Lamarck 2.0: rileggere Lamarck per capirne la vera eredità
Pikaia ha letto per voi due nuovi libri dedicati a Jean Baptiste Lamarck
Da ormai diverse settimane è in corso all’Università di Modena e Reggio Emilia MOREbooks, un progetto dedicato alla riorganizzazione e valorizzazione del fondo librario storico del Dipartimento di Scienze della Vita. I libri della collezione rappresentano uno spaccato estremamente interessante di quanto accaduto nell’ambito delle scienze della vita tra gli ultimi vent’anni dell’Ottocento e i primi vent’anni anni del Novecento.
Sono gli anni di quella che Julian Huxley definì come “l’eclissi del darwinismo”, cioè la fase storica in cui l’evoluzione era stata ampiamente accettata negli ambienti scientifici, ma relativamente pochi naturalisti ritenevano che la selezione naturale ne fosse la causa principale.
A cavallo tra Ottocento e Novecento ebbero ampia diffusione anche alcune teorie di stampo neo-lamarckiano, che divennero ricorrenti grazie al lavoro di numerosi naturalisti, tra cui Paul Kammerer, Yves Delage, Edward D. Cope e Henry Fairfield Osborn. Queste teorie, così chiamate in onore del naturalista francese Jean-Baptiste Lamarck, sostenevano che le modificazioni del corpo degli organismi adulti, sia anatomiche che fisiologiche, potessero essere trasmesse alle cellule germinali e da queste alla discendenza. Il neolamarckismo voleva quindi “risolvere” il problema dell’apparente improbabilità dell’origine degli adattamenti altamente “sviluppati” da variazioni (mutazioni) casuali. Poiché le variazioni sarebbero state prodotte come risposta diretta alle reali condizioni ambientali alle quali l’organismo si sarebbe dovuto adattare, nella visione neo-lamarckiana tali processi non avrebbe dovuto attendere le variazioni casuali per aver luogo. Le mutazioni venivano inoltre viste come eventi necessariamente dannosi e in grado di alterare lo sviluppo armonico di un organismo e non si poteva certo affidare a tali disarmonie il successo evolutivo delle varie specie!
In quello stesso periodo era molto in voga anche una visione ortogenetica dell’evoluzione, in cui non meglio identificate cause interne sostituivano mutazioni e selezione naturale nel guidare l’evoluzione. Per altro numerosi ortogenetisti integrarono nelle proprie teorie i meccanismi lamarckiani. Il paleontologo Edward Cope, ad esempio, sostenne l’ereditarietà dei caratteri acquisita (che ribattezzò diplogenesi), così come fece lo zoologo Theodor Eimer che non esitò a sostenere che l’evoluzione fosse rettilinea e basata sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti.
Alla fine di questo periodo si realizzò una vera e propria eclissi non del Darwinismo, ma delle teorie ortogenetiche e tale condizione permane ancora oggi. Al contrario, la visione neo-lamarckiana dell’evoluzione, dopo una fase di declino durata diversi decenni, è tornata oggi presente in modo sempre più ricorrente nella letteratura scientifica.
La “colpa” di questa ennesima riscoperta del Lamarckismo è indubbiamente da imputare all’epigenetica, ovvero a quella parte della genetica che studia le modificazioni chimiche che il materiale genetico può subire e che hanno effetto sul modo in cui i geni si attivano. In particolare, tra le numerose scoperte legate all’epigenetica, ha destato grande interesse la possibilità che siano ereditarie alcune delle modificazioni epigenetiche che troviamo nei genomi in risposta a stimoli ambientali. Abbiamo finalmente trovato la prova dell’eredità dei caratteri acquisiti! O quasi.. o forse no?
Rispondere non è certamente facile, ma ci possono venire in aiuto due libri di recente pubblicazione dedicati proprio a Lamarck. Il primo è una nuova edizione della “Filosofia zoologica” di Jean-Baptiste Lamarck, a cura dello storico della scienza Giulio Barsanti (edito da Mimesis). Questa nuova edizione è splendida e presenta una magnifica introduzione, in cui troviamo una sintesi del lungo rapporto tra Barsanti e l’opera di Lamarck e un testo che ci restituisce una figura di Lamarck rinnovata e ripulita di quelle tante leggende che spesso si sono sovrapposte alla realtà. Per altro, la precedente versione italiana della “Filosofia Zoologica”, sempre a cura di Barsanti, era stata pubblicata da “La Nuova Italia” nel 1976, per cui è veramente un piacere poter rileggere Lamarck alla luce di quanto conosciamo oggi relativamente ai meccanismi con cui opera l’evoluzione.
