Le memorie del futuro: i musei tra passato e innovazione
Cosa rappresentano oggi i musei e cosa potranno rappresentare nel futuro? Pikaia ha letto per voi “Le memorie del futuro. Musei e ricerca”, saggio in cui Evelina Christillin e Christian Greco riflettono sul futuro dei musei.
Teatri della memoria I due Autori non solo si interrogano su cosa sono oggi i musei, ma si chiedono anche quale via i musei debbano percorrere per svolgere sempre meglio il proprio ruolo: “diviene sempre più importante -scrivono Christillin e Greco in Le memorie del futuro– raccontare gli oggetti nella loro valenza di documenti storici, svelare il ruolo che hanno avuto e che continuano a svolgere all’interno della società. Si deve, in qualche modo, togliere gli artefatti dal loro piedistallo e renderli accessibili”. Per raggiungere questo risultato gli strumenti digitali diventano importanti per creare modalità nuove per prendere contatto e interagire con il pubblico, oltre che per dare nuovo valore a ogni oggetto conservato in museo. Nel saggio di Christillin e Greco ogni oggetto presente in museo presenta una propria stratigrafia, una sovrapposizione di significati che possono essere di volta in volta narrati, valorizzati e tramandati. I musei non sono però solamente il luogo in cui si racconta il passato, ma sono occasione di riflessione e confronto, sono spazi in cui si può elaborare una nuova consapevolezza della propria identità e della propria storia e costruire il futuro: le memorie del futuro, appunto. I musei diventano quindi “teatri della memoria dove le identità locali e globali vengono definite e dove diverse visioni del passato e del presente incontrano il futuro”.
Musei e colonialismo Tra gli aspetti a mio avviso più interessanti affrontanti in Le memorie del futuro vi è indubbiamente il tema della provenienza delle collezioni, che nasce dalle richieste sempre più ricorrenti di restituzioni, intese come richieste di riportare parte delle collezioni nei loro luoghi d’origine. Sebbene Le memorie del futuro parli principalmente di opere d’arte e archeologiche, il tema della provenienza dei reperti è di grande attualità anche per le collezioni naturalistiche e questo rende il saggio di Christillin e Greco di interesse decisamente molto ampio. Come ben illustrato da Gretchen Vogel nell’articolo “Countries demand their fossils back, forcing natural history museums to confront their past” pubblicato pochi mesi fa sulla rivista Science, molti campioni oggi conservati nei musei naturalistici occidentali provengono da altre nazioni e non sempre sono stati prelevati con accordi internazionali. Il caso più recente riguarda lo scheletro del sauropode Giraffatitan brancai, derivante dalla campagna di scavi Tendaguru condotta tra il 1909 e il 1913 nell’attuale Tanzania, e conservato da oltre cento anni a Berlino nelle sale del Naturkunde Museum. Il governo della Tanzania ne ha chiesto la restituzione e questo non sorprende considerato che la collezione di fossili del museo di Berlino (che include molti campioni africani) è visitata da oltre 700 mila visitatori ogni anno, aspetto che potrebbe essere occasione di turismo verso potenziali musei in Tanzania. Il problema non riguarda però solo il museo di Berlino perché, come sottolineato da Holger Stoecker, esperto di cultura e manufatti africani alla Humboldt University, “i musei di storia naturale così come li conosciamo oggi non esisterebbero senza il periodo coloniale” e anche questo aspetto andrebbe incluso nella narrazione relativa alla scoperta dei singoli reperti. Richieste analoghe sono state inviate anche al Natural History Museum di Londra, a cui è stato chiesto di cedere al Museo di Gibilterra due crani di uomo di Neanderthal, mentre dallo Zambia è giunta la richiesta di restituzione del cranio di Broken Hill appartenente a Homo heidelbergensis. In modo analogo, il governo cileno ha chiesto al museo di Londra la restituzione dei resti scheletrici del bradipo “corazzato” Mylodon darwinii (qui l’articolo che illustra questa richiesta) e al Kon-Tiki Museum di Oslo la restituzione di una ampia collezione di manufatti provenienti dall’isola di Pasqua. In quest’ultimo caso, la Norvegia ha già deciso di restituire (sebbene non sia ancora stato definito quando) le ossa e i manufatti che negli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento furono portati via dall’isola dall’esploratore Thor Heyerdahl (qui la notizia). In modo analogo, nel 2008, il Senckenberg Museum di Francoforte ha restituito al Cile i resti scheletrici dell’uccello estinto Pelagornis chilensis (qui la notizia).
