Molto grande o molto piccolo: quando le dimensioni (dell’encefalo) contano

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Negli uccelli che vivono alle alte latitudini, strategie opposte di investimento energetico consentono la resilienza a condizioni ambientali variabili


L’encefalo è quella parte del sistema nervoso centrale, contenuta nella scatola cranica, che in tutte le specie animali che ne sono dotate elabora ed integra gli stimoli interni ed esterni, al fine di produrre delle risposte funzionali e adattive. Come si può intuire, l’estensione delle strutture encefaliche varia a seconda del gruppo tassonomico e il massimo sviluppo di questo insieme di organi si riscontra ovviamente nell’uomo. Sebbene il volume dell’encefalo non sia l’unico fattore implicato nel determinare il livello di intelligenza di un organismo, spesso quest’ultimo viene stimato attraverso il quoziente di encefalizzazione (QE); tale valore è definito dal rapporto tra la massa del cervello osservato e la massa attesa, cioè quella che ci si aspetterebbe di trovare in un animale della stessa taglia in un determinato gruppo di animali. Il cervello infatti è l’organo tipicamente rappresentativo dell’encefalo e in seguito i due termini verranno usati in modo equivalente.

La distribuzione delle dimensioni relative del cervello degli uccelli segue un andamento normale, ossia la maggior parte delle specie ricade in valori intermedi, mentre agli estremi vi sono casi di cervelli più grandi o più piccoli, relativamente alla taglia corporea. Studi comparativi sugli uccelli hanno evidenziato che negli habitat freddi e stagionali si trovano con più probabilità specie molto encefalizzate le cui popolazioni sono piuttosto stabili, cioè non vanno incontro a particolari variazioni demografiche qualora le condizioni ambientali subiscano alterazioni, come spesso accade alle alte latitudini.

A questo proposito, in uno studio del 2017, i ricercatori dell’Università di Washington e del Canadian Centre For Behavioral Neuroscience avevano voluto indagare se dimensioni cerebrali maggiori fossero correlate a una maggior flessibilità comportamentale e dunque a una maggiore adattabilità agli ambienti mutevoli, riproponendo l’”ipotesi del buffer (tampone) cognitivo” avanzata da John Allman e in seguito rivisitata da Daniel Sol. Secondo questa ipotesi, la funzione adattativa principale di un cervello molto sviluppato è quella di consentire all’organismo di far fronte alle sfide ambientali, elaborando risposte comportamentali complesse e plastiche. Un grande cervello infatti “tampona” gli eventuali danni causati da repentine variazioni ambientali, consentendo all’organismo di reagire in modo flessibile e resiliente trovando nuove soluzioni adattative. Questa capacità, al prezzo di un maggior investimento energetico, aumenta il tasso di sopravvivenza e in generale la fitness dell’individuo. In effetti, la ricerca aveva confermato che le specie di avifauna con cervelli di taglia relativa più grande hanno popolazioni demograficamente più stabili e colonizzano più facilmente gli habitat variabili.

Due anni dopo, gli stessi ricercatori, Trevor Fristoe e Carlos Botero, hanno aggiunto un nuovo tassello al loro lavoro. In uno studio appena pubblicato su Nature Communications, hanno preso in considerazione un campione di 2062 specie di uccelli dalle dimensioni cerebrali note. Dalle analisi sulla distribuzione geografica delle diverse specie (escluse quelle migratrici), è risultato che le quelle residenti in habitat alle alte latitudini, soggetti a fluttuazioni ambientali come frequenti sbalzi di temperatura, improvvisi eventi meteorologici o cambiamenti nella disponibilità di cibo, esibiscono due strategie alternative di adattamento. La strategia più comune è coerente con l’ipotesi del buffer cognitivo: la flessibilità comportamentale conferita da un grande cervello permette di affrontare un ambiente caratterizzato da elevata variabilità. Tuttavia, la produzione di un organo così esteso, metabolicamente assai costoso, implica anche dei costi. Questi uccelli cerebralmente “superdotati” sono così costretti a seguire una dieta di alta qualità e producano una prole non numerosa, alla quale dedicano cure parentali durature e impegnative.

In alternativa, altre specie hanno evoluto la capacità di resistere alle condizioni ambientali estreme raggiungendo dimensioni corporee maggiori e investendo le proprie risorse energetiche nello sviluppo di un intestino (e non di un cervello) ampio e specializzato, grazie al quale possono sfruttare materiale vegetale fibroso altrimenti indigeribile, come gemme, aghi o ramoscelli. Inoltre, questi uccelli hanno alti tassi di riproduzione annuali, con scarse cure parentali, il che permette alle popolazioni di compensare l’alta mortalità causata da eventuali fenomeni ambientali estremi.

Il risultato delle due opposte strategie ecologiche è dunque una netta ripartizione bimodale nelle dimensioni cerebrali delle specie che occupano gli ambienti altamente variabili, senza vie di mezzo. Tale bimodalità nella taglia del cervello è presente soltanto nelle specie residenti, mentre è assente nelle specie migratorie tipiche degli stessi habitat le quali, al contrario, sono dotate di cervelli di taglia intermedia che non permettono di affrontare un ambiente variabile; quindi, incapaci di adattarsi, queste specie hanno evoluto il comportamento migratorio come strategia di evitamento.

L’investimento nella produzione del tessuto cerebrale dunque sembra essere l’ago della bilancia che determina la sopravvivenza negli ambienti mutevoli: uccelli con cervelli di dimensioni relative molto grandi e molto piccole sono ugualmente favoriti rispetto a quelli con dimensioni cerebrali intermedie. In altre parole, in condizioni variabili, il cervello degli uccelli ha una probabilità significativamente maggiore di essere relativamente grande o piccolo rispetto alla taglia corporea. Quindi, sorprendentemente, avere un cervello di grandi dimensioni non è sempre e solo l’unica via di successo, al contrario di quello che si potrebbe pensare. Da questo studio emerge infatti che negli uccelli la pressione selettiva data dalle oscillazioni ambientali può plasmare le strategie di adattamento in modi completamente opposti, guidando lo sviluppo del cervello parallelamente allo sviluppo di un altro organo, l’intestino, che forse non a caso è anche chiamato “il secondo cervello”.


Riferimenti: 
Fristoe, Trevor S., and Carlos A. Botero. Alternative ecological strategies lead to avian brain size bimodality in variable habitats. Nature Communications 10.1 (2019): 1-9.