L’antenato del beluga era un delfino di acque tropicali

Fig1

Nuotava nell’antico mare della Toscana: lo rivela un fossile di 5 milioni di anni fa scoperto vicino a Grosseto


Non occorre essere particolarmente amanti della natura per conoscere e simpatizzare per il beluga (Delphinapterus leucas) e il narvalo (Monodon monoceros), parenti più celebri dei tursiopi e delle stenelle che frequentano le nostre coste. Tanto il primo (un grande delfino dall’inconfondibile livrea bianca) quanto il secondo (famoso per la presenza, negli individui maschi, di una lunga zanna a cui si deve l’origine del mito dell’unicorno) sono tra i più caratteristici abitanti delle freddissime acque dell’oceano artico. Le peculiari preferenze ambientali di questi cetacei si riflettono sulla loro morfologia, caratterizzata da un corpo rivestito da un abbondante strato di grasso sottocutaneo (il cosiddetto blubber, un eccellente isolante termico) e dalla scomparsa della pinna dorsale, sostituita da una sorta di ‘gobba’ più adatta al nuoto in acque parzialmente o totalmente ricoperte dal ghiaccio marino. Questi ed altri caratteri morfologici, unitamente ai dati molecolari, consentono di classificare beluga e narvalo all’interno della famiglia Monodontidae, di cui essi costituiscono i soli rappresentanti viventi.

Mentre i monodontidi attuali sono oggetto di incessanti ricerche da parte di biologi di tutto il mondo, la loro traiettoria evolutiva è di difficile ricostruzione in virtù di testimonianze fossili particolarmente limitate: oltre a pochi resti di beluga e narvalo da siti geologicamente molto recenti, i fossili di monodontidi sono infatti riferiti a tre sole specie estinte (Denebola brachycephala, Bohaskaia monodontoides e Haborodelphis japonicus), ciascuna delle quali è conosciuta ai paleontologi a partire da resti frammentari di un unico individuo. Queste tre specie, note rispettivamente da sedimenti tardo-miocenici e pliocenici (ca. 7–3 milioni di anni fa) della California messicana, degli Stati Uniti sudorientali e del Giappone, dimostrano che i monodontidi abitavano un tempo latitudini assai più basse di quelle oggi occupate dal narvalo e dal beluga. Tuttavia, incertezze relative alle caratteristiche paleoclimatiche e paleoambientali dei depositi da cui Denebola, Bohaskaia e Haborodelphis provengono hanno portato a ricostruzioni assai contrastanti dello stile di vita e delle preferenze ecologiche dei monodontidi arcaici, interpretati alternativamente come forme tropicali o come organismi già parzialmente adattati ad acque temperato-fredde. Quella che apparentemente è soltanto una diatriba tra accademici comporta implicazioni profonde per la comprensione degli adattamenti fisiologici e morfoanatomici riscontrati nei monodontidi attuali, con possibili ripercussioni sull’individuazione di strategie di tutela e conservazione di questi straordinari mammiferi marini.La soluzione a tali quesiti scientifici è arrivata, inaspettatamente, da una cava di sabbia situata ad Arcille, nel cuore della Maremma (provincia di Grosseto, Toscana meridionale).

Fig3
Se passeggiando tra le colline della Toscana che si estendono dall’Appennino alle pianure costiere potessimo viaggiare a ritroso nel tempo sino all’epoca che i geologi chiamano Pliocene (da circa 5,3 a circa 2,6 milioni di anni fa), osserveremmo un paesaggio assai diverso da quello odierno, nettamente dominato dal composto più abbondante sulla superficie del nostro pianeta: l’acqua. Infatti, durante il Pliocene, buona parte del territorio toscano era sommerso da un mare popolato da una grande varietà di organismi. I profondi mutamenti geologici e climatici intercorsi da allora hanno rimodellato il territorio, rendendolo una “miniera a cielo aperto” ricca di indizi che, se debitamente interpretati, possono svelare le antiche origini dell’ambiente attuale. Buona parte delle colline toscane, costituite prevalentemente da sabbie e argille depositatesi su antichi fondali marini, ancora oggi custodiscono resti delle faune marine plioceniche. Reperti fossili di balene, delfini, dugonghi e squali – insieme a resti di molluschi, crostacei ed altri invertebrati – offrono la possibilità ai paleontologi di ricostruire i panorami sottomarini del passato e, in alcuni casi, sulla base di nuovi ritrovamenti, ampliano sensibilmente le conoscenze al riguardo aggiungendo elementi faunistici a un puzzle paleoambientale in continua evoluzione. I mutamenti geologici e climatici influenzarono profondamente la sfera biologica: specie di mare caldo e temperato si alternavano dunque a specie ad affinità temperata e temperato-fredda, mentre oscillazioni nei rapporti con l’Atlantico permettevano il temporaneo instaurarsi di comunità viventi a carattere oceanico.

