Zoologia, scienza e arte, materie STEM ed ecotossicologia: intervista alla prof.ssa Elvira Brunelli

You me we can

Elvira Brunelli è prof.ssa ordinaria di zoologia presso l’Università della Calabria e si occupa dello studio di organi e tessuti di diverse specie di vertebrati e invertebrati. L’intervista per la rubrica “L’evoluzione non ha genere” ha evidenziato l’importanza del ruolo degli zoologi nella società contemporanea, ha trattato il connubio tra arte e scienza, le materie STEM e l’eco-tossicologia

La prof.ssa Elvira Brunelli è ordinaria di zoologia presso il Dipartimento di Biologia, Ecologia e Scienze della Terra (DiBEST) dell’Università della Calabria. L’ho incontrata a Rende, nel marzo scorso, in occasione del Festival Pensa Tu, il festival della scienza e della curiosità. La prof.ssa Brunelli ha risposto alle nostre domande, ha parlato del Laboratorio di Zoomorfologia ed Ecotossicologia Animale che dirige, dove si studiano gli aspetti morfologici e funzionali di tessuti animali, anche con ricadute applicative in settori quali la zoologia e l’eco-tossicologia. Per i più curiosi, è anche possibile seguire le ricerche e gli eventi del laboratorio su Instagram.

Professoressa, cominciamo dal lavoro del suo laboratorio. Che cos’è l’eco-tossicologia?

L’eco-tossicologia, un campo relativamente nuovo nell’ambito delle scienze biologiche, studia gli effetti degli inquinanti fisici, chimici e biologici sugli organismi viventi e le ricadute a livello di popolazioni e comunità. Gli strumenti principali di cui dispone sono test di vario tipo, che possono essere effettuati su un’ampia varietà di organismi e che prendono in considerazione parametri da misurare diversi. 

Poiché gli organismi rispondono agli inquinanti principalmente attraverso alterazioni biochimiche, fisiologiche e comportamentali, le analisi eco-tossicologiche possono essere mirate alla valutazione dei danni indotti a diversi livelli dell’organizzazione biologica (in funzione dell’obiettivo che si vuole raggiungere).

Concentriamoci sull’ambiente acquatico: ci sono organismi che si prestano ad essere indicatori di qualità dell’acqua, come delle “sentinelle ambientali”?

L’impiego di bioindicatori è ritenuto un metodo efficace nel segnalare situazioni a rischio in fase iniziale. Queste analisi di tipo biologico sono molto efficienti nel prevedere effetti senza dover eseguire determinazioni di tipo chimico e nel fornire previsioni su singoli e/o molteplici inquinanti. Tenendo conto del benessere animale, preferiamo utilizzare un modello animale invece di organismi prelevati in natura.
L’utilizzo di un modello animale implica che le informazioni ottenute siano esportabili in un contesto più ampio, partendo dall’assunto che le somiglianze tra specie diverse forniscano informazioni adatte anche ad altri gruppi.
Nei test di eco-tossicità si usano diverse specie di vertebrati non mammiferi, in particolare pesci e anfibi. Infatti, le tecniche di biologia molecolare ci hanno dimostrato che gli eventi cellulari alla base dei fenomeni di tossicità sono molto simili nei diversi gruppi animali. È ragionevole quindi utilizzare questi animali come surrogato anche per gli esseri umani, quando si esaminano i processi di base nella risposta patologica.

Se la similarità tra specie risulta fondamentale, la scelta di un modello animale implica la profonda conoscenza della sua biologia. I modelli, infatti, dovrebbero essere altamente specifici in base al tipo studio: esistono modelli adatti per studi su patologie oncologiche, malattie cardiache, diabete o malattie neurologiche e così via.

Un suo recente lavoro del 2023 mostra che il piombo, a dosi molto basse ma rilevanti dal punto di vista ambientale, causa danni morfologici e funzionali al fegato del modello animale di laboratorio Danio rerio. Quali caratteristiche mostra questo modello animale?

I pesci sono senza dubbio uno degli organismi sentinella più importanti nel biomonitoraggio, per la loro rilevanza ecologica ed economica e la loro somiglianza con vertebrati di ordine superiore.

Danio rerio (comunemente chiamato zebrafish o pesce zebra), un pesce tropicale d’acqua dolce, appartenente alla famiglia dei Ciprinidi, rappresenta una specie sempre più utilizzata in ambito eco-tossicologico per le sue caratteristiche biologiche. Alcune caratteristiche che rendono zebrafish un ottimo modello sono: le ridotte dimensioni dell’animale adulto (circa 3 cm di lunghezza); l’economicità dell’allevamento; il ciclo di vita breve; la fecondazione esterna, che permette di seguire agevolmente tutti gli stadi del loro rapido sviluppo embrionale; il programma di sviluppo conservato con varie specie. Infatti, sebbene il genoma del pesce zebra sia circa la metà di quello umano e la distanza evolutiva tra noi e loro sia di 420 milioni di anni, il modello consente di fare da ponte tra quelli di invertebrati (per esempio, Drosophila melanogaster) e i vertebrati complessi come topo e uomo.

