Le più antiche tracce dei vertebrati delle profondità marine

Andrea Baucon vertebrati abissali

Dalle rocce dell’Appenino emergono le prime testimonianze fossili di pesci abissali: avevano colonizzato i fondali marini già all’inizio del Cretacico

Gli oceani (di cui Pikaia ha parlato qui e qui) sono gli ambienti naturali che fanno sorgere i quesiti più interessanti a chiunque sia minimamente appassionato di Biologia o, più in generale, di scienza. Infatti, solo una piccola percentuale delle infinite distese d’acqua del nostro pianeta è stata effettivamente studiata e compresa appieno. Basti solo pensare agli abissi più imperscrutabili che, fino a non molto tempo fa, l’uomo poteva solo sognare di raggiungere. Nonostante siano ancora molte le domande a cui dare una risposta, i fossili (di cui Pikaia ha parlato qui) sono gli strumenti più utili per comprendere gli step evolutivi, le transizioni ecologiche e gli adattamenti della maggior parte, ma seppur sempre non la totalità, dei phyla animali e vegetali ad oggi conosciuti. Tra le numerose eccezioni, gli scienziati devono fare i conti con la limitata disponibilità di dati fossili che potrebbero fare luce sulla colonizzazione da parte dei vertebrati delle profondità marine (dai 200 m fino ai 10 mila). L’insediamento in questi ambienti limite è, infatti, ancora un grosso tassello mancante nella storia evolutiva dei vertebrati. Una recente ricerca, pubblicata su PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences) riporta quelle che vengono definite tracce biogeniche sedimentarie formatesi durante l’interazione tra i pesci demersali (pesci natanti che passano la vita sul fondo) e, appunto, il fondale marino. I dati raccolti rappresentano un’evidenza ecologica del comportamento dei vertebrati di profondità e portano una prima prova a favore dell’ipotesi che questi organismi fossero presenti in questi ambienti già dal primo Cretacico (130 milioni di anni fa).

L’oceano Tethys occidentale e la datazione

Le tracce sedimentarie rinvenute durante la ricerca (e studiate in loco senza ulteriori rimaneggiamenti) provengono da una unità geologica (Palombini Shale Formation) di acque profonde affiorata, in Italia, negli Appennini settentrionali. In particolare, i dati derivano da un piccolo bacino (Oceano Ligure – Piemontese) apertosi durante il Giurassico e, a tutti gli effetti, considerato un ramo di quello che era l’oceano Tetide occidentale.
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Mappa dei siti di studio, Italia settentrionale. Immagine: dalla pubblicazione

Per giungere alla conclusione che le macro tracce rinvenute nei pressi dei tre siti paleontologici di Piacenza, Modena e Livorno appartenessero al periodo geologico ipotizzato (Hauteriviano – Barremiano, primo Cretacico), sono state condotte analisi deposizionali, di stratigrafia e di tettonica in un’area di ben 5000 km2 che ha compreso le regioni dell’Emilia Romagna, della Liguria e della Toscana. Per gli studi specifici sulla datazione, sono invece stati analizzati i numerosi nanofossili ritrovati a Vezzano sul Crostolo. Per quanto riguarda i dati diretti della Palombini Shale Formation, tramite indagini filogenetiche ed evoluzionistiche, si sono riscontrati dodici, ben distinguibili, icnotaxa e, tra tutte le tracce biogeniche raccolte, molto sorprendentemente, tre sono morfologicamente molto simili a quelle lasciate da moderni pesci demersali. In ultima analisi, le tracce dell’unità geologica studiata sono state confrontate con le impronte moderne lasciate da alcune specie di pesci (in un range di profondità tra i 3 e i 10 m) presenti a Paraggi, Spotorno, Grado e, in Spagna, all’estuario di Piedras. Per un paragone più ampio, infine, le tracce sono anche state confrontate con quelle derivate dal comportamento simulato di alcuni pesci abissali (Olocefali e Neoteleostei), assenti nel Mediterraneo, ma dalle abitudini e dall’alimentazione molto simili.

Gli icnofossili direttamente dal Cretaceo

Con “icnofossili” non vengono indicati i fossili nel vero senso del termine (ovvero i resti biologici fossilizzati di un organismo), ma ci si riferisce alle tracce indirette dell’attività bio – ecologica di una forma di vita ancestrale: il prefisso della parola deriva dal greco ikhnos, cioè “traccia”. La ricerca riporta ciò che resta dell’attività di scavo boccale sul fondale di antichi pesci demersali e dei loro percorsi per la ricerca di cibo nel substrato.
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Tracce a forma di scodella lasciate nei sedimenti e schema di produzione delle stesse da parte di un pesce demersale. Immagine: dalla pubblicazione

