Lumache cleptomani: l’ipotesi dei geni come “beni pubblici”

elysia chlorotica 499

Modelli alternativi e integrativi al 2tree thinking” sono stati proposti per spiegare le intricate relazioni genetiche tra i viventi. Un’ipotesi originale, anche se controversa, è quella di considerare i geni come “public goods”, beni pubblici non esclusivi né rivali

Elysia chlorotica è una lumaca di mare che ruba gli organelli della fotosintesi a un’alga e, grazie a un trasferimento orizzontale di geni dalla stessa alga, è capace di mantenerli in funzione. Questi e altri risultati recenti su inedite condivisioni e scambi di geni hanno portato alcuni ricercatori a mettere in dubbio l’onnicomprensività del tree thinking, cioè del pensare l’evoluzione secondo ramificazioni genealogiche divergenti e distinte per tutte le forme di vita sulla Terra. Modelli alternativi e integrativi sono stati proposti per spiegare le intricate relazioni genetiche tra i viventi. Un’ipotesi originale, anche se controversa, è quella di considerare i geni come “public goods”, beni pubblici non esclusivi né rivali.

La cleptomania è uno sfrenato impulso a rubare che riguarda una piccola percentuale di persone nella popolazione. Questa patologia comporta non poche conseguenze negative a livello sociale, basti pensare alla vergogna e ai possibili processi per furto. Molti saranno sorpresi nel venire a conoscenza che un comportamento simile si può trovare anche presso altri viventi, nello specifico presso un genere di molluschi, l’Elysia o lumaca di mare a energia solare(!).

La specie Elysia chlorotica è stata accusata di cleptoplastia, cioè di sottrazione di cloroplasti a Vaucheria litorea, un’alga di cui è ghiotta. Questa lumaca non digerisce i cloroplasti dell’alga di cui si ciba, ma riesce a inglobarli all’interno delle sue cellule e a farli lavorare per un periodo più lungo rispetto al loro tempo medio di funzionamento all’interno delle cellule della stessa alga. Questa chimera, metà animale e metà pianta, è rimasta un mistero per molto tempo e solo recentemente si sta iniziando a chiarire come sia possibile che rubi cloroplasti e ne allunghi il funzionamento traendone sostegno vitale[1]. I cloroplasti sono organelli complessi dentro i quali avviene la fotosintesi e che da soli non possono sopravvivere: per essere efficienti hanno bisogno di una serie di altre strutture che normalmente non sono prodotte dalle cellule degli animali, non abituate ad avere al loro interno questo genere di ospiti. Gli studi hanno mostrato che l’Elysia non ruba anche il resto delle strutture di supporto prodotte dalle alghe, ma le produce da sé grazie ad alcuni geni appositi. Ciò che lascia ancor più disorientati è il fatto che si tratta di geni derivati dall’alga, ma questa volta non rubati bensì ottenuti attraverso un processo noto come un trasferimento orizzontale di geni (HGT, dall’inglese Horizontal Gene Transfer[2]).

Se dovessimo disegnare l’albero genealogico dell’Elysia, i suoi nonni apparirebbero assai difformi e più numerosi del previsto. Il disegno necessiterebbe di una riga orizzontale, assai poco estetica, tracciata tra regni ben distinti, dalle piante verso gli animali. Quello che fino a ieri disegnavamo come un albero intricato e rigoglioso ma con rami ben distinti dovrebbe quindi essere “rovinato” da una riga orizzontale di connessione tra vari rami, che si supponevano totalmente indipendenti, almeno per quello che riguarda le relazioni genealogiche. Altre ricerche hanno portato, negli ultimi anni, ad accumulare dati su modalità inedite di trasmissione orizzontale di geni tra i viventi. Tutto ciò ha condotto a rivedere le basi dell’albero genealogico, che in alcune sue parti è risultato collassare su se stesso trasformandosi in una rete di relazioni complesse determinate da processi altrettanto intricati. Tutta questa serie di evidenze incongruenti con il modello ad albero ha stimolato la ricerca di ipotesi esplicative alternative. Tra le più interessanti vi è, in un articolo del 2011, un’ipotesi che propone di interpretare la storia della vita sulla Terra secondo la public goods hypothesis, cioè l’idea che alcuni geni possono essere interpretati come  “beni pubblici”[3].

Gli autori ritengono insoddisfacente il concetto di tree-thinking –  il modello dell’albero della vita che viene adoperato per interpretare molti processi evolutivi –  il quale implicherebbe solamente percorsi evolutivi costantemente divergenti, e che andrebbe oggi ripensato alla luce degli studi sul trasferimento orizzontale dei geni, oltre che degli studi compiuti su trasposoni, su plasmidi e virus. Una parte importante del problema riguarda anche il giusto sguardo con cui inquadrare i procarioti in una genealogia dei viventi più accurata, essendo sempre stati difficilmente conciliabili con le ricostruzioni ad albero (e dunque spesso ignorati nelle grandi ricostruzioni attraverso clausole ad hoc).

