L’uomo arrivò in America 100.000 anni prima di quanto si pensasse?
Un recente studio basato sulla datazione di ossa di mastodonte e rocce ritrovate in California lascia supporre la presenza di specie appartenenti al genere Homo in Nord America 130.000 anni fa, ovvero circa 100.000 anni prima rispetto a quanto precedentemente ipotizzato. Molti gli interrogativi relativi alla scoperta
La prima colonizzazione del Nord America da parte dell’uomo moderno è un argomento da tempo dibattuto. Fino a poco tempo fa, le evidenze archeologiche sembravano suggerire una migrazione avvenuta all’incirca 14.000 anni fa attraverso lo stretto di Bering; recentemente, tale teoria è stata messa in discussione: sulla base di analisi morfologiche effettuate su frammenti ossei rinvenuti a Bluefish, in Canada (località non lontana dall’Alaska), l’arrivo dell’uomo nel continente nord americano andrebbe anticipato di almeno 10.000 anni (Pikaia ne ha già parlato qui).
Uno studio, pubblicato il 26 aprile su Nature e destinato a creare molti dibattiti all’interno della comunità scientifica, suggerisce la presenza di ominini in Nord America 130.000 anni fa, ovvero almeno 100.000 anni prima rispetto a quanto precedentemente ipotizzato.
La scoperta si basa sul ritrovamento di alcune ossa di mastodonte (Mammut americanum), rinvenute nel 1992 da parte di alcuni paleontologi presso il Cerutti Mastodon (CM) site, nelle vicinanze di San Diego, in California. Tali ossa furono rinvenute insieme a rocce di forma tondeggiante, all’interno di uno strato limoso di terreno. Nel 2008, i coniugi Steven e Kathleen Holen, esaminando il materiale rinvenuto 16 anni prima notarono che gli schemi di frammentazione delle ossa erano molto netti, presupponendo che esse fossero state posizionate al di sopra di incudini e rotte con rudimentali utensili (le rocce ritrovate) per l’estrazione di midollo osseo o per la costruzione di utensili più sofisticati. Il materiale era stato seppellito da limo trasportato dall’acqua, la cui azione non è però compatibile con il trasporto di rocce delle dimensioni rinvenute, che dovevano quindi essere state portate da qualcuno. Questi elementi concorrono ad ipotizzare la presenza di una specie non identificata di Homo sul sito dei ritrovamenti.
Per la datazione dei campioni, sono state eseguite a partire dal 2012 analisi radiometriche delle ossa di mastodonte, misurando i livelli relativi di uranio e torio radioattivi: i risultati suggeriscono che i resti risalgono a circa 130.000 anni fa, con un errore relativo di circa 9.400 anni. Le obiezioni allo studio non hanno tardato ad arrivare. Secondo David Meltzer, archeologo della Southern Methodist University di Dallas, in Texas, prima di supporre la presenza di esseri umani, i ricercatori dovrebbero escludere completamente la possibilità che le rocce siano state frantumate in quel modo da agenti atmosferici; secondo John McNabb, archeologo del paleolitico all’Università di Southampton, gli schemi di frammentazione delle ossa dovrebbero pertanto essere analizzati in maniera più rigorosa e dettagliata. McNabb, inoltre, trova strano che a parte la presenza delle rocce, il sito non contenga altre tracce che lascino presupporre la presenza umana.
Se la datazione delle ossa fosse confermata e la presenza di ominini diventasse più che una semplice ipotesi, la scoperta rivoluzionerebbe le nostre conoscenze su come l’uomo sia arrivato nelle Americhe. Anche gli interrogativi però non mancano: se la migrazione fosse veramente avvenuta 130.000 anni fa, come avrebbero fatto i nostri antenati a raggiungere il Nord America, sapendo che lo stretto di Bering era allora molto più ampio rispetto a 100.000 anni dopo? Di quale specie appartenente al genere Homo si tratterebbe? Probabilmente solamente ulteriori ricerche e, preferibilmente, il ritrovamento di scheletri umani, ci consentiranno di rispondere almeno in parte a tali domande, altrimenti destinate a rimanere speculazioni.
