Quando i bradipi erano giganti

I bradipi hanno ripetutamente evoluto dimensioni corporee grandi e piccole in base alle loro abitudini terrestri/arboricole. In basso, Bradypus tridactylus; a sinistra, Hapalops elongatus; sullo sfondo, Megatherium americanum. Illustrazione di Diego Barletta.

Per decine di milioni di anni i bradipi si sono diversificati in una varietà di forme e dimensioni, adattandosi a diverse nicchie ecologiche. Poi è arrivato Homo sapiens. Una nuova ricerca pubblicata su Science racconta l’ascesa e la caduta di questo emblematico gruppo di mammiferi

Quando era in Argentina, Charles Darwin rimase affascinato dai resti di giganteschi bradipi terricoli estinti. Lo stesso continente ospitava (e ospita tutt’ora) altri bradipi, molto più piccoli, lenti e arboricoli: dovevano essere imparentati con quei giganti del passato, avrebbe ragionato Darwin, ma non potevano essere loro diretti discendenti.

Oggi sappiamo che all’interno del gruppo dei bradipi (sottordine Folivora) si sono evoluti oltre cento generi, estremamente diversificati per dimensioni e stili di vita. Poteva succedere solo in quel grande “esperimento naturale” che è il Sud America: circa 50 milioni di anni fa il continente si separò dall’Antartide e rimase completamente isolato fino a circa 3 milioni di anni fa, quando si formò l’istmo di Panama che oggi lo collega al Nord America.

Per decine di milioni di anni la sua biodiversità poté evolversi in uno “splendido isolamento”, come lo chiamava il paleontologo George Gaylord Simpson, portando alla nascita di forme bizzarre e affascinanti: grandi uccelli e marsupiali predatori, armadilli grandi come automobili, roditori colossali – e appunto bradipi giganti.

Ma ancora non sappiamo di preciso quali forze evolutive abbiano plasmato nel tempo l’incredibile disparità nelle taglie corporee dei bradipi (dai chilogrammi alle tonnellate), né come mai siano stati tutti spazzati via eccetto i due generi di lentissimi arrampicatori che tutti conosciamo.

Una nuova ricerca, appena pubblicata su Science, aiuta a restringere il campo delle ipotesi. I ricercatori hanno combinato gli alberi evolutivi dei bradipi con informazioni sul loro peso corporeo e caratteristiche ecologiche per mappare la loro storia evolutiva.

Molti modi di essere un bradipo

L’evoluzione dei bradipi è cominciata circa 35 milioni di anni fa. I primi erano di taglia “media”, tra i 70 e i 350 kg, e di abitudini terricole. Poi hanno cominciato a cambiare. Si sono adattati a una grande varietà di ambienti e nicchie ecologiche diverse: alcuni sono rimasti terrestri, altri sono passati a un’esistenza semi-arboricola o completamente arboricola. E proprio a ciascuna di queste categorie corrisponde, secondo lo studio, un diverso “ottimo adattativo” nella dimensione corporea.

Teschi di specie di bradipi viventi ed estinti mostrano le notevoli differenze nelle dimensioni corporee.
In basso a sinistra: Bradypus variegatus (vivente, Bolivia);
in basso a destra: Proscelidodon patrius (Pliocene, Argentina);
in alto a sinistra: Megatherium americanum (Pleistocene, Argentina);
in alto a destra: Lestodon armatus (Pleistocene, Argentina).
Tutti gli esemplari sono conservati presso il Museo Argentino de Ciencias Naturales “Bernardino Rivadavia”, Buenos Aires, Argentina. Foto di Alberto Boscaini
I crani di specie di bradipi viventi ed estinti mostrano le notevoli differenze nelle dimensioni corporee.
In basso a sinistra: Bradypus variegatus (vivente, Bolivia); in basso a destra: Proscelidodon patrius (Pliocene, Argentina); in alto a sinistra: Megatherium americanum (Pleistocene, Argentina); in alto a destra: Lestodon armatus (Pleistocene, Argentina). Tutti gli esemplari sono conservati presso il Museo Argentino de Ciencias Naturales “Bernardino Rivadavia”, Buenos Aires, Argentina. Foto di Alberto Boscaini

Abbiamo osservato che esistono almeno tre strategie evolutive ricorrenti, associate a tre stili di vita: terrestre, semiarboricolo e arboricolo. I bradipi sono riusciti più volte a evolvere le dimensioni corporee in accordo con queste nicchie ecologiche,” spiega Alberto Boscaini, paleontologo di origini italiane oggi ricercatore all’Universidad de Buenos Aires e primo autore dello studio.

