L’eredità nascosta delle collezioni naturalistiche

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Pikaia ha letto per voi “La bianca scienza”, l’ultimo libro di Marco Boscolo dedicato al complesso tema della decolonizzazione della scienza.

Da alcuni mesi ho la fortuna di collaborare con Elena Canadelli e Luca Tonetti allo studio delle collezioni naturalistiche raccolte dal botanico Alessandro Trotter e conservate presso il Museo dell’Orto Botanico dell’Università di Padova (qui la descrizione del progetto).

Queste collezioni naturalistiche includono migliaia di campioni raccolti in Europa e centinaia di galle e piante provenienti dall’Africa (in particolare dall’Eritrea e dall’Etiopia) inviate a Padova dal botanico Adriano Fiori a inizio del Novecento. Fiori aveva ricevuto dai ministeri degli Affari esteri e dell’Agricoltura e Industria l’incarico di studiare da un lato la presenza di specie “coloniali” interessanti per l’agricoltura italiana e dall’altro di capire quanto i territori annessi dalle politiche espansionistiche italiane potessero essere utilizzati per ospitare nuove coltivazioni necessarie per l’economia italiana. Fiori studiò, quindi, le alterazioni che la vegetazione aveva subito ad opera delle popolazioni locali e suggerì vari provvedimenti per la difesa e la ricostruzione del patrimonio boschivo. I campioni presenti nella collezione Trotter risultano di particolare interesse non solo perché costituiscono una vera e propria fotografia della biodiversità presente in Eritrea e Etiopia, ma anche perché sono stati inviati all’interno di buste e fogli di carta provenienti da uffici coloniali o della milizia coloniale, che ben raccontano il contesto in cui queste esplorazioni botaniche andavano a inserirsi.


Orti botanici, collezioni naturalistiche e colonialismo

La presenza di questi campioni al Museo dell’Orto Botanico di Padova non è certamente inusuale, dato che campioni analoghi sono presenti, ad esempio, presso la sezione Botanica del Museo di Storia Naturale di Firenze, che dal 1915 ospita il Museo Coloniale (ora Centro Studi Erbario Tropicale), che comprende una importante raccolta di piante africane (prevalentemente dell’Africa orientale) comprendente circa 180.000 campioni d’erbario, provenienti in gran parte da Etiopia, Somalia, Kenya, penisola Araba e territori circostanti. Guardando i campioni coloniali non si può ovviamente evitare di pensare al fatto che essi sono estremamente ben connotati geograficamente e temporalmente e provengono da missioni scientifiche di chiaro taglio imperialistico che indissolubilmente richiamano la storia del colonialismo italiano. Come gestire questi campioni? Dobbiamo pensare, come accaduto in alcuni musei stranieri, di restituirli alle nazioni di provenienza in una ottica di decolonizzazione delle nostre collezioni museali?

La risposta non è certamente semplice e le proposte avanzate sono le più disparate (su Pikaia ne abbiamo parlato qui qui), per cui in primo luogo può essere interessante capire come è nata, ad esempio, la botanica coloniale e cosa significa oggi affrontare l’eredità coloniale presente nelle scienze della vita. Una eccellente lettura per avvicinarsi a questo complesso problema è La bianca scienza (Eris Edizioni, 2024), scritto dal giornalista e science writer Marco Boscolo, che in un saggio breve, ma ricco di spunti, mira a far uscire il dibattito sulla decolonizzazione della scienza dalle aule universitarie e dalle pubblicazioni scientifiche.
 