Il Regolamento sull’uso sostenibile dei pesticidi (Sur) è stato presentato per la prima volta a giugno 2022. Il progetto prevedeva di dimezzare l’uso dei pesticidi nell’Unione Europea entro il 2030. Il Surrientrava nella strategia Farm to Fork, pilastro del Green Deal, il piano europeo di contrasto alla crisi climatica che mira a creare un’agricoltura più sostenibile e a ripristinare la biodiversità. Quanto è serio il problema dell’alterazione degli ecosistemi a causa dei pesticidi?

Grazie alla loro efficacia nel migliorare la produzione alimentare globale, i pesticidi vengono utilizzati in agricoltura da oltre un secolo. I maggiori utilizzatori di pesticidi al mondo sono Cina, Stati Uniti d’America e Argentina. Tuttavia, nonostante la loro efficienza nell’aumentare la produzione alimentare, i prodotti agrochimici sono riconosciuti come inquinanti prioritari a causa della loro distribuzione pervasiva e persistente in tutti i comparti ambientali.

Lavorando molto sugli effetti dei pesticidi sulla fauna, ho avuto modo di comprendere quali sono gli ostacoli ad una reale risoluzione di questo problema. Innanzitutto, i pesticidi vengono immessi sul mercato sulla base di studi preliminari che sono rappresentati da test chimici e test eco-tossicologici. I rapporti tecnici elaborati dalle autorità e dalle organizzazioni intergovernative (OCSE, EFSA ed EPA) forniscono informazioni disponibili sul pericolo chimico, sulla base di procedure standardizzate e specie modello in conformità con le linee guida sui test. Tuttavia, data la complessità delle risposte biologiche, l’elenco degli effetti indotti resta fortemente indicativo e necessita di essere più esaustivo da un punto di vista scientifico. Pertanto, i nuovi pesticidi vengono immessi sul mercato e solo in seguito se ne può valutare l’effettiva pericolosità.

Quali sono, a suo avviso, i principali target ecosistemici su cui agire prontamente?

L’Europa non è il mondo. Mi spiego meglio: quando una sostanza viene ritirata dal mercato in Europa, ciò non avviene a livello globale e molti Stati continuano a commercializzarlo. Pertanto, frutta e verdura importati possono presentare residui di pesticidi, anche se questi sono stati ritirati da anni dal mercato italiano ed europeo. 

Ovviamente, quando un pesticida viene ritirato, nuove molecole vengono immesse sul mercato con lo stesso meccanismo che ho descritto. 

La soluzione, quindi, non è semplice e l’intervento può essere solo di tipo politico, con provvedimenti legislativi condivisi e strategie comuni.

Abbiamo bisogno di un altro “Primavera silenziosa”?

Certamente il saggio di Rachel Carson nel 1962 ha rappresentato una pietra miliare della cultura ambientalista. Oggi potremmo pensare ad altre forme di comunicazione forse altrettanto incisive, ma sicuramente l’informazione rimane l’unico strumento possibile per incidere sui decisori politici.

In un suo intervento al primo Congresso Nazionale Congiunto SItE (Società italiana di Ecologia) – UZI(Unione Zoologica Italiana) – SIB (Società italiana di Biochimica e Biologia Molecolare) nel 2016, lei faceva un accorato appello all’UZI e alla zoologia in generale. Esso derivava da una profonda sull’appiattimento della zoologia focalizzata sugli aspetti molecolari, a scapito delle discipline “classiche” che hanno fondato la materia. L’Unione Zoologica è ancora un riferimento per tutti gli studiosi del settore?

Io ritengo che l’Unione Zoologica Italiana sia e debba rimanere il riferimento per tutti gli studiosi del settore. Nel 2016 volevo mostrare il mio disappunto e lo scoramento di fronte al prevalere di posizioni politiche all’interno dell’UZI che intendevano “ridefinire” la zoologia, obliterando completamente alcuni approcci di indagine caratteristici di questa scienza. Il tentativo di restringere l’ambito di ricerca della disciplina non poteva fare altro che impoverire la figura dello zoologo, escludendo coloro che si interessavano di tematiche zoologiche non strettamente faunistiche o tassonomiche.

Secondo lei, l’ambito della zoologia italiana è stato impoverito, sia in termini culturali che di risorse, da quando lei era una dottoranda?

