In viaggio con Pikaia nelle foreste del Borneo
Alla scoperta delle foreste del Borneo e delle cause dell’evoluzione con il botanico Odoardo Beccari.
Nelle foreste del Borneo Durante la permanenza nelle foreste del Borneo Odoardo Beccari visse quasi da eremita. Nella lussureggiante foresta malese si serviva di capanne, che funzionavano anche come veri e propri laboratori per la preparazione e conservazione dei reperti vegetali e zoologici, che ogni giorno Beccari raccoglieva. Sebbene siano passati oltre cento anni dalla pubblicazione di Nelle foreste del Borneo, è ancora oggi emozionante leggere la descrizione delle foreste vergini che Beccari attraversava:
“la foresta di Borneo è così multiforme nelle varie ore del giorno, come a seconda della stagione e del tempo, che nessuna descrizione riuscirà mai a farne acquistare un’adeguata idea a chi non vi ha vissuto (…). Le sue bellezze sono inesauribili (…). Nella foresta l’uomo si sente veramente libero. Quanto più uno vi si aggira e tanto più se ne innamora; quanto più uno la studia e tanto più ne rimane a conoscere. Le sue ombre, sacre alla scienza, tanto appagano lo spirito del credente, quanto quello del filosofo”.
Se però si leggono con attenzione le descrizioni di Beccari, si notano già le prime fasi di quell’alterazione dell’ambiente che ha portato nell’ultimo secolo alla perdita del 70% delle foreste malesi. Il Borneo, al pari del bacino del Congo e di quello dell’Amazzonia, rappresenta uno tra i più imponenti patrimoni di biodiversità al mondo, oggi messo in serio pericolo dalla deforestazione attuata per dare spazio alle monocolture, tra cui in particolare di palma da olio. Beccari incontrò, inoltre, i Daiacchi di mare e di terra, gli indigeni che popolano le foreste del Borneo, e la loro vicinanza vi farà certamente venire qualche brivido, data la loro fama di cacciatori di teste (ma oggi questa pratica, che era più complessa della descrizione di Odoardo Beccari, che scriveva in epoca coloniale – è stata abbandonata).
“I Daiacchi di mare fanno le spedizioni, non tanto per acquistar gloria e fare bottino, quanto per procurarsi delle teste. Se questo intento possono raggiungere senza pericolo, trovando gente inerme (uomo o donna non conta) o assalendo un villaggio all’improvviso ed immerso nel sonno, se ne ingegnano e ciò non diminuisce per niente la bravura ai propri occhi o la stima presso i vicini. È stato giustamente scritto che i titoli aristocratici dei Daiacchi consistono principalmente nel numero delle tese ottenute dal padre o dall’avo. Non di rado i Daiacchi vanno a caccia di teste per semplice distrazione o per dissapori domestici, precisamente come da noi per digerire il cattivo umore si andrebbe a caccia della lepre. Ottenere una testa è per questi selvaggi il colmo della gloria (…). Per i Daiacchi è alle volte un dovere procurarsi una testa, oltre che per mostrare la propria prodezza, per piacere alle amanti, come per togliere il brumo in seguito alla morte di un parente. (…) I Daiacchi di mare non hanno, a differenza dei Daiacchi di terra, una casa speciale per conservare le teste, ma queste vengono tenute sospese sopra il focolare, nella parte meridiana della veranda della casa comune”.
Tra una esplorazione e l’altra, Beccari si interrogò, inoltre, su come si era evoluto quell’incredibile ecosistema in cui era immerso. Come si è evoluta, ad esempio, la strategia di caccia del pesce arciere Toxotes jaculator che lancia un getto di acqua verso gli insetti così da farli cadere in acqua e catturarli?
“Il remoto antenato di questo pesce – suggerisce Beccari – avrà fatto uso dell’unico mezzo di cui poteva disporre, per estrinsecare un tentativo di lanciare qualche cosa contro l’ambita preda. Sono stati per ciò gli atti di volontà che hanno spinto il progenitore del Toxotes jaculator a cercar di produrre dei movimenti dell’apparato buccale per raggiungere uno scopo, per il quale da principio il suo organismo non era conformato”. In questo caso lo stimolo principale sarebbe “l’atto di volontà dell’animale”. “Il modo col quale questo pesce s’impadronisce degli insetti– scrive Beccari – ha molto analogia con quello adoprato dai camaleonti. In ambedue i casi si hanno adattamenti speciali di alcuni organi che devono essere andati modificandosi in seguito a specifici impulsi di volontà”.
