Intervista alla paleobiologa Dr.ssa Michela Leonardi: uno sguardo al passato per pensare al presente e intervenire sul futuro.

Michela Leonardi

Per l’ “L’evoluzione non ha genere” abbiamo intervistato la ricercatrice Michela Leonardi dell’Università di Cambridge. Tra i temi toccati: il clima di ieri e di oggi, l’evoluzione, la parità di genere in ambito accademico e l’Agenda 2030

Michela si presenta con un sorriso accogliente ed occhi entusiasti. Ammette di essere leggermente emozionata perché segue con vivo interesse Pikaia da anni. Ed ora è protagonista della seconda intervista per la rubrica “L’evoluzione non ha genere”. Romana di nascita, ma cittadina del mondo grazie al suo lavoro, la dottoressa Michela Leonardi, paleobiologa, è stata ricercatrice prima a Copenaghen e ora presso l’Evolutionary Ecology Group, guidato dal prof. Andrea Manica, del dipartimento di Zoologia all’Università di Cambridge (Gran Bretagna). Qui studia l’evoluzione e la distribuzione delle specie nel tempo in relazione al clima. Sarebbe riduttivo, però, costringere la Dr.ssa Leonardi nei panni della paleobiologa perché il suo ricco percorso culturale e professionale è stato molto variegato. La sua storia inizia all’Università di Ferrara, dove ha frequentato il corso di laurea triennale in “Tecnologie per i Beni Culturali” e successivamente la laurea specialistica in “Scienze Preistoriche”. La sua ricerca, infatti, si basa su due principi fondamentali: il primo è che se si vuole capire lo stato attuale di una specie (o di una popolazione) si deve conoscere il suo passato; il secondo è che il mondo è complesso e la sua comprensione richiede la combinazione di indizi provenienti da diversi campi di studio. Infatti, il suo approccio all’evoluzione ha abbracciato diverse discipline: prima fra tutte, l’archeologia preistorica, cioè si è interessata alla specie umana sia sotto l’aspetto biologico che culturale; poi, la genetica di popolazione applicata alla ricostruzione del passato; infine, lungo la strada della genetica di popolazioni, ha incontrato il clima. Ha iniziato, quindi, a studiare l’influenza delle condizioni climatiche del passato sull’evoluzione di essere umani e animali. Studi che sono ancor più interessanti alla luce degli attuali fenomeni climatici che riguardano l’Antropocene.
Sappiamo – spiega la dottoressa – di vivere in un momento di emergenza climatica e che i cambiamenti, di origine antropica, stanno già avendo un impatto molto forte sulla sopravvivenza di specie animali e vegetali in tutto il mondo. Non è sempre facile ricostruire il clima di un luogo: si può ad esempio, ricostruire le caratteristiche dell’ambiente mediante l’analisi delle specie animali e vegetali ritrovate, ma non sempre è possibile. Recentemente, però, sono state prodotte una serie di ricostruzioni paleoclimatiche molto precise e che coprono le ultime centinaia di migliaia di anni. Quindi, sta diventando più facile considerare il clima del passato all’interno di progetti che studiano l’evoluzione in modo esplicito. Prima si aveva, invece, la tendenza a inserirlo nelle analisi in base ad altre evidenze che ce lo suggerivano.

Dietro lo schermo sta per cominciare un’interessante chiacchierata che abbraccia evoluzione, crisi ambientali e istanze sociali. Lo storico David Franklin Noble, nel suo libro “Un mondo senza donne. La cultura maschile della Chiesa e la scienza occidentale” si riferisce al mondo accademico e universitario. Le poche giovani italiane che decisero di studiare all’università si diressero proprio verso lo studio delle scienze naturali, matematiche, fisiche e mediche. Superato lo scoglio della presenza femminile nei corsi di laurea scientifici, resta il nodo della loro presenza in accademia.

Sì. L’ambito accademico non è stato un ambiente facile per le donne, e soprattutto non è stato un ambiente in cui è stato facile rimanere. Come in altri campi c’è spesso stata la necessità di fare una a scelta tra la famiglia o la carriera. Dobbiamo anche ricordare che questa scelta si posi pone non è facile sia per l’uomo sia per la donna. Oggigiorno, però, è sempre più facile trovare esempi di chi ha scelto di seguire entrambe queste strade. È fondamentale evidenziare esempi di emarginazione, ma è altrettanto importante mostrare anche le vie possibili, percorsi certamente complessi, ma non preclusi a nessuno. Le ragazze di oggi hanno una visione diversa dell’accademia e della ricerca e sono fiduciosa che ciò porterà aria di cambiamento a livello scientifico, sociale e culturale.

