Le domande irrisolte dell’evoluzione. Cosa significa essere un individuo?
Ogni individuo è in realtà un complesso consorzio di organismi, legati l’uno all’altro da vincoli di interdipendenza e reciprocità. Scott Gilbert, professore di biologia al Swarthmore College, ne parla con Sofia Belardinelli de Il Bo Live
Charles Darwin dedicò tutta la vita allo studio della natura. Prima di pubblicare, nel 1859, il suo capolavoro, L’origine delle specie, aveva accumulato un’impressionante mole di conoscenze grazie a decenni di osservazioni e studio. La sua visione del mondo naturale è il frutto della combinazione di questo vasto e approfondito studio sul campo con le letture che lo accompagnarono: si tratta, dunque, di una visione figlia della sua epoca, in base alla quale le interazioni tra un organismo e l’altro, e tra questi e l’ambiente, sono interpretate come “una continua lotta per l’esistenza”, una contrapposizione senza quartiere in cui sopravvive chi si trova ad avere a disposizione le caratteristiche giuste nel luogo giusto, risultando così meglio adattato di altri.
A lungo, la biologia novecentesca non ha messo in discussione questa impostazione di fondo, basata sulla competizione tra individui. Al contrario, questa visione è stata applicata a tutti i livelli dell’evoluzione, da quello macroscopico – il conflitto tra specie diverse in un contesto ecologico – a quello microscopico – celebre, in tal senso, è la teoria del gene egoista di Richard Dawkins.
Ma, già nel Novecento, la prospettiva dell’evoluzione incentrata sulla competizione non è stata completamente esente da critiche. C’è stato chi, tra i teorici della biologia evoluzionistica, ha espresso dubbi circa la validità del paradigma dominante, proponendo un’alternativa: si tratta della biologa statunitense Lynn Margulis, la quale, con le sue straordinarie scoperte microbiologiche, ha gettato le basi per una vera e propria rivoluzione della nostra concezione dell’evoluzione e della vita stessa.
Oggi, la biologia evoluzionistica non ha abbandonato la teoria darwiniana, che rappresenta ancora il nucleo fondante della disciplina; tuttavia, essa è stata revisionata ed estesa con nuove conoscenze e nuove teorie. Un deciso mutamento di prospettiva si è verificato in particolare, da alcuni decenni a questa parte, rispetto alla tradizionale concezione dell’individuo come “atomo” – unità indivisibile – della dinamica evolutiva, in costante competizione con gli altri individui. Le riflessioni avviate da Margulis, infatti, hanno restituito una descrizione completamente nuova della vita: secondo questo nuovo, rivoluzionario punto di vista, il mondo biologico non sarebbe basato sulla competizione, quanto sulla cooperazione. È proprio la cooperazione, in altri termini, a rendere possibile l’evoluzione: essa potrebbe addirittura aver svolto un ruolo essenziale per l’emersione delle prime forme di vita.
L’intervista completa a Scott Gilbert. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Elisa Speronello
Un’eresia nella biologia evoluzionistica: la vita è cooperazione
Lynn Margulis è la prima scienziata a proporre la rivoluzionaria teoria dell’endosimbiosi. Studiando al microscopio la struttura cellulare, si rende conto che all’interno di ogni cellula sono presenti degli organelli, i mitocondri, che somigliano a veri e propri organismi. La sua ipotesi è che questa somiglianza sia indizio di un’antica autonomia dei mitocondri: questi sarebbero, cioè, i lontani discendenti di batteri che, a un certo punto della loro storia evolutiva, entrarono in simbiosi con determinate cellule, dando così origine agli organismi eucarioti.
La scoperta venne accolta con grande scetticismo dalla comunità scientifica. Si trattava di una proposta quasi eretica, che minava alle fondamenta due capisaldi della “sintesi moderna” della biologia: il dogma della competizione e il principio dell’individualità. Il tempo, tuttavia, è galantuomo, e ha mostrato la validità dell’intuizione di Margulis: oggi, infatti, si ritiene che la cooperazione sia un meccanismo evolutivo importante almeno quanto la competizione, se non ancora più essenziale.
Scott Gilbert, professore emerito di Biologia al Swarthmore College e all’università di Helsinki e fra i maggiori esperti mondiali di biologia ed ecologia dello sviluppo, spiega a Il Bo Live che questa rivoluzione ha profondamente modificato ogni ambito della ricerca biologica, compresa la dimensione molecolare.
«La questione dell’individuazione dell’unità fondamentale della vita è strettamente connessa ai temi dell’individualità e della competizione. Su questo tema, infatti, si fronteggiano due scuole di pensiero: una ritiene che a caratterizzare la vita sia la presenza di metabolismo, l’altra che sia la possibilità di replicare sé stessi. Nel primo caso, l’unità fondamentale della vita è la cellula, che, grazie all’attività metabolica, è in grado di mantenere la propria identità pur modificando, nel tempo, tutte le sue parti: il filosofo Hans Jonas sosteneva che “non è corretto che gli organismi hanno un metabolismo, ma che gli organismi sono un metabolismo”. Questa è la prospettiva della biochimica. Nel secondo caso, invece, il focus si sposta sull’unità di replicazione, il DNA: questa è la prospettiva della biologia molecolare.