Il gigantismo, per esempio, non è comparso una sola volta, ma si è evoluto in modo indipendente in diversi rami dell’albero genealogico dei bradipi.

I bradipi iconici del Pleistocene, come Megatherium, non sono un’eccezione isolata. Il gigantismo è emerso più volte durante l’evoluzione del gruppo, anche come risposta a grandi cambiamenti climatici, come la progressiva diminuzione delle temperature nel Cenozoico,” aggiunge il ricercatore.

Al contrario, nei periodi più miti e umidi, quando le foreste tropicali coprivano gran parte del Sud America, i bradipi arboricoli si sono rimpiccioliti per adattarsi alla vita tra i rami.

Durante il Miocene medio, circa 16-17 milioni di anni fa, le foreste tropicali si estendevano fino alla Terra del Fuoco. In quelle condizioni, prosperavano bradipi arboricoli e semi-arboricoli, che riducevano le dimensioni per adattarsi a queste nuove nicchie,” racconta Boscaini.

Dai dati è emerso anche che i cambiamenti di dimensioni si sono verificati in modo asimmetrico: i bradipi terrestri si sono evoluti lentamente, mentre le forme arboricole, come gli attuali bradipi tridattili e didattili, si sono rimpiccioliti rapidamente.

Megatherium americanum 2

Una resilienza lunga 35 milioni di anni… finché non siamo arrivati noi

Per milioni di anni, i bradipi hanno resistito a tutto: oscillazioni climatiche estreme, transizioni ecologiche profonde, trasformazioni radicali del paesaggio sudamericano.

Questa capacità adattativa la osserviamo lungo tutta la loro storia evolutiva,” racconta Boscaini, “funziona per 35 milioni di anni, fino all’ultimo minuto, potremmo dire, della loro esistenza.

Poi arriva la transizione Pleistocene–Olocene, circa 12.000 anni fa: Homo sapiens entra nel continente americano. Nel giro di pochi millenni, avviene un crollo improvviso.

Prima si estinguono tutti i bradipi terrestri continentali. Poco dopo scompaiono anche quelli semi-terrestri delle isole dei Caraibi,” spiega il paleontologo.

Il tempismo è troppo preciso per essere ignorato: la cronologia dell’estinzione coincide con l’espansione della nostra specie – prima nelle Americhe, poi nelle isole.

Questo ci porta a concludere che l’uomo abbia avuto un ruolo preponderante nell’estinzione di questi animali,” afferma Boscaini. “Non escludiamo che anche cambiamenti climatici abbiano contribuito, ma vale la pena ricordare che durante il Pleistocene, cioè nel pieno delle dinamiche glaciali e interglaciali, i bradipi mostrano il loro massimo picco evolutivo in termini di diversità e disparità morfologica.

In altre parole: il clima variava anche prima, ma mai aveva fatto crollare l’intero gruppo. La scomparsa della megafauna – e dei bradipi giganti in particolare – coincide invece con l’arrivo dell’uomo.

Tutto ci porta a dedurre che Homo sapiens sia stato il fattore determinante nella quasi totale estinzione del gruppo,” conclude Boscaini.

Un lavoro cominciato tra gli scaffali dei musei

Tra il 2015 e il 2019, durante il mio dottorato, ho avuto l’opportunità di visitare collezioni museali in tre continenti — Sud America, Nord America ed Europa — e misurare direttamente le ossa di centinaia di bradipi fossili” racconta Alberto Boscaini.

A queste misurazioni si sono aggiunti, durante gli anni successivi, i dati condivisi da altri ricercatori. Il risultato è un corpus di oltre 400 esemplari misurati, che rappresenta il più ampio dataset morfometrico mai raccolto per il gruppo. L’attenzione si è concentrata sulle ossa lunghe — in particolare omero e femore — che permettono di stimare con maggiore accuratezza la massa corporea. I valori ottenuti sono stati mediati, integrati con le stime disponibili in letteratura e attribuiti a livello di genere, per un totale di 49 generi attuali ed estinti inclusi nell’analisi.

