La biodiversità al centro | ep. 7 | La biodiversità ci cura

Col National Biodiversity Future Center, la biodiversità vegetale italiana entra al centro della ricerca biomedica. In questo episodio della serie “La biodiversità al centro”, il dottor Stefano Negri ci racconta come le piante possano offrire nuove molecole per la salute, tra bio-prospezione, etica della ricerca e saperi tradizionali
Molti dei farmaci che usiamo oggi hanno un’origine naturale. Molecole come la morfina (dal papavero da oppio), la digossina (dalla digitale) o la colchicina (dal colchico) sono state isolate da piante che, nel corso della loro evoluzione, hanno sviluppato sostanze attive per difendersi da stress ambientali, patogeni o predatori. Studiare la biodiversità vegetale non è quindi solo una sfida scientifica, ma anche una possibile via per il benessere umano.
In questo episodio di La biodiversità al centro entriamo nel lavoro dello spoke 6 del National Biodiversity Future Center, dedicato appunto a indagare come la biodiversità possa contribuire alla salute.
A guidarci è Stefano Negri, ricercatore di botanica generale all’Università di Verona.
Stefano si è formato in biotecnologie agroalimentari, ma il suo percorso si è orientato progressivamente verso lo studio delle molecole naturali prodotte dalle piante, in particolare quelle che potrebbero avere effetti benefici per la nostra salute.
“Quando ero piccolo, se mi chiedevano cosa volessi fare da grande, rispondevo: l’archeologo, il mago o lo scienziato.”
Un desiderio di esplorazione che oggi si realizza nel progetto NBFC, che gli ha dato modo di affiancare al lavoro in laboratorio un’attività diretta sul campo.
“Il Centro nazionale biodiversità mi ha consentito di realizzare un sogno: uscire anche dal laboratorio e vedere la biodiversità, toccarla con mano, vedere le piante nel loro habitat.”
Cercare molecole nella biodiversità: la bioprospezione
Il gruppo di Stefano Negri utilizza un approccio chiamato bioprospezione:
“Per bioprospezione, dall’inglese ‘bio-prospecting’, si intende l’esplorazione della biodiversità con l’obiettivo di cercare nuovi prodotti che possano generare un valore sociale ed economico, per soluzioni applicative ai problemi dell’uomo.”
Le piante in particolare hanno un enorme potenziale. Non è casuale, infatti, che piante e medicina siano da sempre storicamente intrecciate, anche prima dell’avvento della scienza moderna. Il motivo è che gli organismi vegetali, durante la loro lunga evoluzione, hanno dovuto adattarsi a vivere negli ambienti più diversi, e a difendersi senza avere la possibilità di scappare. Hanno così sviluppato un vastissimo arsenale di molecole (diverse centinaia di migliaia) con le funzioni più varie. Gli esseri umani hanno imparato presto a sfruttare i vegetali per curarsi, ma adesso abbiamo gli strumenti per individuare le specifiche molecole responsabili dell’effetto terapeutico.
Il caso di Youyou Tu: tra medicina tradizionale e Nobel
La storia della farmacologia è piena di casi famosi dove la bioprospezione ha alla fine portato allo sviluppo di farmaci. Stefano ci racconta la storia dell’artemisinina, un principio attivo derivato dall’Artemisia annua.
Nel pieno della guerra del Vietnam, la malaria rappresentava una seria minaccia per i soldati. Il governo cinese avviò un progetto di ricerca in segreto, che affidò alla giovane farmacologa Youyou Tu, con l’obiettivo di individuare nuove cure partendo da fonti naturali.

Tu analizzò oltre 2000 piante e, reinterpretando i trattati di medicina tradizionali, alla fine riuscì a estrarre l’artemisinina da Artemisia annua, una molecola oggi alla base delle principali terapie antimalariche. Nel 2015 alla dottoressa Tu è stato conferito il Nobel per la medicina.
Un “parlamento vegetale” della flora italiana
Nel progetto di Stefano, la bioprospezione riguarda la nostra flora. L’Italia conta circa 11000 specie di piante terrestri (vascolari e non vascolari): come decidere quali analizzare? I ricercatori hanno preparato una collezione di circa 700 piante italiane che rappresenta un modello semplificato della diversità tassonomica della nostra flora. Le specie nella collezione coprono quasi tutte le famiglie botaniche presenti in Italia, consentendo di esplorare uno spazio molecolare estremamente diversificato e aumentando così le chances di scoprire nuove molecole attive.
“Abbiamo disegnato una sorta di parlamento vegetale. Per esempio la famiglia delle Asteraceae, che in Italia ha il maggior numero di specie, è quella con più rappresentanti anche nella nostra collezione.”