E’ in depositi come questi che, nel 2013, è stato rinvenuto il cranio fossile di un delfino ad opera dei cavatori intenti alle attività estrattive presso la cava di Arcille. Tale reperto è stato prontamente affidato ai paleontologi del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Pisa che, con grande sorpresa, hanno potuto determinarne l’appartenenza ai monodontidi sulla base di inequivocabili caratteri osteologici. Il cranio fossile di Arcille è dunque l’unico rappresentante della famiglia Monodontidae noto dal Mar Mediterraneo. Ma c’è di più: grazie al buono stato di conservazione del reperto, i paleontologi dell’Università di Pisa hanno potuto effettuare uno studio morfoanatomico di dettaglio che è risultato nel riconoscimento del cranio di Arcille come rappresentativo di un nuovo genere e di una nuova specie monodontidi fossili, battezzata col nome bionomiale di Casatia thermophila. L’importanza di questa scoperta è ulteriormente incrementata dalle ottime conoscenze relative al contesto di rinvenimento, che permettono finalmente di chiarire le preferenze ambientali degli antichi monodontidi.

Da anni, infatti, le sabbie della cava di Arcille sono oggetto di monitoraggio e studio da parte dei paleontologi dell’Università di Pisa, con la collaborazione del gruppo di paleontofili GAMPS di Scandicci (al cui presidente, Simone Casati, scopritore di molti dei fossili della cava di Arcille, è dedicato il nuovo genere Casatia). Studi micropaleontologici rivelano che tali sedimenti hanno un’età pliocenica (ca. 5,1–4,5 milioni di anni fa) e testimoniano un paleoambiente marino-costiere di acque basse, situato nelle immediate prossimità di una bocca fluviale. I fossili rinvenuti in questi depositi comprendono numerosi sireni (mammiferini marini erbivori, tuttora viventi, che abitano le fasce costiere dei mari tropicali) riferiti al genere estinto Metaxytherium, squali di acque calde quali il temibile squalo zambesi (Carcharhinus leucas) ed il vorace squalo tigre (Galeocerdo cuvier) e molluschi che oggi abitano le coste dell’Africa occidentale, a latitudini non superiori a 20-22 gradi nord. Nel complesso, questa comunità fossile è indicativa di un paleoambiente schiettamente tropicale, privo di analoghi nel Mediterraneo attuale. Il rinvenimento di Casatia thermophila all’interno di un simile paleoambiente rappresenta dunque la conferma definitiva dell’ipotesi per cui il narvalo e il beluga hanno le loro radici evolutive in forme di mare caldo e dalle affinità tropicali (ecco il perché del nome specifico ‘thermophila’, che significa ‘amante del caldo’). E’ probabile dunque che le specie attuali di monodontidi abbiano evoluto i loro straordinari adattamenti alle acqua fredde in tempi geologicamente più recenti, durante il Quaternario (da ca. 2,6 milioni di anni fa ad oggi), quando l’emisfero settentrionale fu interessato da molte glaciazioni e da un trend di progressivo irrigidimento climatico.

Che cosa ha portato all’estirpazione della Casatia e degli altri monodontidi arcaici dalle basse latitudini? Come proposto per diversi vertebrati e invertebrati del Pliocene del Mediterraneo, tra cui il sirenio Metaxytherium (i cui resti prendono posto a fianco della Casatia nelle sabbie di Arcille), essi potrebbero essersi estinti in seguito al raffreddamento che ha accompagnato la messa in posto della calotta artica intorno a 3 milioni di anni fa. Per quanto la storia evolutiva dei monodontidi sia, sostanzialmente, una storia di adattamenti ad un clima che cambia, tale plasticità ecologica potrebbe non essere sufficiente a garantirne la sopravvivenza nel prossimo futuro, quando il riscaldamento globale indotto dall’attività umana e la conseguente perdita di ghiaccio marino rappresenteranno una minaccia sempre più insidiosa per la sopravvivenza del narvalo e del beluga.

Il cranio fossile di monodontide da Arcille può essere ammirato presso il Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa, accanto a scheletri completi di beluga e narvalo, all’interno della spettacolare ‘Galleria dei Cetacei’, recentemente ridisegnata grazie ad uno spettacolare riallestimento che ha portato in esposizione 50 esemplari tra reperti fossili, scheletri attuali, modelli a grandezza naturali, e preparati anatomici storici. Una replica dello stesso reperto, realizzata dai tecnici del Museo di Storia Naturale dell’Università di Pisa, è in esposizione presso l’esibizione permanente del GAMPS (Badia a Settimo, Scandicci), insieme ad una grande raccolta di fossili di animali marini che hanno contribuito, in modo sostanziale, a svelare gli antichi segreti del mare che un tempo sommergeva la campagna toscana.


Riferimenti: 
Giovanni Bianucci, Fabio Pesci, Alberto Collareta & Chiara Tinelli. A new Monodontidae (Cetacea, Delphinoidea) from the lower Pliocene of Italy supports a warm-water origin for narwhals and white whales. Journal of Vertebrate Paleontology. Article: e1645148

Credit immagine d’apertura: Alberto Gennari
Credit immagine nel testo: Giovanni Biancucci