Il saggio di Boscolo dedica un eccellente capitolo alla botanica coloniale mostrando l’importanza che le spedizioni africane hanno avuto nella nascita e crescita delle collezioni degli orti botanici italiani, così come di moltissimi orti botanici europei. Dall’altro, appare evidente come gli orti botanici non furono solamente “cataloghi” della conoscenza botanica, ma anche centri in cui la ricchezza botanica delle colonie poteva essere trasformata in risorse sfruttabili dalle potenze coloniali europee. Anzi, come suggerì a inizio Ottocento il botanico Thomas Dancer, si potrebbe addirittura arrivare a pensare che alcuni orti botanici siano nati espressamente per sfruttare la biodiversità coloniale, dato che queste strutture erano importanti anche per identificare le condizioni in cui coltivare le piante esotiche economicamente più interessanti, così da iniziare coltivazioni estensive in nazioni differenti da quelle di provenienza. Per altro, nell’Ottocento l’interesse non era solamente alimentare, ma anche medico, come insegna la storia della corteccia peruviana e del chinino, che Boscolo ben ricostruisce.
Dall’inizio del XVIII secolo l’interesse economico della Spagna nei confronti dei territori oltre l’Atlantico muta e segue la tendenza che altre potenze coloniali europee (…) stanno seguendo; una tendenza che si potrebbe riassumere dicendo che da quel momento fino alla fine dell’era coloniale il vero oro è quello verde della piante. (…) In questa fase si rinnova anche il ruolo dei giardini botanici che acquisiscono un’importanza crescente“.
(Marco Boscolo)
Il libro di Boscolo non si limita però all’analisi della botanica coloniale, ma mostra come in generale la scienza abbia fatto proprie numerose conoscenze provenienti da nazioni colonizzate, senza però dare un’adeguata evidenza al contributo che queste nazioni hanno fornito. Non aspettatevi però una narrazione esaustiva, perché l’obiettivo dell’Autore è di fare scattare nel vostro cervello un click (per riprendere la sua stessa metafora) e fare in modo che possa nascere l’interesse e la volontà di costruire percorsi di maggiore consapevolezza e responsabilità del modo in cui la scienza occidentale è divenuta quella che oggi conosciamo
Vedere com’è nata la scienza moderna secoli fa ci porta a capire come razzismo, patriarcato e capitalismo hanno ancora degli effetti sulla scienza odierna“.
(Marco Boscolo)


Decolonizzare: problema o opportunità?

Il libro di Marco Boscolo non propone possibili soluzioni o strategie per rendere la scienza più inclusiva e sensibile alle diverse tradizioni culturali, ma di questo l’autore è consapevole, tanto che la finalità del libro è di avviare un dialogo e offrire spunti di riflessione, anche perché le soluzioni possono essere molto diverse in ambiti scientifici differenti.

Leggendo La bianca scienza appare ancora più evidente, riprendendo il titolo di un articolo della giornalista Agnese Codignola, che ci sono ancora tantissime storie nascoste nei musei di storia naturale e, se affrontata in modo razionale, anche la decolonizzazione può essere un modo per sfruttare potenzialità inespresse delle collezioni naturalistiche di raccontare non solo la storia della scienza, ma più in generale la storia delle nazioni da cui i campioni provengono e il rapporto tra nazioni in epoca coloniale.

“Il lavoro dei musei è anche un lavoro politico, oltre che di conoscenza, ricerca e conservazione”.
(Agnese Codignola, Le storie nascoste nei musei di storia naturale)

Siamo abituati a vedere la scienza come neutra e neutrale, ma tanto le discipline scientifiche e umanistiche quanto le istituzioni universitarie sono state potenti strumenti politici, che hanno dato corpo al pensiero e ai canoni culturali del proprio tempo.

Decolonizzare non deve quindi necessariamente essere sinonimo di restituzione dei campioni (anche Marco Boscolo aveva discusso qui questi aspetti), perché questa azione non porterebbe al risultato più utile da conseguire, che è legato a una revisione più in generale della scienza, inclusa quella italiana, che è spesso ancora edulcorata rispetto al proprio passato coloniale.

I campioni coloniali presenti nella raccolta di Trotter sono quindi preziosi non solo per il dato scientifico che essi rappresentano, ma anche per le tante storie che essi possono raccontare. Potrà sembrare una esagerazione, ma studiando piccole galle ho sentito un click e ho iniziato a vederle come una vera e propria lente con cui guardare con maggiore dettaglio il mondo che mi circonda e la sua storia. Grazie al libro di Boscolo ho capito che studiare l’ecologia delle galle non significa solamente analizzare le relazioni dei viventi, tra loro e con l’ambiente in cui vivono, ma anche considerare la diversità delle storie delle persone che quei campioni hanno raccolto e più in generale le interazioni umane che si celano nei singoli campioni presenti.

“Ricostruire la storia di collezioni e musei italiani dedicati alla fauna esotica permette non solo di riconoscere l’intrinseca colonialità di tali raccolte, ma anche di guardare ad esse in modo più consapevole (o, se si vuole, decoloniale). (…) Esporre reperti, che si tratti di campioni botanici, mineralogici o animali tassidermizzati e diorami, evitando di riproporre il trionfalismo dell’uomo (europeo, bianco) sulla natura (coloniale, globale), contestualizzando storicamente le collezioni, non è solo possibile, ma è più che mai necessario”.
(Beatrice Falcucci, La difficile decolonizzazione delle scienze naturali)