Probabilmente, bisogna anche riscoprire il lato umano del ricercatore, del docente universitario, della persona impegnata in una carriera appagante. Ad esempio, fornire esempi, ai ragazzi e alle ragazze, di donne che gestiscono oggi, nelle università e nelle industrie, carriere di ricerca in ambito scientifico e tecnologico soddisfacenti mentre conducono vite normali.

Penso che gli esempi siano fondamentali. Personalmente non posso negare che l’esempio di mia madre, che è riuscita a coniugare la famiglia e la carriera scientifica e accademica, sia stato fondamentale per dimostrarmi quali strade è possibile percorrere. Tramite gli esempi di persone diverse e attraverso strade potenzialmente divergenti, ho conosciuto persone che sono riuscite a conciliare questi due aspetti, mostrando che nonostante non sia semplice, è possibile.

Il contributo delle donne nella scienza è difficile da valutare. Che valore ha dato e dà alla scienza la collaborazione tra pari quando è sinceramente riconosciuta la parità di genere?

Io considero la collaborazione fra pari da due punti di vista diversi. Sotto l’aspetto personale, avere una rete di persone intorno (amici, famiglia, conoscenti), è molto importante e dà sostegno psicologico. Fa la differenza, soprattutto nelle difficoltà. Ad esempio, durante la pandemia di SARS-CoV-2, ho lavorato in un gruppo in cui c’è stata molta attenzione per il nostro benessere. Molti erano lontani dalla famiglia e dalla propria rete di contatti per cui ciascuno è stato “rete di contatto” per l’altro. Mi sento una privilegiata perché non tutti hanno potuto far affidamento su un’organizzazione e una rete come quella del laboratorio presso cui lavoro. Del resto, nella specie umana funziona così: siamo una specie sociale e, dall’antropologia alla genetica, troviamo conferma del fatto che l’uomo vive bene in gruppo.  Sul piano del lavoro, poi, la collaborazione tra pari è fondamentale: la scienza è parlare insieme. E avere le persone giuste nell’ambiente di lavoro permette di portare avanti i progetti in maniera migliore e anche più piacevole, anche e soprattutto quando (come avviene sempre più spesso in ambito accademico) ciascuno di noi si trova a dover svolgere molte più mansioni di quante potremmo e dovremmo ricoprire. Quando si parla di collaborazione, è stato notato che le donne possono avere più difficoltà a proporsi o ad essere scelte per collaborazioni. Altre volte è stata notata la tendenza a mettersi in disparte e a lasciare spazio agli altri, sfruttando meno le potenzialità disponibili. Al di là di possibili differenze caratteriali presenti in generale fra le persone, alcuni di questi comportamenti femminili sono indotti dall’ambiente in cui si cresce o si lavora, per cui affrontando il problema a vari livelli, compresi quelli educativi e istituzionali, c’è la speranza che queste differenze si affievoliscano. Oltretutto, negli ultimi anni è diventato semplice creare una rete di collaborazioni anche grazie ai diversi nuovi media, che possono diventare uno strumento importante per mitigare questo problema.

L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità. Rileggendoli con attenzione, ciascuno può ritenere un obiettivo il punto di partenza da cui scaturiscono tutti gli altri per svariati motivi. Scelga un obiettivo e ne colleghi altri quattro spiegandomi il perché.

L’obiettivo 13, la lotta contro il cambiamento climatico, raccoglie al suo interno il 14 (vita in acqua) e il 15 (vita sulla terra). Il problema della lotta contro il cambiamento climatico è che nell’attuale stato di emergenza diversi altri obiettivi sono strettamente connessi ad essa: la fame sulla Terra, la povertà, l’acqua pulita, la salute e il benessere. Infatti, le conseguenze del cambiamento climatico stanno diventando sempre più evidenti portando a un aumento delle diseguaglianze, un aumento dei conflitti e, di conseguenza, anche dei fenomeni migratori. Anche l’obiettivo di ridurre le disuguaglianze è legato alla parità di genere: ci possono essere disuguaglianze per origine geografica, cultura, religione, o altro, ed è stato visto che in tutti questi gruppi le donne sono in una condizione svantaggiata. Inoltre, il cambiamento climatico tenderà a favorire ancor di più le disuguaglianze anche in termini di salute e benessere. Tutti questi obiettivi sono legati gli uni agli altri: ho messo i riflettori su alcuni, evidenziando quelli che, secondo la mia vita e la mia esperienza, sono più strettamente collegati.

Paleobiologia, paleoecologia, paleoclimatologia sono parole composte che identificano branche originariamente separate che, con il tempo e la creazione di percorsi multidisciplinari e interdisciplinari, hanno dato vita a nuove figure professionali con conoscenze più adeguate e competenze ricche. Nomi composti, materie composite, professionisti ibridi. Quanto giova alla scienza, e in particolar modo alle scienze evoluzionistiche, un approccio di questo tipo? Lei con quanti esperti dialoga?

