Alessandro Manzoni? Era un botanico!
Leggendo “I promessi sposi” ci si imbatte in un brano molto particolare, opera di un grande scrittore certo, ma anche di un vero e proprio botanico!
Le radici del talento botanico di Manzoni
Prima di leggerlo, vediamo alcune notizie biografiche di Manzoni. Alla morte di Carlo Imbonati, secondo marito di Giulia Beccaria, madre di Alessandro Manzoni, tutti i suoi averi passarono alla moglie. Anche la Villa di Brusuglio, alle porte di Milano, che fu ristrutturata e assunse così le forme che tutt’oggi conserva, in stile francese; la villa era immersa in una grande tenuta. E proprio in quella tenuta il Manzoni aveva progettato un parco che ospitava in prevalenza alberi ad alto fusto (querce, castagni, noci, facci…), ma anche piante innovative per l’epoca, come l’ortensia. Piantò anche le robinie, piante originarie dell’America ma diffuse da tempo in Europa, e promosse il loro uso in Lombardia contro le frane e proteggere le rive (non poteva sapere che la pianta sarebbe diventata invasiva….) Il Manzoni, inoltre, aveva allestito un frutteto con centinaia di alberi di mele, pere, albicocche, ciliegie e prugne. Molto ben organizzato e ambizioso era anche il vigneto, dove crescevano viti pregiate. Lo scrittore fu anche uno sperimentatore di coltivazioni esotiche, come il cotone ed il caffè ma con scarsi risultati. Nel vasto parco di Brusuglio, esisteva anche una risaia a fini domestici: le piantine venivano acquistate dal Manzoni in persona a Pavia. Ma il vero core business delle produzioni fu l’allevamento dei bachi da seta, che seguiva con il figlio Filippo, il terzo avuto da Enrichetta Blondel. Per il nutrimento dei bachi aveva impiantato nella tenuta molti alberi di gelso, una specie bellissima, il mitico “murôn”, come lo chiamavano i contadini lombardi in omaggio a Ludovico il Moro. Nelle annate buone la rendita era notevole e consentiva anche buoni accumuli di denaro, ricchezza che certo non gli dava la letteratura. Ma c’è ancora una curiosità sul nostro Don Lisander … aveva scritto un trattato di botanica! Saggio d’una nomenclatura botanica è il titolo attribuito dallo studioso Domenico Bassi e ripreso dal primo editore, Ghisalberti, ai materiali che Manzoni scrisse per un saggio rimasto incompiuto. Scopo dello scritto era, nientemeno, proporre una riforma della nomenclatura botanica che superi il binomio linneano fondato sulla sequenza nome del genere e nome della specie! Riteneva infatti che il sistema binomiale fosse sì comune agli studiosi, ma non universalmente diffuso, e propose l’adozione di un singolo nome proprio. Ma perché Manzoni contestava il lavoro enorme fatto dal mitico Linneo? Provate, come ho fatto io, a risalire dai nomi comuni che aveva utilizzato, al nome scientifico, non è stata una passeggiata!
Nella vigna di Renzo
Ed ecco il testo dove ho sottolineato le specie che prenderò in considerazione: La vigna di Renzo, agosto 1630 (attenti al mese e alla data)
E andando, passò davanti alla sua vigna; e già dal di fuori poté subito argomentare in che stato la fosse. Una vetticciola, una fronda d’albero di quelli che ci aveva lasciati, non si vedeva passare il muro; se qualcosa si vedeva, era tutta roba venuta in sua assenza. S’affacciò all’apertura (del cancello non c’eran più neppure i gangheri); diede un’occhiata in giro: povera vigna! Per due inverni di seguito, la gente del paese era andata a far legna – nel luogo di quel poverino -, come dicevano. Viti, gelsi, frutti d’ogni sorte, tutto era stato strappato alla peggio, o tagliato al piede. Si vedevano però ancora i vestigi dell’antica coltura: giovani tralci, in righe spezzate, ma che pure segnavano la traccia de’ filari desolati; qua e là, rimessiticci o getti di gelsi, di fichi, di peschi, di ciliegi, di susini; ma anche questo si vedeva sparso, soffogato, in mezzo a una nuova, varia e fitta generazione, nata e cresciuta senza l’aiuto della man dell’uomo. Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.
Dal nome comune a al nome scientifico
Iniziamo con l’acetosella o Oxalis acetosella è una specie di piccole dimensioni, con le foglie simili al trifoglio, ma molto graziosa che annuncia l’arrivo della primavera. Il nome comune della pianta (acetosella) deriva dal sapore acidulo e aspro delle foglie usate anticamente come condimento per le insalate e che ricorda appunto l’aceto. Vi confesso che io l’ho assaggiata, è buona.
La radicchiella o Crepis foetida, si tratta di una specie erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle Asteracee, con brutti fiori gialli che emana un cattivo odore, caratteristica già implicita nel nome, Linneo la chiamò fetida!