Dal mio punto di vista, è più plausibile caratterizzare la vita come ciò che attua un metabolismo, piuttosto che come ciò che è in grado di produrre copie di sé. Tuttavia, potremmo anche provare a tenere insieme le due caratteristiche: è quanto fece, nel 1896, Edmund B. Wilson, che affermò che “l’ereditarietà è il ripresentarsi, nelle generazioni successive, di forme simili di metabolismo”. Sulla scia di questa visione olistica, la posizione oggi più diffusa abbraccia una visione metabolica della vita, dalla quale tuttavia non sono escluse il DNA e la replicazione. Metabolismo e replicazione sono, entrambe, caratteristiche irrinunciabili per un organismo vivente».
La bufaga è un piccolo uccello africano che vive in simbiosi mutualistica con diverse specie di mammiferi erbivori. Foto: Derek Keats/Wikimedia Commons
Nessuno è un individuo
Ciò è tanto più vero alla luce delle straordinarie scoperte sulla struttura di ciò che, fino a poco tempo fa, era considerato individuo, cioè un organismo unico e indivisibile. La teoria dell’olobionte, proposta ancora una volta dalla biologa Lynn Margulis, sostiene che ogni organismo – che comunemente riteniamo un individuo – sia, in realtà, un complesso ecosistema di organismi che convivono simbioticamente, cooperando per la sopravvivenza dell’insieme – òlon – dalle prime fasi dello sviluppo fino alla morte.
«Quel che ci viene comunemente insegnato sull’essere vivente è che esso sia il frutto di un unico individuo – sia esso l’uovo fertilizzato, un rizoma, o un seme – e che, di conseguenza, abbia un unico genoma e una sola linea di discendenza», spiega il professore. «Ma la teoria dell’olobionte spazza via questa prospettiva: certo, ogni individuo acquisisce i geni dei propri genitori per trasmissione verticale, ma a costituire l’organismo concorre anche un intero consorzio di batteri e altri microrganismi, che sono parte integrante dell’organismo stesso», l’identità del quale assume così una natura inaspettatamente plurale. «I numerosi esseri viventi che compongono l’olobionte sono essenziali per la sopravvivenza dell’ospite: ne regolano l’anatomia, la fisiologia, la capacità immunologica, lo sviluppo e finanche il comportamento». Nessun individuo, a ben guardare, è davvero a-tomos, indivisibile: «Non siamo soltanto individui, dunque: ognuno di noi è un intero bioma, un insieme di ecosistemi», precisa Gilbert.
«Lynn Margulis aveva le idee chiare: in questo sorprendente modo di guardare alla vita, la selezione naturale non è certo inutile, ma la sua centralità è decisamente ridimensionata», spiega il biologo. «Essa non sarebbe, infatti, il motore principale dell’evoluzione, ma interverrebbe solo in un secondo momento, per garantire l’adattamento dell’organismo al proprio ambiente e per evitare l’estinzione.
Possiamo descrivere la dinamica evolutiva come un processo artistico, in cui lo sviluppo – nel quale una grande importanza è rivestita dai simbionti – assolve il ruolo dell’artista, realizzando la parte creativa: è nel corso dello sviluppo, ad esempio, che si originano nuovi fenotipi. La creatività della selezione naturale, invece, è paragonabile a quella di un curatore, che decide quali, tra le nuove creazioni, sono degne di attenzione. La maggior parte delle esplorazioni creative dell’evoluzione non sopravvivono a lungo: a sopravvivere non saranno solo le forme più adatte, ma quelle più adatte a vivere insieme, a cooperare e a coevolvere. In altre parole: sopravvivono gli organismi che sono in grado di unirsi per dare vita a ecosistemi».
È però importante chiarire – sottolinea Gilbert – che descrivere la vita come fondata sulla cooperazione non significa dipingere un quadro a tinte rosee: «La cooperazione in natura non è una situazione idilliaca, e di certo non esclude il conflitto. Cooperazione può voler dire anche “sopravvivenza del più adatto”. Nel momento in cui un certo numero di organismi si consocia per costituire un olobionte – pensiamo, ad esempio, alla simbiosi tra il piccolo cefalopode Euprymna scolopes e il batterio Vibrio fischeri, che permette la formazione di un organo luminescente – molti altri organismi sono brutalmente esclusi dall’unione, e spesso eliminati. L’organismo è una squadra, e per entrare a far parte della squadra la competizione è alta».