Il secondo libro uscito è invece un saggio dal titolo “Lamarck non aveva tutti i torti” (edito da Aracne) in cui il naturalista Riccardo Ianniciello introduce alcuni dati, derivanti in particolare dall’epigenetica, che potrebbero o, nell’ottica dell’Autore dovrebbero, favorire una riconciliazione tra il lavoro di Lamarck e la biologia evoluzionistica moderna.
Oggi è quindi necessario in primo luogo rileggere Lamarck, perché indubbiamente, come scrive lo zoologo ed evoluzionista Alessandro Minelli, “mai come negli ultimi anni si sono versati fiumi di inchiostro per sostenere la rinascita del lamarckismo. Pagine che forse non sarebbero state scritte se i loro autori si fossero dati la briga di studiare a fondo l’opera di Lamarck”.
Può inoltre essere utile analizzare ciò che sta accadendo con l’epigenetica e la sua possibile eredità per capire la portata, anche epistemologica, dei cambiamenti in atto e analizzare come queste nuove scoperte possono arricchire la nostra capacità di spiegare l’evoluzione dei viventi.
Sebbene io personalmente non concordi su alcune conclusioni presenti nel saggio di Ianniciello, penso che questo saggio riprenda molti degli elementi più ricorrenti oggi attribuibili a Lamarck e che da questi si possa sviluppare una discussione che potrebbe essere affrontata da più punti di vista e da più ambiti disciplinari favorendo quindi un dialogo interdisciplinare sempre più richiesto e necessario.
Al momento i dati relativi all’eredità epigenetica non sono certamente numerosi, per cui la loro interpretazione non può oggi essere condotta nell’ottica di avere certezze, quanto semmai per capire come indirizzare la ricerca futura per dare risposte alle tante domande che sono ancora aperte.
Oggi abbiamo alcune evidenze sperimentali chiare del fatto che per alcuni caratteri in alcune specie animali e vegetali è possibile che alcune modificazioni epigenetiche siano trasmesse alla prole per alcune generazioni. L’esperimento che più di tutti gli altri rende evidente l’esistenza di una forma di eredità epigenetica è stato pubblicato dai ricercatori Brian G. Dias e Kerry J. Ressler nell’articolo “Parental olfactory experience influences behavior and neural structure in subsequent generations”. In questo articolo, i due ricercatori hanno in primo luogo condizionato un gruppo di topolini in cui l’emissione di una sostanza con odore simile a quello della mandorla era abbinata a una stimolazione elettrica applicata su una zampa. Dopo la fase di condizionamento, i topi sollevavano le zampe per evitare la stimolazione elettrica non appena sentivano l’odore di mandorla. Il risultato del tutto inatteso è che questo comportamento si trovava anche nella loro prole, che non aveva mai sperimentato l’abbinamento odore di mandola/stimolazione elettrica. Il condizionamento aveva quindi “scritto” una risposta comportamentale nel DNA dei topi e questa informazione era stata trasmessa anche alla prole. Per altro questo accadeva anche quando la prole veniva ottenuta ricorrendo alla fecondazione assistita realizzata con gli spermatozoi di topi condizionati condotta in femmine non condizionate. Andando poi a verificare a livello molecolare cosa fosse accaduto, si è potuto osservare che il condizionamento induceva la comparsa di una specifica modifica epigenetica nel gene che codificava il recettore olfattivo utile per riconoscere l’odore di mandorla. Nella prole non condizionata era stata trasmessa quella stessa e identica modificazione epigenetica.
In questo caso abbiamo quindi un chiaro esempio di ereditarietà epigenetica transgenerazionale ovvero di un evento in cui una sostanza ha indotto una modificazione epigenetica nel padre e tale variazione epigenetica è stata trasmessa alla prole senza che la prole abbia direttamente preso contatto con l’agente in fase di studio.
Il riferimento all’effetto transgenerazionale è essenziale, perché in molti casi si osservano invece effetti epigenetici intergenerazionali in cui si ha l’effetto diretto e simultaneo di un agente sull’epigenetica sia della madre esposta a una data sostanza che dei feti in via di sviluppo. Si usa espressamente il termine intergenerazionale per indicare il fatto che una sostanza ha effetti epigenetici simultaneamente su madre e feto senza però che ci sia un passaggio reale di “informazione” tra generazioni. Molti casi citati di effetti epigenetici riconducibili a carestie ricadono in realtà in questa tipologia di eredità.