Il dibattito sulla restituzione dei reperti Il tema è ovviamente complesso perché i musei occidentali hanno fatto enormi investimenti per studiare, conservare e rendere fruibili questi reperti, che difficilmente sarebbero stati valorizzati in modo simile in alcune delle nazioni di origine (come sottolineato anche in questo articolo). Inoltre, vi è il dubbio che alcune nazioni dispongano di risorse economiche inadeguate per garantire la futura conservazione di reperti che sono, nei fatti, un patrimonio (fragilissimo) di tutta l’umanità. Le difficoltà economiche sono però solamente una parte del problema, che certamente non vale per tutte le nazioni. “Al tempo della loro scoperta -ha affermato il paleontologo Clive Finlayson, direttore del Museo di Gibilterra- Gibilterra non aveva la possibilità di conservare quei reperti. (…) Oggi invece ospita numerosi esperti di Neanderthal e alcune aree sono state identificate come “UNESCO World Heritage Site” proprio per la presenza di campioni attribuibili ai Neanderthal”. “È il momento giusto per riflettere su questo tema visto l’attuale dibattito sulla restituzione degli oggetti presi durante il periodo coloniale” racconta il professore di diritto dell’arte Marc-André Renold dell’Università di Ginevra. Non a caso, in Svizzera, il Museo etnografico di Ginevra ha presentato una strategia di “decolonizzazione” per il periodo 2020-24 e ha svolto un ruolo di mediazione nel caso delle mummie precolombiane di Chinchorro restituite al Cile nel 2011 su base volontaria da un privato cittadino elvetico. Questo non significa che i musei svizzeri contano di restituire tutte le loro collezioni, quanto di valutare come i reperti sono arrivati nei musei. Sebbene la Svizzera non abbia mai avuto colonie, molti beni culturali sono stati portati nei musei svizzeri da diplomatici, esploratori, scienziati, soldati, missionari e altri ancora non necessariamente sulla base di accordi internazionali. Il museo olandese Nationaal Museum van Wereldculturen non ha nemmeno aspettato la richiesta di restituzione dei beni e riconsegnerà gli oggetti trafugati ai paesi d’origine. Come segnalato in un articolo pubblicato su Linkiesta, secondo Stijn Schoonderwoerd, Direttore del Nationaal Museum van Wereldculturen, il museo rinuncerà alla collezione acquisita nel periodo coloniale perché frutto di differenze di potere e ingiustizia. La soluzione è quindi restituire tutto? Non necessariamente. Ad esempio, il governo della Tanzania sarebbe disponibile a lasciare i propri campioni nei musei tedeschi a fronte dell’aiuto nel condurre nuovi scavi e alla disponibilità a ospitare e formare specialisti che andranno a operare in Tanzania. Questa può essere certamente una soluzione decisamente vantaggiosa per i musei occidentali che potranno mantenere inalterate le proprie collezioni e iniziare nuove collaborazioni e attività in aree che in passato hanno portato a clamorose scoperte. Indipendentemente dal fatto che i musei decidano di restituire una parte dei propri reperti o che programmino nuove collaborazioni e attività formative, è importante che i musei abbandonino una visione unidimensionale della storia che non dà credito al lavoro di alcune comunità. Come suggerito da Tonya Nelson, presidentessa del Consiglio Internazionale dei Musei, i musei oggi devono divenire piattaforme in cui garantire una pluralità di punti di vista, di approcci, di esperienze, senza la pretesa di ricondurre la complessità a una narrazione unica, inevitabilmente semplificatoria e riduttiva.
Biologo e genetista all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove studia le basi molecolari dell’evoluzione biologica con particolare riferimento alla citogenetica e alla simbiosi. Insegna genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie. Ha pubblicato più di centosessanta articoli su riviste nazionali internazionali e tenuto numerose conferenze nelle scuole. Nel 2020 ha pubblicato per Zanichelli il libro Nove miliardi a tavola- Droni, big data e genomica per l’agricoltura 4.0. Coordina il progetto More Books dedicato alla pubblicazione di articoli e libri relativi alla teoria dell’evoluzione tra fine Ottocento e inizio Novecento in Italia.