In modo analogo “un animale brucando una pianta ne avrà accorciati i rami i quali avranno rivegetato corti o a punta” così ad evitare di essere danneggiati. “Io ho sempre accarezzata l’idea – suggerisce Beccari – che vi debba essere stata una epoca creativa, nella quale ad ogni essere era concesso di modificarsi secondo i propri bisogni, anzi, anche secondo i suoi desideri, la sua vanità, i suoi capricci. In quell’epoca di plasmazione, (…) l’organismo doveva essere più disposto di adesso a cedere agli stimoli degli agenti esteriori e le membra dovevano essere più docili a modificarsi secondo l’esercizio a cui venivano assoggettate. Allora anche il pelame, le penne o le squame avranno potuto assumere, con facilità, colori o forme gradite o vantaggiose agli esseri che ricoprivano”.
Dalla plasmazione all’eredità conservatrice: la teoria evolutiva di Odoardo Beccari prende forma
Questi primi accenni ai meccanismi dell’evoluzione sono stati successivamente organizzati da Odoardo Beccari in una propria teoria sulle cause dell’evoluzione, che il botanico fiorentino sviluppò dopo due anni di permanenza nelle foreste del Borneo: “che le forme organiche viventi sulla terra abbiano origine dall’azione esercitata su di esse dal mondo esteriore – scrive Beccari – è una antica teoria professata un tempo da pochi, ma eletti, naturalisti, i quali non riponevano troppa fiducia nella creazione degli esseri per effetto di una volontà soprannaturale. Colla comparsa però dell’opera imperitura di Darwin sull’origine delle specie, l’accennata teoria passò in seconda linea, anzi fu quasi dimenticata, dietro il fascino prodotto da quella della selezione naturale e sessuale. Presentemente però vi è una tendenza a ritornare all’antico per gravi obiezioni che, da ogni parte, sono sorte contro la selezione come unico mezzo atto a spiegare la ragione di essere dei caratteri specifici degli organismi”.
Nell’idea di Beccari l’evoluzione dei viventi andrebbe suddivisa in due fasi, una antica (definita di plasmazione dei viventi) in cui i viventi si sarebbero differenziati celermente in risposta agli stimoli ambientali, seguita da quella attuale di sostanziale stasi delle specie. Scrive, infatti, Beccari: “secondo la teoria della plasmazione degli esseri in causa dell’azione esercitata su di essi dall’ambiente nel quale hanno vissuto, ogni specie sarebbe un prodotto delle forze fisiche e degli stimoli ai quali i suoi remoti antenati sarebbero stati soggetti”. Le specie attuali sarebbero quindi “il risultato di una plasmazione esercitata dall’ambiente sopra dei primitivi esseri e sotto un certo punto di vista si potrebbe dire che le specie rappresenterebbero l’impronta, di cui gli stimoli, in genere, sarebbero stati la stampa o la matrice. (…) Gli stimoli hanno oggi pochissima potenza di modificare gli individui e (…) anzi si può andare più oltre e dire che gli esseri variano pochissimo al giorno d’oggi e periscono piuttosto che modificarsi ed adattarsi a nuove esigenze di vita”.
In cammino verso la fissità
L’idea che le specie attuali abbiamo potenzialità evolutive inferiori a quelle antiche tornerà nelle teorie di altri naturalisti, tra cui ad esempio Daniele Rosa. Secondo quanto suggerito da Rosa nel breve saggio dal titolo La riduzione progressiva della variabilità e i suoi rapporti con l’estinzione e coll’origine delle specie (pubblicato nel 1899), nel corso dell’evoluzione le specie perdono la capacità di generare variazioni, per cui “tutte le specie camminano verso la fissità”.
A differenza quindi di Darwin e Haeckel che sostenevano una evoluzione illimitata dei viventi, per Odoardo Beccari e Daniele Rosa gli organismi che noi oggi vediamo hanno raggiunto una sorta di fissità e stabilità, per cui le loro forme oscillano attorno a una costituzione ormai stabile. Le variazioni osservate non sarebbero altro che deviazioni accidentali dal tipo comune, prive di potenzialità adattativo.
Secondo Beccari, l’errore commesso da molti naturalisti è dovuto al pensare che vi siano forze e regole comuni all’evoluzione dei viventi per tutta la loro esistenza, mentre prendere atto di questa distinzione rende facile spiegare perché non compaiono oggi specie nuove. Nella fase attuale le specie si trovano, infatti, a doversi confrontare con una eredità conservatrice, secondo cui gli stimoli ambientali non riescono più a indurre quelle variazioni che avevano invece caratterizzato la fase di plasmazione.
Volendo rileggere con termini attuali la proposta di Beccari potremmo affermare che nella proposta del botanico fiorentino nel corso dell’evoluzione gli organismi viventi perdono di evolvibilità arrivando ad avere forme fisse.
Selezione artificiale e naturale non sono assimilabili
Un ulteriore elemento che differenzia la teoria di Odoardo Beccari rispetto all’idea darwiniana è legato alla rilevanza della selezione artificiale per capire quella naturale. Secondo Darwin, per capire l’evoluzione dei viventi dovevamo guardare con attenzione a ciò che noi stessi avevamo causato alle varietà ottenute con la domesticazione. Al contrario, secondo Beccari, “i mezzi di cui si serve l’uomo per ottenere delle variazioni consistono in artifizi” che non replicano il modo in cui l’evoluzione procede e che possono al massimo far ricomparire qualche forma ancestrale, oggi priva di valore adattativo, data l’impossibilità dei viventi moderni di originare nuove forme.