La selezione include specie endemiche, specie rare, ma anche piante invasive o coltivate. Ognuna di queste è raccolta in modo sostenibile, poi si torna in laboratorio:
“Al momento abbiamo completato la collezione e abbiamo già iniziato a vagliare le prime 200 specie. Noi raccogliamo i campioni, produciamo degli estratti dal materiale raccolto, li caratterizziamo dal punto di vista biochimico, cioè capiamo quali molecole vengono prodotte dalla pianta”.
Gli estratti che presentano le composizioni molecolari più originali e diversificate vengono distribuiti a una rete di collaboratori, ognuno specializzato in un diverso ambito biomedico e su diverse patologie. Il loro compito è testare in vitro gli estratti, per esempio su linee cellulari da tessuto tumorale, per valutare le attività biologiche delle molecole vegetali. Questi screening iniziali consentono di selezionare gli estratti più promettenti da investigare con modelli sperimentali più complessi, come gli studi in vivo, al fine di caratterizzarne meglio l’attività e identificare le componenti attive.
Stefano cita, ad esempio, un estratto della pianta di kiwi che ha mostrato attività antidepressiva in modelli animali, mentre altre specie, come emerso da risultati preliminari in vitro, sembrano promettenti contro cellule tumorali cerebrali. Queste attività degli estratti vegetali, precisa Stefano, non sono sempre legate a una singola molecola, ma spesso derivano da un’azione sinergica tra più componenti – che complessivamente prendono il nome di “fitocomplesso”- costituendo un’ulteriore sfida per i ricercatori.
Il lavoro è ancora in corso, e la strada che porta da una molecola promettente a un farmaco efficace e sicuro è lunga e piena di incognite, ma l’obiettivo a lungo termine è chiaro: caratterizzare chimicamente i composti attivi, comprenderne il meccanismo d’azione e contribuire alla creazione di nuove terapie basate su risorse naturali.
Una banca dati per la ricerca futura
“Uno degli obiettivi del nostro centro è quello anche di generare un database di composti, delle molecole che noi ritroviamo nei campioni che abbiamo raccolto, e di renderlo accessibile ai ricercatori.”
Per ora, ci spiega Stefano, le analisi si concentrano su patologie non trasmissibili. Questo significa che le malattie infettive non sono incluse negli screening in corso, ma grazie al database i dati raccolti potranno essere utilizzati anche in quel campo in futuro.
“Un domani, le informazioni che noi abbiamo collezionato possono diventare accessibili per chi vuole seguire le ricerche in altri ambiti biomedici.”
Tutto questo non potrebbe esistere senza la rete interdisciplinare costruita grazie al NBFC.
“Il Centro Nazionale ci ha dato questa grandissima possibilità. Per la prima volta, forse, nella storia della ricerca italiana legata allo studio della biodiversità, di creare questa rete estremamente interdisciplinare tra scienziati di ambiti molto diversi.”
Le prospettive future non si limitano alla medicina. Diversi gruppi del network sono infatti già coinvolti per identificare molecole vegetali che potrebbero essere utili anche in ambito agricolo e ambientale: come pesticidi naturali, erbicidi, bio-stimolanti o strumenti per un’agricoltura più sostenibile.
La biopirateria: l’altra faccia della medaglia
Alla fine dell’intervista chiediamo a Stefano di parlarci della biopirateria: che cos’è e come si può evitare?
“Trovo che ci sia sempre da dibattere sull’etica che sta dietro l’approccio scientifico e nel caso della bioprospezione si potrebbe considerare la biopirateria come l’altra faccia della medaglia“.
Stefano ci spiega che la biopirateria è spesso definita come l’appropriazione non autorizzata di risorse biologiche o di saperi tradizionali da parte di enti o aziende, che poi ne rivendicano la proprietà intellettuale.
Un esempio è quello del neem (Azadirachta indica): negli anni Novanta, un’azienda americana brevettò un estratto del neem ad azione insetticida, nonostante in India fosse già impiegato da secoli per le sue proprietà mediche e antiparassitarie. Dopo un’intensa mobilitazione internazionale, il brevetto venne annullato ma il caso rimane un simbolo delle tensioni tra sapere tradizionale e proprietà industriale. Oggi lo sfruttamento delle risorse genetiche è regolato dal protocollo Nagoya, un trattato internazionale che regolamenta sia l’accesso alla risorse che l’equa condivisione dei benefici che ne derivano.
Ma si possono sollevare altri aspetti etici anche quando la vittima è la biodiversità stessa. Per esempio negli anni ’70 si è scoperto che il taxolo, contenuto nella corteccia del tasso del pacifico (Taxus brevifolia), era un potente antitumorale. Inizialmente, il taxolo era estratto direttamente dalla corteccia, ma ci si rese presto conto che non era sostenibile. La pianta non era abbondante, cresceva lenta, e serviva molta corteccia per l’estrazione. La specie si sarebbe così estinta molto velocemente, ma per fortuna in quel caso emersero delle alternative.
“Oggi si stanno sviluppando strategie che affiancano la bioprospezione per superare alcune difficoltà, grazie all’aiuto delle biotecnologie. Una possibilità è la coltura in vitro: si possono far crescere cellule della pianta e stimolarle a produrre le molecole bioattive di interesse. Un’altra strategia è la semisintesi, che parte da precursori più facili da ottenere, ad esempio nelle foglie, e consente poi di completare la sintesi della molecola attiva. Ma sono approcci complessi, che richiedono tempo, risorse e competenze.”
È anche per questo che progetti come il National Biodiversity Future Center sono fondamentali: mettono a sistema competenze diverse, offrono una struttura di rete e sostengono la ricerca con visione e finanziamenti adeguati. Un passo dopo l’altro, la biodiversità diventa così una risorsa concreta per la salute, l’ambiente e il futuro di tutti.
Project funded by the European Union – NextGenerationEU