Soprattutto a partire dal 2018, con l’insediarsi di un nuovo direttivo, si sono fatti dei passi in avanti: alcuni componenti avevano ben chiaro cosa significasse essere zoologi e, quindi, interpretavano a pieno la trasversalità di questa disciplina. Mi riferisco, per esempio, alla crescente attenzione verso la sperimentazione e il benessere animale, aspetti che non avevano in precedenza trovato adeguato spazio nei congressi annuali dell’UZI.

Possiamo, quindi, dire che l’Unione Zoologica Italiana sia diventata più inclusiva dal punto di vista disciplinare?

Sì, a mio parere le attività della società degli ultimi anni sono maggiormente inclusive nei confronti di tematiche che in passato venivano sistematicamente escluse: per esempio, gli approcci morfologici; eco-tossicologici; funzionali. Tuttavia, esistono ancora fasce di resistenza che compromettono lo sviluppo del ruolo dello zoologo.

E la nuova generazione di zoologi e zoologhe?

Qualora non si arrivi ad una chiara risoluzione della problematica menzionata in precedenza, andando oltre una sterile ortodossia zoologica, i giovani si troverebbero di fronte ad una dicotomia culturale tra una realtà sociale e lavorativa che ha bisogno delle conoscenze dello zoologo, e le vuole potere applicare nell’ampio e attualissimo contesto della salvaguardia ambientale e dello sviluppo sostenibile, ed una comunità scientifica di riferimento che misconosce la valenza zoologica di questo tipo di ricerche. E questo inciderebbe negativamente sul futuro dei nostri giovani.

Passiamo adesso ad un altro argomento. Scienza e arte spesso si incontrano e veicolano messaggi in cui l’apparente suddivisione tra sapere scientifico e sapere artistico-letterario viene meno. Lei è stata promotrice e coordinatrice presso l’università di un affollato evento di alto valore culturale e scientifico su “Le produzioni audiovisive – tutela del mare – sostenibilità ambientale“ promosso dal DiBEST in stretta collaborazione con Filmare Festival. Quest’ultimo racconta ed interpreta il mare e la tutela dell’ambiente con tutte le tematiche ad essi correlate. Cosa pensa del connubio tra arti ed enti scientifici per promuovere e valorizzare le identità territoriali e consolidare la cultura del mare e dell’ambiente?

Primo Levi diceva che la separazione tra arte e scienza è una «schisi innaturale» ed io non posso che concordare. Ritengo che l’arte e la scienza siano entrambe espressioni della capacità dell’uomo di formulare un pensiero astratto e di elaborare una rappresentazione complessa del mondo.

L’arte è da sempre uno degli strumenti principali scelti dall’uomo per interpretare la realtà e per comunicare. Si pensi ai graffiti di Altamira, risalenti al Paleolitico superiore (circa 40.000 anni fa, NdA). È importante, quindi, tenere nella dovuta considerazione tanto l’arte quanto la scienza, soprattutto se vogliamo parlare di comunicazione pubblica. Una comunicazione che ha assunto un ruolo decisivo sia per lo sviluppo della conoscenza scientifica, sia per lo sviluppo sociale.

Oggi siamo in quella che viene definita “era post-accademica”: se in passato le decisioni riguardo lo sviluppo della scienza venivano prese pressoché esclusivamente all’interno delle comunità scientifiche, oggi tali decisioni vengono prese in compartecipazione tra gli scienziati e un pubblico di non esperti. Noi tutti, in un modo o nell’altro, siamo chiamati ad assumere decisioni rilevanti sui temi scientifici più svariati: dalle cellule staminali alla clonazione, dal cambiamento climatico all’inquinamento. Siamo passati da un mondo in cui scienza e società erano di fatto separati, a un mondo in cui scienza e società sono fortemente interconnessi.

Se prima, per lo sviluppo della scienza, la comunicazione rilevante era solo quella tra scienziati, oggi non è più così. La comunicazione della scienza coinvolge tutti i cittadini. In questo quadro, il problema della comunicazione pubblica della scienza cambia fortemente.

Qual è la reazione della cittadinanza a Filmare?

L’arte diventa uno dei canali principali attraverso cui si diffondono le «scientifiche speculazioni» per dirla con Galileo Galilei.

Ho avuto modo di constatare, in occasione di Filmare, che oggi l’arte, nelle sue più svariate forme, può rappresentare uno strumento potente per veicolare in maniera efficace concetti complessi. Un cortometraggio, ad esempio, rappresenta una modalità comunicativa capace di raggiungere un pubblico molto vasto, comprese le nuove generazioni. Queste forme di comunicazione non solo sono in grado di portare con sé un’informazione scientifica o sociale ma hanno la capacità di evocare una risposta emozionale che ne facilita l’interiorizzazione.