Riferimenti:
Steven R. Holen, Thomas A. Deméré, Daniel C. Fisher, Richard Fullagar, James B. Paces, George T. Jefferson, Jared M. Beeton, Richard A. Cerutti, Adam N. Rountrey, Lawrence Vescera, Kathleen A. Holen. A 130,000-year-old archaeological site in southern California, USA. Nature (2017) DOI: 10.1038/nature22065
Immagine da Wikimedia Commons
Uno studio, pubblicato il 26 aprile su Nature e destinato a creare molti dibattiti all’interno della comunità scientifica, suggerisce la presenza di ominini in Nord America 130.000 anni fa, ovvero almeno 100.000 anni prima rispetto a quanto precedentemente ipotizzato.
La scoperta si basa sul ritrovamento di alcune ossa di mastodonte (Mammut americanum), rinvenute nel 1992 da parte di alcuni paleontologi presso il Cerutti Mastodon (CM) site, nelle vicinanze di San Diego, in California. Tali ossa furono rinvenute insieme a rocce di forma tondeggiante, all’interno di uno strato limoso di terreno. Nel 2008, i coniugi Steven e Kathleen Holen, esaminando il materiale rinvenuto 16 anni prima notarono che gli schemi di frammentazione delle ossa erano molto netti, presupponendo che esse fossero state posizionate al di sopra di incudini e rotte con rudimentali utensili (le rocce ritrovate) per l’estrazione di midollo osseo o per la costruzione di utensili più sofisticati. Il materiale era stato seppellito da limo trasportato dall’acqua, la cui azione non è però compatibile con il trasporto di rocce delle dimensioni rinvenute, che dovevano quindi essere state portate da qualcuno. Questi elementi concorrono ad ipotizzare la presenza di una specie non identificata di Homo sul sito dei ritrovamenti.
Per la datazione dei campioni, sono state eseguite a partire dal 2012 analisi radiometriche delle ossa di mastodonte, misurando i livelli relativi di uranio e torio radioattivi: i risultati suggeriscono che i resti risalgono a circa 130.000 anni fa, con un errore relativo di circa 9.400 anni. Le obiezioni allo studio non hanno tardato ad arrivare. Secondo David Meltzer, archeologo della Southern Methodist University di Dallas, in Texas, prima di supporre la presenza di esseri umani, i ricercatori dovrebbero escludere completamente la possibilità che le rocce siano state frantumate in quel modo da agenti atmosferici; secondo John McNabb, archeologo del paleolitico all’Università di Southampton, gli schemi di frammentazione delle ossa dovrebbero pertanto essere analizzati in maniera più rigorosa e dettagliata. McNabb, inoltre, trova strano che a parte la presenza delle rocce, il sito non contenga altre tracce che lascino presupporre la presenza umana.
Se la datazione delle ossa fosse confermata e la presenza di ominini diventasse più che una semplice ipotesi, la scoperta rivoluzionerebbe le nostre conoscenze su come l’uomo sia arrivato nelle Americhe. Anche gli interrogativi però non mancano: se la migrazione fosse veramente avvenuta 130.000 anni fa, come avrebbero fatto i nostri antenati a raggiungere il Nord America, sapendo che lo stretto di Bering era allora molto più ampio rispetto a 100.000 anni dopo? Di quale specie appartenente al genere Homo si tratterebbe? Probabilmente solamente ulteriori ricerche e, preferibilmente, il ritrovamento di scheletri umani, ci consentiranno di rispondere almeno in parte a tali domande, altrimenti destinate a rimanere speculazioni.
Riferimenti:
Steven R. Holen, Thomas A. Deméré, Daniel C. Fisher, Richard Fullagar, James B. Paces, George T. Jefferson, Jared M. Beeton, Richard A. Cerutti, Adam N. Rountrey, Lawrence Vescera, Kathleen A. Holen. A 130,000-year-old archaeological site in southern California, USA. Nature (2017) DOI: 10.1038/nature22065
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