La natura calpestata

world decline

L’impronta dell’uomo sull’ambiente è stata analizzata da diversi gruppi di ricerca con risultati poco incoraggianti

“Catastrofico declino” è l’espressione usata da alcuni ricercatori che hanno analizzato lo stato di salute delle aree incontaminate del nostro pianeta e… la causa siamo noi. Questo è il risultato del lavoro di un numero crescente di gruppi di ricerca che negli ultimi anni ha analizzato su scala locale gli effetti delle attività umane sull’ambiente e sulla biodiversità. E i risultati purtroppo non sono incoraggianti!

Tra le più recenti pubblicazioni ve ne sono due che meritano una particolare attenzione perché hanno analizzato l’impronta umana sull’ambiente (intesa come la traccia lasciata dalle nostre attività sull’ambiente) su scala globale.

Come mostrato dai dati ottenuti da una equipe internazionale coordinata da Oscar Venter dell’University of Northern British Columbia e pubblicati nella rivista Nature Communication, l’impronta della nostra specie sull’ambiente è aumentata nel periodo 1993-2009, ma non riflettendo (fortunatamente!) proporzionalmente né la nostra crescita demografica né la crescita economica. Avvalendosi infatti di set di dati relativi alle estensioni delle aree edificate e/o coperte da infrastrutture (ferrovie, strade,…), alla tipologia ed entità delle attività agricole e della pastorizia, alla presenza di illuminazione notturna e alla crescita della popolazione umana, il gruppo di Venter ha osservato un aumento del 9% della nostra impronta sull’ambiente a fronte di una crescita di oltre il 20% della popolazione umana e di più del 150% dell’economia mondiale. Tutto bene quindi?

Non proprio, poiché se in alcune nazioni (in gran parte occidentali) sono in corso di adozione norme per cercare di ridurre i danni arrecati dall’uomo e dalla sue attività all’ambiente, si registra una crescente pressione sull’ambiente in nazioni in cui il reddito pro capite è medio basso, mancano efficaci norme di tutela ambientale e sono presenti estese aree con alti livelli di biodiversità.

Purtroppo molte delle specie in via di estinzione (qui ad esempio sono elencate 16 specie per cui il 2016 potrebbe essere un anno molto difficile) si trovano in regioni in cui si registra un netto aumento della pressione antropica suggerendo che per tali aree non si prospetti un futuro roseo. In molte di queste aree geografiche la sostituzione di foreste con spazi per coltivazioni e allevamenti comporterà una ulteriore frammentazione degli habitat con conseguenze negative per la tutela della biodiversità anche considerato che solamente il 3% delle aree ricche di biodiversità del nostro pianeta risulta ad oggi non intaccato dalle attività umane.

Un ulteriore dato viene da uno studio apparso sulla rivista Current Biology in cui il gruppo di ricerca coordinato dal ricercatore australiano James Watson ha analizzato su scale globale lo stato di conservazione delle aree “selvatiche” nel senso di sostanzialmente intatte e non danneggiate dalle attività umane più invasive come l’agricoltura, l’allevamento e gli scavi minerari evidenziando quello che gli autori hanno definito come un declino catastrofico. In particolare, nel corso degli ultimi 20 anni abbiamo perso oltre 3 milioni di chilometri quadrati di aree libere da attività umane (pari approssimativamente al 10%) con perdite particolarmente rilevanti in Sud America (30%) e nell’Africa centrale (14%).

Il quadro che emerge ci indica chiaramente che l’aumento delle aree tutelate non ha affatto bilanciato la perdita connessa alle attività umane in diverse parti del nostro pianeta consegnandoci quindi un bilancio negativo. E’ quindi necessario un intervento quanto meno per evitare che questa tendenza prosegua anche nel prossimo futuro perché, come sottolineato dall’equipe australiana, se non si inverte questa tendenza in meno di un secolo potremmo trovarci ad avere perso tutte le aree incontaminate del nostro pianeta.

Servono quindi piani di azione celeri e condivisi a livello internazionale anche se risulterà certamente difficile dire ad alcune nazioni che non possono fare alle loro foreste ciò che noi europei abbiamo fatto per 2000 anni con le nostre.

Leggendo questi due articoli non può non tornare alla mente “Salvare metà della Terra. Il Futuro della vita”, il libro (recentemente pubblicato in italiano da Le Scienze-Codice) in cui il Edward O. Wilson suggerisce di destinare metà della superficie della Terra a tutte le specie fuorché la nostra. Metà della terra dovrebbe quindi divenire una area riservata alla conservazione della biodiversità perché, come Wilson sottolinea più volte, oggi i tassi di estinzione delle specie sono quasi 1000 volte superiori a quelli che hanno preceduto la diffusione della nostra.

Siamo sull’orlo di una catastrofe, ribadisce Wilson e a salvare la biosfera e i suoi abitanti non saranno misure economiche legate ai servizi ecologici e ai potenziali prodotti riconducibili alla biosfera stessa, ma serve molto di più.

Come suggeriva in una recente conferenza il nostro Direttore, secondo i modelli recenti, Homo sapiens sta producendo un’estinzione di massa della biodiversità assimilabile a quella che ha colpito i dinosauri, ma questa volta l’asteroide siamo noi.


Riferimenti bibliografici
Watson J.E.M. et al. (2016) Catastrophic declines in wilderness areas undermine global environment targets. Current Biology, in stampa (link: http://www.cell.com/current-biology/fulltext/S0960-9822(16)30993-9).

Venter O. et al. (2015) Sixteen years of change in the global terrestrial human footprint and implications for biodiversity conservation. Nature Communications 7: 12558 (link: http://www.nature.com/ncomms/2016/160823/ncomms12558/full/ncomms12558.html)