Una volta ricostruite le dimensioni, i ricercatori hanno creato tre scenari filogenetici alternativi: uno basato esclusivamente sulla morfologia; uno morfologico ma vincolato ai dati molecolari pubblicati a partire dal 2019 (DNA mitocondriale e proteine del collagene); e un terzo, detto total evidence, che integra morfologia, genetica, biochimica e cronologia dei fossili.

albero
Evoluzione delle dimensioni corporee dei bradipi secondo l’albero filogenetico total evidence. L’albero è stato ridotto ai taxa per cui sono disponibili dati sulla massa corporea, le età dei rami e dei nodi indicano l’origine delle linee evolutive. I grafici a torta, proporzionali alla massa corporea, sono mostrati sui rami e nei nodi, con colori che indicano le preferenze di habitat. Le tonalità di grigio sui rami rappresentano la velocità dell’evoluzione della massa corporea. Abbreviazioni: Eo = Eocene; Ple = Pleistocene; Pli = Pliocene. Immagine: dalla pubblicazione

L’aspetto più solido emerso dallo studio è che i risultati non cambiano in base all’albero evolutivo scelto: le tendenze nei cambiamenti di taglia restano coerenti. Per interpretarle, gli autori hanno testato oltre trenta modelli evolutivi che hanno permesso di testare una varietà di possibili scenari: dagli adattamenti legati a dieta, locomozione e habitat all’impatto del Grande Intercambio Biotico Americano, ovvero l’arrivo dei grandi carnivori nordamericani (orsi, felidi, canidi) in Sud America tre milioni di anni fa attraverso l’istmo di Panama. In questo caso l’ipotesi era che questo evento potesse aver favorito l’aumento delle taglie come risposta difensiva ai nuovi predatori. Ma i dati hanno sempre raccontato la stessa storia: sono lo stile di vita e il tipo di habitat occupato a spiegare meglio l’evoluzione della dimensione corporea.

Il modello che meglio si adatta ai dati è un modello di tipo Ornstein-Uhlenbeck, che prevede la presenza di più ottimi adattativi: taglie corporee ideali verso cui convergono i diversi lignaggi a seconda che vivano a terra, sugli alberi, o in ambienti misti.

L’intuizione di Simpson, verificata con i dati

Per Boscaini, questo studio non è solo un esercizio di ricostruzione storica: è anche la realizzazione concreta di una visione scientifica nata quasi un secolo fa.

George Gaylord Simpson non si è limitato a raccontare l’evoluzione dei mammiferi sudamericani: è stato tra i primi a proporre modelli teorici per spiegare come avvengano i cambiamenti evolutivi, anticipando concetti che oggi possiamo testare con strumenti quantitativi.

Il concetto di paesaggio adattativo, con i suoi picchi evolutivi legati a specifici tratti — come la dimensione corporea o lo stile di vita — nasce infatti nelle sue opere, così come la nozione di quantum evolution, precorritrice degli equilibri punteggiati.

Con questo studio, abbiamo potuto mettere alla prova quelle intuizioni su larga scala: oggi possiamo verificare, con dati e statistiche, che l’evoluzione si muove davvero in direzione di più ottimi adattativi, e che il contesto ambientale può farli emergere o scomparire.

Riferimenti:

Boscaini, A., Casali, D. M., Toledo, N., Cantalapiedra, J. L., Bargo, M. S., De Iuliis, G., Gaudin, T. J., Langer, M. C., Narducci, R., Pujos, F., Soto, E. M., Vizcaíno, S. F., & Soto, I. M. (2025). The emergence and demise of giant sloths. Science, 387(6738), 864–870. https://doi.org/10.1126/science.adu0704

Immagine in apertura: I bradipi hanno ripetutamente evoluto dimensioni corporee grandi e piccole in base alle loro abitudini terrestri/arboricole. In basso, Bradypus tridactylus; a sinistra, Hapalops elongatus; sullo sfondo, Megatherium americanum. Illustrazione di Diego Barletta.