare una spiegazione di un fenomeno di questo tipo, ma perché c’è scritto questo: “diversi esemplari di femmine, anche dopo l’amputazione delle zanne da parte dei bracconieri, sono riuscite a sopravvivere. Senza zanne non erano più bersaglio dei cacciatori e questo ha dato luogo negli anni a una modifica: una prole con sempre meno zanne.”; e ancora: “Una caratteristica geneticamente ereditaria: più del 30% delle elefantesse nate dopo la guerra ha infatti ereditato questa peculiarità.”  Quello che viene riproposto è piuttosto il lamarckismo, ma quello primitivo di Lamarck, qualcosa che bambini di 9-10 anni, quando pensano interagendo tra di loro, sono in grado di affrontare in modo critico:

Michele: [commentando l’esperimento di Weismann che per 22 generazioni fece incrociare topi cui aveva tagliato la coda senza che alcuno nascesse con la coda corta]: “Se c’era il topo senza la coda lunga anche se non gliel’hanno tagliata… il fatto che magari in un topo c’è stata questa malformazione… e poi… magari si è accoppiato con uno normale ed è andata avanti questa cosa con la coda corta visto che è un carattere ereditario.”

Alberto: “Per me… il fatto della coda lunga è perché nasce il topolino e c’ha la coda lunga… perché il padre di un mio amico non c’ha un piede, però suo figlio è nato e aveva tutti e due i piedi… quindi non vuol dire che se magari… siccome il padre del topo non c’ha la coda il figlio non deve averla… magari ce l’avrà.“

Michele introduce la parola “malformazione”, in cui il “mal“ generalizza una situazione relativa, ma dà un’ottima spiegazione, perché la lega all’ereditarietà e antepone la variazione all’adattamento: un topo può avere la coda corta non perché gliel’hanno tagliata, ma perché l’ha ereditata come mutazione e può trasmettere questo carattere ai propri figli; e Alberto spiega qualcosa di molto difficile facendo riferimento a un esempio tratto dal suo mondo esperienziale, ed è un esempio assolutamente pertinente; oltretutto esplicita la relazione tra i due casi e sposta il problema sull’ereditabilità o meno di caratteri di quel tipo.

Questi bambini sanno di cosa parlano o almeno, ci pensano mentre ne parlano.


Immagine: By Save-Elephants (Own work) [CC BY-SA 4.0 (http://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0)], via Wikimedia Commons