Le strutture discoidali a forma di ciotola ritrovate (anche dette strutture di bioperturbazione del fondale) nella Palombini Shale Formation, concave verso l’alto, sono riconducibili all’alimentazione di alcuni pesci che utilizzano un flusso d’acqua per muovere le particelle di sedimento e cercare cibo tramite le pinne e/o i barbi. Spingendo il capo nel sedimento, gli antichi pesci demersali (come quelli moderni, anche se con forme e grandezze variabili) hanno formato delle “piccole pozze” di un diametro, in media, di 31 mm. Queste antiche tracce sono state comparate con quelle che vengono prodotte, per esempio, dal moderno pesce capra (Mullus sp.) e dai cefali. Più precisamente, sembrerebbe che questi resti indiretti facciano riferimento all’icnogenere Piscichnus, le cui tracce odierne risalirebbero a quelle lasciate dalle razze, dalle mormore e dagli storioni.
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Solchi paralleli lasciati dall’attività di raschiamento di un pesce del fondale. Immagine: dalla pubblicazione

Spesso, i piccoli pozzi derivanti l’attività di scavo dei pesci, sono accompagnati anche da un paio di solchi, generalmente paralleli tra loro (di 86 mm di lunghezza e 28 mm di larghezza, in media), separati da una cresta di sedimenti. Queste tracce sembrerebbero derivare da una “attività di rastrellamento” effettuata, per esempio e similmente, dai pesci Sparidi (Diplodus vulgaris) e dagli Olocefali (il cui metodo di ricerca di cibo è stato simulato e studiato nella regione abissale della Kermadec Trench, nell’oceano Pacifico) utilizzando i denti incisivi superiori.
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Ricostruzione schematica di un pozzetto a scodella, dell’attività di rastrellamento e delle scanalature sinusoidali. Immagine: dalla pubblicazione

Infine, un’ulteriore traccia biogenica dell’attività dei pesci dell’era Cretacica è rappresentata da scanalature sinusoidali “incise” nel sedimento, le cui lunghezze d’onda sono, in media, di 156 mm. Questi solchi fanno riferimento ai sentieri di alimentazione dei vertebrati, qui in particolare riferibili all’icnogenere Undichna, e formatesi grazie al contatto tra la pinna caudale (o anale) e il fondale marino.

Una nuova documentazione cruciale della colonizzazione dei fondali

Le tracce biogeniche descritte nella pubblicazione non solo danno cruciali e nuove informazioni sul comportamento dei pesci abissali, ma validano anche l’ipotesi che i vertebrati abbiano colonizzato i fondali marini già all’inizio del Cretacico, anticipando quindi di ben 80 milioni di anni lo spostamento eco – evoluzionistico di questi animali dalle piattaforme continentali verso gli abissi. Andrea Baucon, paleontologo presso l’UNESCO Geopark Naturtejo e primo autore della ricerca, nel comunicato stampa sottolinea:
“I nuovi fossili mostrano l’attività dei pesci su un fondale marino dell’era dei dinosauri che era profondo migliaia di metri”

Va sottolineato che la scoperta, seppure ancora molto recente, ha portato alla luce particolari segni ancestrali che determinano un punto critico di transizione. Viene infatti scandito un prima e un dopo tra il momento in cui i vertebrati acquatici si sono spostati dalle acque poco profonde e il loro arrivo a migliaia di metri sotto l’Oceano Ligure – Piemontese, dove le condizioni di luce e temperatura erano decisamente estreme. L’ipotesi che potrebbe spiegare il motivo scatenante dell’allontanamento dei vertebrati dalle coste sarebbe il massiccio apporto di materia organica verificatosi tra Giurassico e Cretacico. Un’aumentata attività e una maggiore concentrazione di organismi vermiformi sul fondale marino sembrerebbero le ragioni principali che hanno spinto i pesci ad adattarsi a nuovi ambienti di profondità e a modificare il loro primitivo stile di vita. Per il team di ricercatori, è stato illuminante guardare al passato con una chiave moderna. Confrontare le tracce lasciate dai vertebrati di milioni di anni fa con quelle dei pesci demersali moderni è stato, non solo utile, ma anche essenziale per iniziare a capire le prime fasi di diversificazione di questi animali abissali dell’età dei dinosauri. I resti fossili Appenninici, quindi, fanno luce sulle origini della biodiversità, sulla ecologia e sullo stile di vita dei primi vertebrati colonizzatori degli abissi, apportando interessanti implicazioni sia per le Scienze della Terra che per le Scienze della Vita. Riferimenti: Baucon, A., Ferretti, A., Fioroni, C., Pandolfi, L., Serpagli, E., Piccinini, A., …Priede, I. (2023). The earliest evidence of deep-sea vertebrates. Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A., 120(37), e2306164120. doi: 10.1073/pnas.2306164120 Immagine in apertura: Il sito paleontologico di Quercianella. Andrea Baucon sta studiando le tracce fossile prodotte da pesci dell’era dei dinosauri: sono quelle dei più antichi vertebrati di mare profondo, Image credit: Andrea Baucon da https://www.tracemaker.com/paleontologia/