Leggendo sia l’introduzione di Barsanti che il saggio di Ianniciello penso quindi che, volendo organizzare quanto sappiamo, sia necessario in primo luogo rispondere alla domanda che alcuni anni fa Carrie Deans e Keith A. Maggert presentavano nell’articolo “What do you mean, <epigenetic>?” pubblicato nella rivista scientifica internazionale Genetics. L’epigenetica infatti è in primo luogo lo strumento di base con cui tutti i nostri geni sono usati in ogni momento per regolare il funzionamento delle nostre cellule e in risposta (anche!) a stimoli ambientali. Serve quindi mettere ordine nei tanti usi differenti che di questo termine troviamo traccia nella letteratura. Serve inoltre non confondere l’eredità epigenetica tra cellule e tra organismi perché si basano su meccanismi molecolari differenti e serve distinguere l’eredità intergenerazionale da quella transgenerazionale, dove in realtà solamente la seconda è una vera forma di eredità.
Penso infine che sarebbe molto interessante dialogare con etologi e neurobiologi per capire la rilevanza dell’epigenetica nei processi di prepared learning, intendendo con questa espressione la propensione di una specie ad acquisire rapidamente alcuni insegnamenti, perché questo ci potrebbe aiutare nell’identificazione di eventuali tratti ricorrentemente associati a forme di eredità epigenetica. Inoltre, i vari esempi di prepared learning ci mostrano che è stata la selezione naturale a definire quali tratti comportamentali saranno “plastici” e quali invece non lo saranno, inserendo quindi anche eventuali eredità epigenetiche in una dinamica di chiara natura Darwiniana.
Studiare questi processi ci potrebbe infatti aiutare anche a capire quando una abitudine diventa istinto, come suggerito da Gene E. Robinson e Andrew B. Barron nel loro articolo “Epigenetics and the evolution of instincts”, pubblicato nel 2017 sulla rivista Science.
Un ultimo dato che a mio avviso sarebbe molto interessante da sviluppare è legato al fatto che alcune recenti pubblicazioni mostrano che le modificazioni epigenetiche verrebbero trasmesse non direttamente come tali, ma ricorrendo a piccole molecole di RNA in grado di indurre modificazioni epigenetiche. Ad essere quindi materialmente trasmesse sarebbero questi piccoli RNA e non la specifica modificazione chimica sul DNA. Questo è interessante perché questi RNA possono essere distribuiti nel nostro corpo tramite più vie, per cui alcuni microRNA potrebbero essere prodotti a livello di cellule somatiche ed essere portati all’interno anche di cellule germinali, andando quindi a superare quella barriera tra soma e cellule germinali che risultò “letale” a Lamarck e alla possibilità, da lui suggerita, di avere un’eredità dei caratteri acquisiti. Con ciò non intendo sostenere che si possa automaticamente prevedere l’ereditabilità di ogni carattere, ma che grazie a questi microRNA anche le cellule germinali, nonostante la precoce separazione da quelle somatiche, potrebbero essere “permeabili” a stimoli che arrivano dall’ambiente e a quanto accade nelle cellule somatiche.
L’evoluzione può seguire molteplici vie e quanto oggi sappiamo sull’epigenetica probabilmente contribuirà, ed è questa la mia personale visione, ad arricchire la biologia evoluzionistica di nuovi meccanismi che l’evoluzione dei viventi ha seguito, senza però andare mai a intaccare il nucleo centrale della teoria proposta da Darwin.
Immagine: Charles Thévenin / Public domain via Wikimedia Commons
Biologo e genetista all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove studia le basi molecolari dell’evoluzione biologica con particolare riferimento alla citogenetica e alla simbiosi. Insegna genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie. Ha pubblicato più di centosessanta articoli su riviste nazionali internazionali e tenuto numerose conferenze nelle scuole. Nel 2020 ha pubblicato per Zanichelli il libro Nove miliardi a tavola- Droni, big data e genomica per l’agricoltura 4.0. Coordina il progetto More Books dedicato alla pubblicazione di articoli e libri relativi alla teoria dell’evoluzione tra fine Ottocento e inizio Novecento in Italia.