La panicastrella o Echinochloa crus-galli è una graminacea che può arrivare fino al metro e mezzo di altezza, con il culmo robusto liscio, piegato a ginocchio vicino alla base, poi eretto. Diciamocelo questa è proprio una brutta pianta infestante. Certo che all’epoca senza erbicidi nei campi cresceva un po’ di tutto, e il Manzoni era un esperto di erbe infestanti.
Ed ora arriviamo al top delle erbacce … la zizzania!
Sto parlando del loglio, Lolium temulentum. Si tratta una specie botanica annua che cresce spontanea e infestante fra le messi, con fiori a spiga rossa; ha cariossidi simili a quelle del frumento, ma che possono essere talvolta velenose. La pericolosità di questa pianta infestante è ben nota fin dai tempi antichi, soprattutto per l’alto potere intossicante. Infatti, il termine temulentum (ubriacante) è riferito agli effetti derivanti dall’ingestione di farine contaminate da funghi che crescono sulla pianta, ma di quale fungo si tratta?
È lui il terribile Claviceps purpurea, un fungo ascomicete fitopatogeno, che attacca una vasta gamma di piante appartenenti alla famiglia delle Graminacee, molte delle quali economicamente importanti come grano, segale, avena e orzo. È nota da secoli la segale cornuta, dove i conetti neri inseriti sulla spiga, i famosi corni, sono i corpi fruttiferi del fungo stesso contenenti diversi alcaloidi velenosi o psicoattivi del gruppo delle ergotine, tra cui l’acido lisergico, potentissimo allucinogeno.
Si è addirittura pensato che alcuni casi psicosi collettiva, con allucinazioni e successiva visione di streghe e demoni, seguiti da processi inquisitori e sentenze di morte, siano stati causati da ingestione di farine contenente il Claviceps! Ricordate le Streghe di Salem? Ma le cose non sono così semplici.
Inoltre il loglio è protagonista della “Parabola del grano e la zizzania”, nel vangelo secondo Matteo (capitolo 13 versetti da 24 a 30), a cui vi rimando. Da questa parabola deriva il noto modo di dire “Seminare zizzania”, cioè disseminare di elementi conflittuali e critici un determinato scenario relazionale rimanendo nell’ombra.
Da essa deriva anche il detto “Separare il grano dal loglio”, ossia separare le parti di qualità da quelle dannose tra esse nascoste. Dante cita la malapianta almeno in due occasioni: Purgatorio II, 124 e Paradiso XII, 119. L’influenza della parabola nella storia della cultura letteraria e popolare è complessivamente enorme.
Ed ora uno dei miei arbusti autunnali preferiti … l’uva turca!
Il binomio linneiano Phytolacca americana ci dice già molto, si tratta di una pianta nativa del Nord America; tutte le parti della pianta risultano tossiche per l’uomo e gli animali domestici.
In Italia è stata coltivata a partire dal 1642 in Veneto, presso l’Orto Botanico di Padova, è segnalata come spontaneizzata in Piemonte solo alla fine del XVIII secolo.
E qui caro Don Lisander ti ho beccato! Come poteva trovarsi nella vigna di Renzo, nel 1630, l’uva turca che arrivò in Italia dopo quella data?
Ma ti perdoniamo perché una descrizione così bella non l’avevo mai letta … più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri.
Ed eccoci arrivati al tasso barbasso o Verbascum thapsus, cuna splendida specie biennale di grandi dimensioni, che presenta grandi foglie lanose a terra, e diverse lunghe spighe ricoperte di vivaci fiori gialli, alcune volte assume anche forme a candelabro.
Il Caravaggio amava molto questa pianta, la troviamo ad esempio ai piedi di “San Giovanni Battista” o della Vergine nel “Riposo durante la fuga in Egitto” e comunque questa pianta aveva un valore simbolico estremamente importante di redenzione e rinascita.
Termino questa carrellata con il vilucchione o Convolvulus sepium.
È una pianta erbacea perenne rampicante, ha foglie di grandi dimensioni e bellissimi fiori bianchi, la cui corolla, imbutiforme, è lunga fino a 6 cm. immagine
Concludo dicendo che queste mie scoperte mi hanno fatto molto piacere, perché io sono stata una studentessa a cui “I Promessi Sposi” piacevano molto … in buona sostanza faccio parte di quel 2%.
Immagine: Giuseppe Molteni, Public domain, via Wikimedia Commons
Laureata in Scienze Biologiche, indirizzo Biochimica, presso l’Università Statale di Milano. Da Eoni di anni insegnante di Biologia e Chimica in un Liceo. Ho una passione smodata per Charles Darwin e da decenni svolgo ricerche sulla sua vita e sui suoi testi. Amo la storia della scienza e da molti anni ne scrivo su Pikaia e sul mio blog Evolve or Die.