Il neolitico: il nostro “traghetto” nell’Antropocene

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Il Neolitico è solo banalmente l’ultimo periodo dell’Età della Pietra o c’è di più? Un numero speciale di PNAS ci insegna che forse dovremmo cominciare a guardare a questa epoca con uno sguardo più critico, nell’ottica di far fronte alle nuove sfide del presente.

Il neolitico è convenzionalmente parlando quel periodo compreso tra 8000 e 3500 a.C., che, come dice il nome, dovrebbe essere l’epoca della “nuova pietra”, a cui segue poi l’Età del Rame. In realtà, differentemente da ciò che i programmi scolastici spesso riportano, non è semplicemente una questione di nuove tecnologie, come la pietra levigata e la ceramica, e l’invenzione di agricoltura e allevamento, ma un cambiamento molto più profondo, iniziato qualche millennio prima. Lo scorso gennaio la rivista PNAS ha dedicato a questi argomenti un numero speciale (feature) intitolato “The past 12,000 years of behavior, adaptation, population, and evolution shaped who we are today”, affidando all’antropologo americano Clark Spencer Larsen l’articolo introduttivo.

Il cambiamento climatico e la spinta evolutiva

Con la transizione climatica di circa 12.000 anni fa, infatti, in diverse parti del pianeta l’economia basata su raccolta e caccia non riusciva più a soddisfare le esigenze di Homo sapiens. Il clima cominciò a stabilizzarsi, infatti, verso un generale, seppur non immediatamente uniforme, riscaldamento. La megafauna, ovvero gli animali di grande taglia (si pensi per esempio ai mammut), tipicamente prede della nostra specie, andarono incontro a un’estinzione graduale, ma inesorabile. Fu così che nacquero nuove forme di sussistenza, caratterizzate da una manipolazione degli ecosistemi sempre più spinta. Un nuovo sistema, un nuovo equilibrio, un nuovo Homo sapiens Quella che la maggior parte degli studiosi sono concordi nel definire Rivoluzione Neolitica, avvenuta più o meno contemporaneamente nella “mezzaluna fertile”, in Cina e in Mesoamerica (M. A. Zeder, “Core questions in domestication research), è un complesso fenomeno evolutivo di fatto non reversibile, che coincise, secondo molti, con gli effetti eco-climatici del periodo interglaciale. Tale cambiamento coinvolse tanto la nostra struttura sociale e culturale, quanto la nostra genetica, dove le nuove abitudini andarono di fatto a selezionare gli individui secondo determinate caratteristiche; basti pensare, ad esempio, alla capacità di assimilare grandi quantità di amidi, o la persistenza della lattasi nell’età adulta (dimostrata anche da C. Warinner et al., “Direct evidence of milk consumption from ancient human dental calculus.) Per quanto riguarda l’agricoltura e l’allevamento quello che venne introdotto fu proprio una nuova concezione dello sfruttamento delle risorse. La domesticazione, processo chiave di quel periodo, portò alla creazione artificiale di specie vegetali e animali nuove, a partire da specie selvatiche, selezionando i caratteri morfologici per cui si aveva un interesse specifico. Ciò comportò anche una trasformazione radicale delle abitudini e delle strategie di sussistenza della maggior parte della popolazione umana sul pianeta e si tradusse nella creazione di nuove nicchie ecologiche, con un impatto sugli ecosistemi più che rilevante. Occorre comprendere che questi fenomeni ci danno un quadro di Homo sapiens e della sua evoluzione molto diverso da quello a cui siamo abituati a pensare: l’uomo, è una specie che, come le altre, è stata influenzata dal contesto ecologico e climatico in cui viveva, ma a sua volta ha avuto (ed ha) un impatto determinante sull’ambiente, in un continuo effetto feedback reciproco tra geni, cultura ed ecologia. I processi di domesticazione si inseriscono perfettamente in questo quadro, essendo tra i primi esempi di modifica e controllo fattuale sulle altre specie da parte della nostra. Inoltre, ci forniscono un’idea sul cambiamento nella dieta e nelle abitudini delle popolazioni umane, sulla base di spinte adattative, ma anche culturali, nel passaggio dal Pleistocene all’Olocene.

Il cambiamento nelle società umane

La transizione agricola, infatti, come spiega anche G. Robbins Schug (“Climate change, human health, and resilience in the Holocene”), non fu solo una questione tecnico economica o demografica, ma anche culturale: favoriva lo scambio tra popolazioni, migliorava l’approvvigionamento del cibo e allo stesso tempo favoriva il diffondersi di patogeni, zoonosi comprese (C. M. Lewis Jr. et al., Ancient pathogens provide a window onto health and well-being.). Il passaggio all’agricoltura è stato rapidamente seguito da altri importanti cambiamenti nell’economia, nell’organizzazione sociale, nel linguaggio e nell’ideologia, anche in quelle popolazioni rimaste cacciatori-raccoglitori: in tempi diversi e in contesti diversi la bioarcheologia (che ha assunto un ruolo di primo piano nell’ investigare e nell’interpretare questi mutamenti) ha documentato come il senso intercomunitario sia aumentato con il passaggio al Neolitico, alimentando purtroppo anche comportamenti violenti — alle volte vere e proprie guerre — tra gruppi diversi, cosa non avulsa dal periodo precedente, ma sicuramente andata ad intensificarsi.

Lezioni dal passato per interpretare il nostro futuro

Studiare questi processi è importante, non soltanto per capire come vivevamo nel passato, ma anche per provare a rispondere in maniera adeguata alle sfide del presente, in un mondo ogni giorno più densamente popolato, dove i conflitti per le risorse sono ancora più intensi, una parte della popolazione soffre la fame e l’altra di malattie dovute a surplus di cibo e sedentarietà e i cambiamenti climatici, da noi stessi innescati complicano ulteriormente una situazione già profondamente critica. Le analisi degli studiosi ci mostrano come per quanto riguarda salute, dieta, relazioni biologiche, modelli migratori, adattamenti alimentari, attività e stile di vita, l’impatto dello sviluppo dell’agricoltura è stato maggiore di qualsiasi altro sviluppo dietetico o transizione comportamentale legato alla ricerca di cibo e all’acquisizione di risorse in generale in tutta la storia umana precedente. Si può tranquillamente affermare che gli ultimi 10.000-12.000 anni hanno avuto profonde implicazioni su chi siamo oggi e su ogni aspetto della nostra vita. Come dice il professor Guido Chelazzi nel suo La coscienza di Hosa (Ombre corte, 2019): “nonostante le molte vicissitudini della storia successiva, estinzioni locali e colonizzazioni, separazioni e incontri, sostituzioni e integrazioni, ognuno di noi porta nella propria cultura, nel linguaggio e nei geni, tracce evidenti dei portatori migranti delle antiche economie agricole”.

Riferimenti:

Larsen, Clark Spencer. “The past 12,000 years of behavior, adaptation, population, and evolution shaped who we are today.” Proceedings of the National Academy of Sciences, vol. 120, no. 4, 24 Jan. 2023, p. e2209613120, doi:10.1073/pnas.2209613120.

Immagine: la copertina del numero speciale