Euprymna scolopes, grazie alla simbiosi con il batterio Vibrio fischeri, sviluppa un organo luminescente. Foto: Wikimedia Commons
Filosofia della pluralità: se la vita è intreccio, fusione, reciprocità
Questa nuova accezione della vita come interdipendenza e cooperazione, basata su intrecci tra specie anche lontanissime fra loro, sottende implicazioni filosofiche di fondamentale importanza. La dimostrazione scientifica del fatto che la competizione individualistica non è il fulcro della vita infligge, ad esempio, un duro colpo all’antropocentrismo, sulla base del quale abbiamo giustificato per secoli un comportamento colpevolmente predatorio nei confronti del resto del mondo naturale. Inoltre, le prove dirette che mostrano oltre ogni ragionevole dubbio come anche i cosiddetti “animali superiori” – tra cui Homo sapiens – dipendano, per la propria stessa sopravvivenza, da organismi “inferiori” come batteri, virus e funghi costituisce un monito a non dare per certa la nostra supposta autonomia dalla natura, e a non affidarci eccessivamente alle nostre capacità tecnologiche. Nell’epoca della Sesta estinzione, faremmo bene a riflettere sull’importanza delle interdipendenze, che lasciano intravedere in filigrana la fragilità ecologica di una giovane e arrogante specie di primati.
«Le implicazioni filosofiche di teorie come quella della simbiosi o dell’olobionte sono moltissime – conferma Gilbert –, e i filosofi che si dedicano a tali questioni sono sempre di più. Tra questi, va sicuramente menzionata la filosofa Donna Haraway, che ha fatto della riflessione filosofica su questi temi il centro delle proprie ricerche.
Haraway individua due principi. Il primo è che “la vita è costituita di intrecci” (life is entanglement): la purezza non esiste. Ogni individuo è una comunità di organismi, è un intero ecosistema, e al tempo stesso è parte di un ambiente più esteso. I nostri componenti interni e gli stimoli ambientali ci modificano continuamente, così che non siamo mai uguali, pur rimanendo noi stessi. Il secondo principio riconosce come caratteristica essenziale della vita il fatto che gli individui con-divengono, divengono insieme. E non si tratta soltanto di una metafora, ma di un fenomeno reale: fin dai primi momenti della vita di un organismo, il suo sviluppo è mediato dai simbionti e dall’ambiente. Il nostro divenire è sempre divenire insieme agli altri.
Accogliendo gli insegnamenti di Lynn Margulis, Donna Haraway sottolinea come, a ben guardare, sia proprio la cooperazione a rendere possibile la vita. Alcuni dei processi fondamentali perché la vita sulla Terra continui ad esistere dipendono da simbiosi: pensiamo all’azotofissazione, resa possibile dai batteri del genere Rizhobium, o alle micorrize, associazioni microscopiche tra funghi e radici che sono in molti casi essenziali per la sopravvivenza delle piante, o ancora ai coralli, forse uno degli esempi più spettacolari di simbiosi, da cui dipende l’esistenza di interi ecosistemi. La competizione, in questa nuova narrazione della vita, perde la sua posizione centrale: c’è chi ha proposto che sia una delle tante possibili forme di cooperazione».
Tali riflessioni hanno anche un importante risvolto che esula dalla riflessione filosofica in senso stretto, e che sfocia nella dimensiona etica: se ad animare la vita è la cooperazione, ne deriva che la regola prima della vita stessa è la reciprocità. «Non è un caso, forse – suggerisce Scott Gilbert – che la reciprocità sia al centro di molte filosofie orientali e di visioni del mondo di tante società indigene.
Donna Haraway (che prima di dedicarsi alla filosofia ha completato la formazione in biologia) utilizza il termine tecnico “induzione reciproca” – usato nella biologia dello sviluppo per indicare, appunto, le interazioni e le modificazioni reciproche che avvengono tra i diversi organi durante le prime fasi dello sviluppo dell’organismo – come parola d’ordine della vita. Secondo la filosofa, il più piccolo modello (e non unità) della vita sono le relazioni, non le singole entità; e, tornando alla questione iniziale di ciò che caratterizza la vita, proprio l’olobionte dimostra che il metabolismo, e non la replicazione, è ciò che rende un organismo vivo».
Il racconto dell’avventura della vita come una storia di scontri e di competizione, in cui sopravvive solo chi vince le battaglie più ardue contro i nemici più duri, è affascinante. «Siamo una specie che ha bisogno di narrare storie: le storie che narriamo, e il modo in cui le raccontiamo, plasmano il nostro mondo», afferma il professore. Tuttavia, sembra che la storia della vita non sia, in realtà, così avvincente, e che la natura non sia, dopotutto, red in tooth and claw. «Oggi, immersi come siamo nell’Antropocene, nel pieno di una crisi planetaria, dovremmo forse abbandonare le storie avvincenti e rivolgerci, invece, alle storie ordinarie: quelle fatte di cooperazione, coevoluzione e reciprocità. Potremmo scoprire che sono proprio queste le storie di cui abbiamo veramente bisogno, per plasmare il mondo in un modo nuovo».