Personalmente, ho fatto dell’interdisciplinarità la mia vita. Laureata in archeologia preistorica all’Università di Ferrara, ho lavorato in un ambito interdisciplinare dove si incontrano genetica di popolazioni, modelli ecologici, archeologia ed evoluzione. Con il passare del tempo ci troviamo a dover rispondere a domande sempre più complesse, in questi casi avere un punto di vista ampio è importante, ma è importante ricordare che essere interdisciplinari non significa assumere un ruolo che non ci appartiene. Mi spiego meglio: personalmente, non svolgo il lavoro di un archeologo, sebbene abbia avuto una formazione in archeologia; non svolgo il lavoro di un paleoclimatologo, sebbene utilizzi gli strumenti della paleoclimatologia. Nel mio caso essere interdisciplinare significa fare da tramite: creo dei ponti, faccio parlare discipline che non parlano la stessa lingua. Sono come una traduttrice che rende comprensibile, ad esempio, il linguaggio di un archeologo ad un genetista. E il valore dell’interdisciplinarietà è proprio nel creare queste connessioni perché domande complesse richiedono persone diverse con competenze diverse che riflettono insieme sul problema. D’altra parte, secondo me, se è vero che ogni punto di vista che non prende in considerazione il contesto più ampio è e parziale, bisogna ricordare di non svalutare le competenze specifiche di ogni disciplina a favore di un “obbligo all’interdisciplinarità”. C’è una linea molto sottile tra la bellezza e la potenzialità dell’interdisciplinarità e il riconoscimento del valore intrinseco delle discipline in quanto tali anche all’interno dei loro confini.

Quindi, con quante discipline si interfaccia?

Principalmente con archeologi e archeologhe, genetisti e genetiste, persone che si occupano di analisi dei dati a diversi livelli, spesso si stratta di persone con una preparazione in fisica e in matematica. L’elenco non è finito: mi piace parlare con esperti ed esperte di antropologia culturale perché è una disciplina lontana dalla mia formazione. L’approccio è interessante e si impara tantissimo. Lavoro anche con ecologi ed ecologhe, zoologi e zoologhe ed esperti ed esperte di archeozoologia (studio degli animali ritrovati nei siti archeologici N.d.A.). E questa è una piccola parte dei colleghi…Ho collaborato persino con medici su argomenti di interesse per epidemiologi e fisiologi nel campo dell’emicrania. Nonostante io faccia studi focalizzati, cerco sempre di mostrare ciò che potrebbe essere utile alle altre discipline senza invadere il campo. Cerco di rimanere nei miei limiti. Infine, di recente, mi sono interfacciata, più per diletto, con persone che si occupano di comunicazione della scienza (all’interno della didattica museale, del giornalismo scientifico e della divulgazione).

Nel suo lavoro pubblicato su Science Advances nel 2018 è stato studiato un esempio di stretta interconnessione tra le variazioni climatiche (componente abiotica della biosfera) e l’adattabilità delle specie ai diversi ambienti. Le variazioni nel clima hanno guidato e guidano le dinamiche geografiche delle popolazioni animali verso diversi biomi anche in seguito alle variazioni subite dalle specie vegetali. L’ultimo rapporto dell’IPCC, l’organismo delle Nazioni Unite per le valutazioni scientifiche del cambiamento climatico, dimostra che tale fenomeno è una minaccia per il nostro benessere e per la salute del pianeta. Le prove paleoclimatiche possono fornire strumenti utili per la situazione presente?

Sì, ma solo fino a un certo punto. Ormai siamo in grado di ricostruire il passato con una risoluzione fino a poco tempo fa impensabile, grazie ai progressi degli ultimi anni. Sulla base di queste ricostruzioni si può utilizzare il passato come una forma di laboratorio: possiamo sapere come le specie hanno reagito ai cambiamenti del clima sia sul piano genetico, sia nella loro distribuzione geografica e questo può essere utile per capire come questi meccanismi funzionano in natura e su queste basi avere informazioni su come le specie potrebbero reagire ai cambiamenti attuali. Però è importante ricordare che ciò che è avvenuto nel passato non rispecchia la situazione attuale. Ad esempio, stiamo facendo ancora fatica a distinguere il ruolo del clima e degli esseri umani nelle estinzioni degli ultimi 50.000 anni. C’era sicuramente una pressione umana dovuta alla caccia, ma non è ancora chiaro in quali casi e situazioni questa pressione sia stata la spinta principale all’estinzione di alcune specie e quanto invece sia legato ai cambiamenti climatici. Un secondo aspetto da considerare è il fatto che i cambiamenti del passato erano graduali e avvenivano in un ambiente meno disturbato dell’attuale. I cambiamenti attuali sono rapidissimi, soprattutto se confrontati con i tempi evolutivi necessari per adattarsi, che sono decisamente più lenti. I cambiamenti attuali sono talmente rapidi che già sono evidenti, in 20-30 anni mentre l’evoluzione per adattarsi può richiedere anche centinaia di migliaia di anni. Su tempi così brevi come quelli interessati dall’emergenza climatica attuale una forma di adattamento può essere data dai cambiamenti epigenetici, ma non sono comunque sufficienti per risolvere il problema. Lo studio del passato ci insegna anche che in risposta ai cambiamenti climatici le specie animali si sono spostate (si spostava l’ambiente e si spostavano anche gli animali per continuare a vivere in un ambiente a loro congeniale). Ma anche questa soluzione oggi è troppo spesso impraticabile, se pensiamo, ad esempio, all’Europa oggi, dove potrebbero andare gli animali? Gli ambienti naturali si stanno frammentando sempre di più, non ci sono “corridoi” fra loro e le specie animali rischiano di non potersi spostare più. Quindi, studiare il passato può dare delle indicazioni, ma la situazione attuale è più complessa.

