L’eredità nascosta delle collezioni naturalistiche
Pikaia ha letto per voi “La bianca scienza”, l’ultimo libro di Marco Boscolo dedicato al complesso tema della decolonizzazione della scienza.
Queste collezioni naturalistiche includono migliaia di campioni raccolti in Europa e centinaia di galle e piante provenienti dall’Africa (in particolare dall’Eritrea e dall’Etiopia) inviate a Padova dal botanico Adriano Fiori a inizio del Novecento. Fiori aveva ricevuto dai ministeri degli Affari esteri e dell’Agricoltura e Industria l’incarico di studiare da un lato la presenza di specie “coloniali” interessanti per l’agricoltura italiana e dall’altro di capire quanto i territori annessi dalle politiche espansionistiche italiane potessero essere utilizzati per ospitare nuove coltivazioni necessarie per l’economia italiana. Fiori studiò, quindi, le alterazioni che la vegetazione aveva subito ad opera delle popolazioni locali e suggerì vari provvedimenti per la difesa e la ricostruzione del patrimonio boschivo. I campioni presenti nella collezione Trotter risultano di particolare interesse non solo perché costituiscono una vera e propria fotografia della biodiversità presente in Eritrea e Etiopia, ma anche perché sono stati inviati all’interno di buste e fogli di carta provenienti da uffici coloniali o della milizia coloniale, che ben raccontano il contesto in cui queste esplorazioni botaniche andavano a inserirsi.
Orti botanici, collezioni naturalistiche e colonialismo
La presenza di questi campioni al Museo dell’Orto Botanico di Padova non è certamente inusuale, dato che campioni analoghi sono presenti, ad esempio, presso la sezione Botanica del Museo di Storia Naturale di Firenze, che dal 1915 ospita il Museo Coloniale (ora Centro Studi Erbario Tropicale), che comprende una importante raccolta di piante africane (prevalentemente dell’Africa orientale) comprendente circa 180.000 campioni d’erbario, provenienti in gran parte da Etiopia, Somalia, Kenya, penisola Araba e territori circostanti. Guardando i campioni coloniali non si può ovviamente evitare di pensare al fatto che essi sono estremamente ben connotati geograficamente e temporalmente e provengono da missioni scientifiche di chiaro taglio imperialistico che indissolubilmente richiamano la storia del colonialismo italiano. Come gestire questi campioni? Dobbiamo pensare, come accaduto in alcuni musei stranieri, di restituirli alle nazioni di provenienza in una ottica di decolonizzazione delle nostre collezioni museali? La risposta non è certamente semplice e le proposte avanzate sono le più disparate (su Pikaia ne abbiamo parlato qui e qui), per cui in primo luogo può essere interessante capire come è nata, ad esempio, la botanica coloniale e cosa significa oggi affrontare l’eredità coloniale presente nelle scienze della vita. Una eccellente lettura per avvicinarsi a questo complesso problema è La bianca scienza (Eris Edizioni, 2024), scritto dal giornalista e science writer Marco Boscolo, che in un saggio breve, ma ricco di spunti, mira a far uscire il dibattito sulla decolonizzazione della scienza dalle aule universitarie e dalle pubblicazioni scientifiche.
Il libro di Boscolo non si limita però all’analisi della botanica coloniale, ma mostra come in generale la scienza abbia fatto proprie numerose conoscenze provenienti da nazioni colonizzate, senza però dare un’adeguata evidenza al contributo che queste nazioni hanno fornito. Non aspettatevi però una narrazione esaustiva, perché l’obiettivo dell’Autore è di fare scattare nel vostro cervello un click (per riprendere la sua stessa metafora) e fare in modo che possa nascere l’interesse e la volontà di costruire percorsi di maggiore consapevolezza e responsabilità del modo in cui la scienza occidentale è divenuta quella che oggi conosciamo.“Dall’inizio del XVIII secolo l’interesse economico della Spagna nei confronti dei territori oltre l’Atlantico muta e segue la tendenza che altre potenze coloniali europee (…) stanno seguendo; una tendenza che si potrebbe riassumere dicendo che da quel momento fino alla fine dell’era coloniale il vero oro è quello verde della piante. (…) In questa fase si rinnova anche il ruolo dei giardini botanici che acquisiscono un’importanza crescente“.