“Sebbene sia indiscutibile che con la coltura e l’allevamento si ottengono forme nuove – scrive Beccari –, le circostanze che adesso accompagnano la produzione delle varietà domestiche di animali e piante sono di tutt’altra natura di quelle che dovrebbero aver promosso e variazioni dovute all’adattamento”.
All’origine dell’uomo Odoardo Beccari rimase molto impressionato dagli orangutan e la loro presenza nel Borneo lo portò a interrogarsi sul luogo di origine dell’uomo. Dopo una lunga serie di considerazioni, Beccari concluse che nessuna circostanza porta a ritenere come probabile che il Borneo sia stato un centro di formazione di specie del genere Homo. Beccari suggerì quindi che il luogo di origine più probabile per il genere Homo fosse l’Africa non solo perché è il “luogo di origine di numerosi altri antropoidi”, ma anche perché “la teoria dell’adattabilità all’ambiente richiede una correlazione tra i caratteri assunti dagli organismi e le cause stimolanti” e l’ambiente del Borneo è più coerente con l’evoluzione di specie arboricole, che non terrestri: “è per questo io riterrei che né il Borneo né tutta la regione forestale indo-malese possano essere stati luoghi convenienti ad un antropoide per umanizzarsi”. Secondo il botanico fiorentino era, invece, ipotizzabile nel Borneo la presenza di “qualche antropomorfo più simile all’uomo dell’attuale orang-utan”:
“questa mia idea fu a me accennata dallo stesso Lyell quando mi trovavo nel 1865 a Londra, facendo i preparativi del mio viaggio, (…) il quale mi spingeva ad esplorare le caverne del Borneo, perché riteneva che ivi si potessero trovare resti di un grande valore per la storia dell’uomo”.Sebbene Beccari non abbia avuto fortuna in questa ricerca, oggi sappiamo che almeno una specie del genere Homo visse effettivamente sull’isola di Flores, che è non lontana dal Borneo. Tuttavia sappiamo che anche questa specie ha le sue radici in Africa, e la sua presenza a Flores fino a 50000 anni fa è dovuta a una migrazione. Perché rileggere Beccari oggi L’idea di Odoardo Beccari che nella fase attuale non compaiano nuove specie non è ovviamente corretta, però dimostra quanto profondo fosse il dibattito sulle cause dell’evoluzione alla fine Ottocento. Rileggere oggi le pagine di Beccari non significa quindi ricostruire un incidente nella corsa verso la biologia evoluzionistica moderna, quanto ripercorrere quella fase di lunga e impegnativa gestazione, da cui è nata l’idea moderna di evoluzione dei viventi. Ricostruire il lavoro di Beccari (o di altri, tra cui Rosa) è interessante perché ci mostra come nasce ed evolve una teoria scientifica. Il fatto che gli scienziati non siano sempre d’accordo sul modo in cui i dati disponibili devono essere interpretati (aspetto oggetto di ampia discussione in questa fase di pandemia globale) è parte del processo che genera le nostre conoscenze. Il segreto del successo della scienza risiede nella diversità delle posizioni che si confrontano, nella differenza dei contributi: abbiamo più probabilità di successo se affrontiamo un problema da più punti di vista, perché questo approccio ci permette di andare oltre l’esperienza e le idee del singolo scienziato. Il viaggio esplorativo di Beccari nelle foreste del Borneo non è, quindi, oggi interessante solo per il fascino delle sue narrazioni, ma anche perché ci permette di rivivere il lungo viaggio verso la biologia evolutiva moderna. Il verbo “esplorare” deriva dal termine latino explorare e significa investigare, esaminare, ma ha anche una accezione originaria meno ovvia, usata in particolare nella caccia, di lanciare un grido; in questo senso, Beccari partì per scoprire e per gridare al mondo le proprie scoperte, di cui possiamo sentire ancora oggi gli echi nella lunga storia della teoria dell’evoluzione.
Biologo e genetista all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove studia le basi molecolari dell’evoluzione biologica con particolare riferimento alla citogenetica e alla simbiosi. Insegna genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie. Ha pubblicato più di centosessanta articoli su riviste nazionali internazionali e tenuto numerose conferenze nelle scuole. Nel 2020 ha pubblicato per Zanichelli il libro Nove miliardi a tavola- Droni, big data e genomica per l’agricoltura 4.0. Coordina il progetto More Books dedicato alla pubblicazione di articoli e libri relativi alla teoria dell’evoluzione tra fine Ottocento e inizio Novecento in Italia.