Filmare è riuscito a parlare del mare e a raccontarlo in tutte le sue sfaccettature culturali, sociali e ambientali. La partecipazione ha superato le aspettative ed i dibattiti sono diventati l’occasione di un parlare concreto e vicino a tutti i presenti, grazie alla condivisione di una suggestione artistica.

Io ritengo che utilizzare l’arte per coinvolgere i cittadini e renderli partecipi delle problematiche scientifiche sia uno strumento da valorizzare e “sfruttare” al meglio. Infatti, la risposta del pubblico è sempre positiva quando la cultura diventa accessibile e quando gli strumenti propri di tutte le forme di arte diventano strumento di democrazia.

Nei contesti di produzione del sapere le disuguaglianze di genere continuano a essere presenti. Una delle violenze alle quali assistiamo più frequentemente è in realtà difficile da riconoscere e viaggia sottotraccia. Si tratta della violenza simbolica, presente anche in campo scientifico e capace di manifestarsi nelle forme più disparate, come quella di innocui stereotipi” (Edvige Pezzulli, “Quando la violenza di genere è anche simbolica”). Parlare del tema con studentesse e studenti è fondamentale, ma come agire con gli adulti per sradicare gli stereotipi che ancora vorrebbero le ragazze poco portate verso le materie scientifiche e che bloccano sul nascere i loro talenti?

Purtroppo, questo rimane il problema di più difficile soluzione. Non è solo lo stereotipo che vuole le ragazze meno inclini verso le materie STEM ma anche il radicato concetto che le discipline scientifiche aprano le porte a professioni considerate non adatte a ragazze che “dovranno” ricoprire il duplice ruolo di professioniste e mogli/madri.

Pensiamo alla pandemia causata dal virus Sars-CoV-2: il contributo femminile nei vari campi della medicina, della biologia e in generale della scienza legata al virus sono stati fondamentali, nonostante siano state più spesso le donne a risentire del carico di lavoro familiare. Infatti, un gran numero di loro ha dovuto ridurre le proprie ore di lavoro o addirittura lasciarlo durante e dopo la pandemia.

Oggi le donne che lavorano nella ricerca scientifica sono ancora in numero inferiore rispetto agli uomini e raggiungono più raramente un elevato livello di responsabilità. Questi dati sottolineano come la diminuzione del gap di genere sia ancora legata soprattutto a fattori culturali, non sempre facili da eradicare. Sebbene, almeno in Europa, il numero delle donne nella scienza sia in crescita, esse sono ancora considerate delle ottime sodali, ma non dei leader.

E quindi da dove iniziare?

Il lavoro per portare alla diminuzione e, possibilmente, all’azzeramento di questo dislivello non può che iniziare nelle scuole, perché gli adulti sono poco inclini ad accettare un cambiamento che può sembrare radicale e che viene percepito come pericoloso per il benessere e la realizzazione delle ragazze-figlie. Per questo motivo le iniziative volte alla rappresentazione delle donne scienziate e al coinvolgimento di bambine e ragazze nell’immaginare una carriera nella scienza sono sempre di più. Il mese di febbraio è tradizionalmente dedicato a questo scopo: ogni anno organizziamo numerose iniziative per coinvolgere le studentesse della scuola secondaria di secondo grado, le quali saranno chiamate a scegliere il proprio percorso universitario. 

Io sono però convinta che, se vogliamo incidere maggiormente sull’orientamento delle giovani verso le discipline STEM, il percorso dovrebbe iniziare precocemente e gli interventi dovrebbero essere indirizzati alla scuola primaria, possibilmente con un coinvolgimento dei genitori.

Per approfondimenti:

  • Macirella, R.; Curcio, V.; Ahmed, A.I.M.; Talarico, F.; Sesti, S.; Paravani, E.; Odetti, L.; Mezzasalma, M.; Brunelli, E. Morphological and Functional Alterations in Zebrafish (Danio rerio) Liver after Exposure to Two Ecologically Relevant Concentrations of Lead. Fishes 2023, 8, 342. https://doi.org/10.3390/fishes8070342
  • Ilaria Bernabò, Antonello Guardia, Rachele Macirella, Settimio Sesti, Sandro Tripepi, Elvira Brunelli Tissues injury and pathological changes in Hyla intermedia juveniles after chronic larval exposure to tebuconazole. Ecotoxicology and Environmental Safety, Volume 205, 2020 https://doi.org/10.1016/j.ecoenv.2020.111367
  • Profilo ORCID con le pubblicazioni di Elvira Brunelli