(Marco Boscolo)
“Vedere com’è nata la scienza moderna secoli fa ci porta a capire come razzismo, patriarcato e capitalismo hanno ancora degli effetti sulla scienza odierna“.
(Marco Boscolo)
Decolonizzare: problema o opportunità?
Leggendo La bianca scienza appare ancora più evidente, riprendendo il titolo di un articolo della giornalista Agnese Codignola, che ci sono ancora tantissime storie nascoste nei musei di storia naturale e, se affrontata in modo razionale, anche la decolonizzazione può essere un modo per sfruttare potenzialità inespresse delle collezioni naturalistiche di raccontare non solo la storia della scienza, ma più in generale la storia delle nazioni da cui i campioni provengono e il rapporto tra nazioni in epoca coloniale.
“Il lavoro dei musei è anche un lavoro politico, oltre che di conoscenza, ricerca e conservazione”.
(Agnese Codignola, Le storie nascoste nei musei di storia naturale)
Siamo abituati a vedere la scienza come neutra e neutrale, ma tanto le discipline scientifiche e umanistiche quanto le istituzioni universitarie sono state potenti strumenti politici, che hanno dato corpo al pensiero e ai canoni culturali del proprio tempo.
Decolonizzare non deve quindi necessariamente essere sinonimo di restituzione dei campioni (anche Marco Boscolo aveva discusso qui questi aspetti), perché questa azione non porterebbe al risultato più utile da conseguire, che è legato a una revisione più in generale della scienza, inclusa quella italiana, che è spesso ancora edulcorata rispetto al proprio passato coloniale.
I campioni coloniali presenti nella raccolta di Trotter sono quindi preziosi non solo per il dato scientifico che essi rappresentano, ma anche per le tante storie che essi possono raccontare. Potrà sembrare una esagerazione, ma studiando piccole galle ho sentito un click e ho iniziato a vederle come una vera e propria lente con cui guardare con maggiore dettaglio il mondo che mi circonda e la sua storia. Grazie al libro di Boscolo ho capito che studiare l’ecologia delle galle non significa solamente analizzare le relazioni dei viventi, tra loro e con l’ambiente in cui vivono, ma anche considerare la diversità delle storie delle persone che quei campioni hanno raccolto e più in generale le interazioni umane che si celano nei singoli campioni presenti.
“Ricostruire la storia di collezioni e musei italiani dedicati alla fauna esotica permette non solo di riconoscere l’intrinseca colonialità di tali raccolte, ma anche di guardare ad esse in modo più consapevole (o, se si vuole, decoloniale). (…) Esporre reperti, che si tratti di campioni botanici, mineralogici o animali tassidermizzati e diorami, evitando di riproporre il trionfalismo dell’uomo (europeo, bianco) sulla natura (coloniale, globale), contestualizzando storicamente le collezioni, non è solo possibile, ma è più che mai necessario”.
(Beatrice Falcucci, La difficile decolonizzazione delle scienze naturali)
Biologo e genetista all’Università di Modena e Reggio Emilia, dove studia le basi molecolari dell’evoluzione biologica con particolare riferimento alla citogenetica e alla simbiosi. Insegna genetica generale, molecolare e microbica nei corsi di laurea in biologia e biotecnologie. Ha pubblicato più di centosessanta articoli su riviste nazionali internazionali e tenuto numerose conferenze nelle scuole. Nel 2020 ha pubblicato per Zanichelli il libro Nove miliardi a tavola- Droni, big data e genomica per l’agricoltura 4.0. Coordina il progetto More Books dedicato alla pubblicazione di articoli e libri relativi alla teoria dell’evoluzione tra fine Ottocento e inizio Novecento in Italia.