È affascinante che lo studio della variabilità genetica fornisca informazioni sulla storia demografica delle popolazioni, sulle migrazioni, sulle epidemie del passato.

Quando si guarda al passato e si guarda la storia da diversi punti di vista, si nota che ciascuna disciplina vede aspetti diversi, ed è come se la nostra visione del passato fosse frammentata in piccole finestrelle. La sfida, affascinante e complessa, è mettere insieme finestrelle diverse. Perché in effetti, la storia di base è sempre la stessa, e quando diversi punti di vista ci danno informazioni contrastanti è possibile vedere aspetti interessanti. Ad esempio, analizzando la storia genetica delle donne di Lucca, abbiamo visto che c’è stata continuità genetica per gli ultimi 5.000 anni, nonostante si sappia che il territorio sia stato più volte conquistato da popolazioni diverse. Questi punti di vista sono apparentemente in contrasto tra loro, e il lavoro degli studiosi e delle studiose deve essere integrare vari campi per capire perché c’è questa dissonanza e quale storia possa conciliare i vari aspetti. Ogni visione parziale ha i suoi limiti, e forse se fossimo più consapevoli di questo, potremmo essere in grado di costruire un futuro che sia più giusto, più sano, più corretto per il maggior numero possibile di persone e di specie.


La Dr.ssa Leonardi ha voluto, però, anche dare vita ad un processo di scientific engagement sviluppando il gioco, Climate change – the board game, costruito sul concetto che clima e animali sono strettamente legati tra loro. Ogni giocatore veste i panni di una specie animale che si muove su un tabellone nel quale sono presenti quattro diversi ambienti: foresta temperata, foresta tropicale, savana e tundra. Ogni specie possiede tre geni che codificano per tre fenotipi: colore, dimensione e metabolismo. Durante la partita, pescando da un mazzo comune le carte mutazioni, che possono essere adattative, neutrali o deleterie, i giocatori possono cambiare le varianti geniche e quindi facilitare o ostacolare la l’adattamento e la sopravvivenza dell’animale in uno specifico ambiente. Vince il giocatore che riesce a usare a suo vantaggio queste mutazioni per adattarsi a tutti gli ambienti. Il gioco mette in evidenza il fatto che i cambiamenti climatici ci sono sempre stati e le specie hanno sempre reagito: adattandosi, spostandosi o estinguendosi. L’imprevisto è dietro l’angolo: ad ogni turno il lancio di un dado può provocare un cambiamento del clima, che implica l’utilizzo di un altro tabellone, dove la distribuzione dei quattro habitat è diversa a seconda che la temperatura sia aumentata o diminuita. Così i giocatori sperimentano le difficoltà per la sopravvivenza di un organismo che si era ben adattato a un certo ambiente a seguito di un repentino cambiamento del clima. Si può giocare in gruppi da 2 a 5 giocatori e le partite durano circa mezz’ora. L’età minima consigliata è otto anni. Il gioco è gratuito e disponibile sul sito della Dott.ssa Leonardi nella versione inglese, italiana, turca e portoghese. Sul sito si trovano anche consigli per realizzare da soli i materiali di gioco, nel caso in casa mancasse una stampante. Grazie alla collaborazione di Alessandro Crespi è ora possibile giocare gratuitamente online (versione in inglese). Il gioco rientra nel finanziamento ERC ottenuto nel 2015 dal Prof. Andrea Manica.

“Il gioco stimola la discussione in ragazzi e ragazze ed è divertente. Cerca di insegnare che i fenomeni biologici ed ecologici non possono essere ridotti a un semplice meccanismo di azione e reazione ma, al contrario, sono il risultato dell’interazione complessa di tante variabili. È questo il messaggio che lascio ai più giovani”.

Immagine: grafica di Carmen Troiano