Qual è il lavoro dell’antropologo? 21 racconti su scheletri, mummie e la scienza che li studia

l'antropologo

In “L’antropologo. Storie di scheletri e di mummie” Luigi Capasso descrive alcune delle esperienze più significative vissute in quarant’anni di ricerca

Titolo: L’antropologo. Storie di scheletri e di mummie Autori: Luigi Capasso

Illustrazioni:
Maria Chiara Capasso
Editore: Edizioni Mondo Nuovo Anno: 2021 Pag: 166 Seguiamo il racconto di Luigi Capasso, professore di Antropologia all’Università di Chieti-Pescara che, a partire dalla sua laurea in medicina nel 1980, si è dedicato allo studio dei resti di popolazioni e di singoli individui del passato, fossero essi resti scheletrici oppure mummie (sullo studio delle quali ha una specifica e profonda conoscenza). In un brillante piccolo libro dai contenuti importanti (L’antropologo. Storie di scheletri e di mummie. Edizioni Mondo Nuovo, 2021, 166 pp. Illustrazioni di Maria Chiara Capasso), Capasso ci offre il bilancio della sua attività nel corso di oltre 40 anni e descrive alcune delle esperienze più significative vissute durante le ricerche della sua attività professionale. Nell’immensa ricchezza del patrimonio culturale italiano c’è una categoria di beni culturali poco conosciuta al grande pubblico, ma non per questo meno importante per documentare la vita, il modo di essere e di pensare delle popolazioni e delle generazioni che ci hanno preceduto. Si tratta dei resti scheletrici umani che, da sempre, possono essere rinvenuti nel corso di scavi archeologici di insediamenti preistorici e storici (resti isolati, necropoli, abitati, chiese, cimiteri, etc.), ma anche i resti mummificati di personalità del passato, spesso conservate nella miriade di luoghi d’interesse culturale distribuiti in ogni angolo del nostro Paese. La valenza di questi resti, che rappresentano quello che resta della vita di persone esistite in un passato più o meno remoto sta nel fatto che questi reperti costituiscono un vero e proprio archivio della storia e della biologia delle popolazioni umane e, se accuratamente conservati e studiati, riescono a raccontare aspetti dello stile di vita e delle condizioni di salute delle generazioni che si sono succedute dalla preistoria fino a oggi. Attraverso questi si racconta la vita delle popolazioni umane preistoriche e storiche, che si snoda in parallelo, e si intreccia, con quella descritta dalle fonti più tradizionali e dai documenti archeologici, mentre rappresentano una testimonianza quasi unica per molti aspetti, specie nelle epoche per cui non abbiamo fonti storiche e, talvolta, nemmeno dati archeologici. Da qui la loro importanza come beni culturali e quindi la necessità di conservarli, proteggerli, studiarli e valorizzarli, naturalmente col rispetto dovuto alle vite degli individui che questi resti biologici rappresentano. Lo studio dei resti scheletrici umani è materia degli antropologi (talvolta anche etichettati come antropologi ‘fisici’, usando una denominazione ormai superata) che grazie alla loro formazione biologico-naturalistica sono, più di altri, in grado di interpretare al meglio le tracce registrate dalle loro ossa e dai loro denti. Ma in che cosa consiste il lavoro dell’antropologo? Ce lo racconta appunto l’autore nei 21 episodi descritti che coprono un lungo arco temporale, a partire dallo studio di reperti della preistoria più antica dell’evoluzione umana fino alla storia e ai giorni nostri. Sono episodi relativi, come dice il titolo, all’analisi di scheletri e mummie, ma si riferiscono anche a casi di antropologia forense, per i quali l’autore è stato consulente per le autorità giudiziarie. Si passa quindi dalla ricerca su uno scheletro di Australopiteco rinvenuto in Sudafrica e risalente a oltre 2 milioni di anni fa, che mostra sulle sue vertebre i segni di un’infezione batterica (brucellosi), causata probabilmente dal consumo della placenta di piccoli mammiferi, fino a casi forensi noti a tutti quali il riesame del corpo del banchiere Roberto Calvi, che consentì di stabilire che questo non si era affatto suicidato, come era stato invece ipotizzato in un primo momento.

C’è anche un frammento della ricerca condotta dall’autore sui 150 scheletri rinvenuti a Ercolano, testimoni inconsapevoli dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C., che riportano alla luce le vite e le vicende di tante persone – come quella di una giovane madre che portava ancora in grembo il proprio figlio/a – colte nei momenti appena precedenti il terribile evento che li seppellì tutti, consegnandoli allo studio e, vorrei dire, alle cure di archeologi e antropologi di venti secoli dopo. Buona parte di queste “storie” (come le chiama, giustamente, l’autore) sono relative a interventi di salvataggio di mummie – spesso appartenenti a figure religiose – santi, beati, ecc… – che si trovavano in condizioni di conservazione precarie all’interno di chiese o altri edifici del nostro Paese. Gli interventi di restauro e di conservazione messi in atto da Capasso e dai suoi collaboratori non si sono mai limitati soltanto a un lavoro tecnico, ma ciascuna occasione è stata anche l’opportunità di indagare particolari aspetti della anatomia o della patologia delle mummie e, quindi, di trovare elementi d’interesse per ricerche e pubblicazioni scientifiche. Come nel caso, per fare un esempio, del restauro e dello studio della mummia di Santa Rosa, conservata in un monastero a Viterbo, dove l’autore notò la mancanza dello sterno (osso mediano del torace) interpretata come risultato di una rara patologia (la sindrome di Cantrell): questa ricerca venne pubblicata sulla prestigiosa rivista medica inglese The Lancet. Ciascuno degli episodi non è solo la descrizione di interventi di restauro e ricerca: in ognuno di questi l’autore ci racconta anche il contesto nel quale si sono svolte le sue attività, le persone con le quali è entrato in contatto e anche aneddoti curiosi che gli sono capitati. Ne emerge un quadro dove le esperienze personali del ricercatore rendono più coinvolgente, direi intrigante, il lavoro dell’antropologo. Non è solo l’attività di uno scienziato che fa coscienziosamente il suo lavoro, ma anche quella di un essere umano che studia “quel che resta” di altri esseri umani e si interessa e apprezza anche ogni aspetto delle situazioni che sta vivendo. È un mestiere affascinante quello di noi antropologi, perché ci occupiamo dello studio delle vite di persone che ci hanno preceduto, con tutto il loro bagaglio di storie quotidiane di cui cerchiamo di ricostruire i dettagli. Nel far questo siamo consapevoli della necessità di avvicinarsi a questi resti con il rispetto dovuto alla vita che fu di altre persone: questa consapevolezza emerge in maniera molto forte dalle pagine del libro e in ciascuna storia raccontata da Luigi Capasso si percepisce come anche per lui ciò sia un aspetto importante, sia che abbia che fare con le mummie di santi o con i resti di una donna rimasta sepolta sotto le ceneri del Vesuvio. Per dei giovani studenti o neolaureati che cominciano ora ad appassionarsi agli studi di antropologia e di bioarcheologia dei resti umani la lettura del libro di Capasso rappresenta la testimonianza di una vita dedicata a questo, con la capacità di trasmettere l’entusiasmo e il rigore scientifico che hanno caratterizzato il lavoro dell’autore in tutti questi anni.