Per ovviare a queste deficienze gli autori propongono di partire da due assiomi: 1) tutte le entità evolutive dovrebbero essere incluse in un modello che fornisca un quadro evolutivo il più comprensivo possibile; 2) i geni si trasferiscono sia verticalmente che orizzontalmente. Il fulcro è l’interpretazione innovativa data ai geni come beni non esclusivi e non rivali: non esclusivi in quanto non si può escludere qualcuno dall’avere accesso a questa risorsa e non rivali in quanto l’uso che ne fa un individuo non preclude che anche un altro lo possa utilizzare al contempo (come esempio si pensi ai libri di una biblioteca virtuale pubblica, dove una copia informatica del libro sia liberamente accessibile a chiunque, questi sarebbero beni comuni, non esclusivi e non rivali; se invece come esempio si prendesse una normale biblioteca, i libri in copie limitate dovrebbero essere considerati non esclusivi ma rivali). Questi concetti nascono nell’ambito della riflessione economica e si inseriscono nel solco della lunga storia di metafore economiche cooptate in biologia. Charles Darwin, per esempio, attinse molto dalle riflessioni del demografo Thomas R. Malthus.

Ritornando all’ipotesi dei public goods, la reinterpretazione del ruolo dei geni va oltre: non tutti i geni sono beni pubblici, solo alcuni, altri sono private goods (beni privati, esclusivi e rivali) e club goods (beni propri di un club privilegiato, esclusivi ma non rivali per chi fa parte della combriccola). Si chiarisce così che esistono famiglie di geni condivisi, o condivisibili, da tutti i viventi, i quali permettono il funzionamento di processi vitali basilari comuni, mentre altri geni sono propri solo di certe linee di discendenza, e permettono lo svolgimento di funzioni particolari in interazione con un contesto specifico. Come è intuibile sono i club goods ad essere i più numerosi, e questo è implicato dall’ipotesi dell’albero della vita, che presuppone, secondo gli autori, che al gioco evolutivo debbano partecipare solo club goods o private goods. Da qui deriverebbe un problema nel descrivere una parte fondamentale delle relazioni genealogiche e interattive tra i viventi, una sorta di distorsione prospettica che condurrebbe a ignorare molti processi e soprattutto i public goods.

Per risolvere tali problemi si dovrebbe dare il giusto risalto a quei processi fino ad oggi sottostimati o ignorati. Ciò dovrebbe essere possibile grazie al nuovo modello, che prevede, in modo semplificato, che campioni di geni vengano continuamente estratti dall’insieme dei “beni pubblici”, e che la selezione naturale di genomi più adatti in un mondo in costante cambiamento stabilisca quali combinazioni di geni lavoreranno assieme e se per un breve o lungo periodo. Ma la proposta non è del tutto limpida e sono presenti alcune ambiguità. Per esempio non è chiaro dall’inizio quanto vada estesa e applicata l’ipotesi e se venga presentata come alternativa esclusiva rispetto all’albero della vita. Le ambiguità si risolvono in parte in alcuni passaggi dove gli autori specificano che gli schemi ad albero individuati fino ad oggi sarebbero soltanto una piccola parte dell’enorme rete di interconnessione tra i viventi, la quale sarebbe sfuggita finora ad una messa a fuoco precisa da parte dei ricercatori. Lo schema dell’albero della vita risulterebbe un’istanza regionalizzata rispetto all’ipotesi più comprensiva dei public goods.

In seguito alle recensioni critiche ricevute proprio a causa di questa ambiguità, gli autori hanno proposto un compromesso riconoscendo il valore euristico dell’albero della vita, ma continuando a sottolinearne le deficienze, che sorgono come anomalie in molti studi pubblicati negli ultimi anni, soffermandosi soprattutto sul trasferimento orizzontale di geni e su come alla base della diversità della vita, cioè tra le forme più semplici di batteri, sia difficile fare ordine e risolvere problemi attraverso la vecchia prospettiva. Quella rete di relazioni confuse e sovrapposte di scambi e comunanze geniche potrebbe trovare una spiegazione più soddisfacente proprio grazie alla nuova ipotesi mutuata dall’economia. Dunque alla fine l’ipotesi dei public goods può integrarsi con quella dell’albero della vita per spiegare più processi genealogici ai vari livelli di complessità delle forme di vita.

Gli autori concludono confidando di riuscire a portare prove più solide di questa idea nei prossimi anni, accontentandosi per ora di fomentare il dibattito e focalizzare l’attenzione sulle mancanze del modello dell’albero della vita. Ci sono più che buone ragioni che premono per un’implementazione o revisione del vecchio concetto dell’albero della vita, visto il disorientamento che può sorgere in seguito allo studio di casi come quello di Elysia. L’idea che i geni prelevati dall’alga possano essere considerati beni comuni è allettante, ma come conclude il filosofo della biologia John Duprè in un commento all’articolo: “Non sono del tutto convinto che l’ipotesi dei public goods sia una metafora capace di svolgere tutto il lavoro teoretico elaborato attraverso l’albero della vita. Ma al peggio si tratta di una via intrigante capace di sollevare questioni interessanti, le quali potrebbero condurre a un qualche nuovo strumento intellettuale più che produttivo.” Dopotutto gli studiosi dell’evoluzione non negheranno certo la possibilità che anche i concetti esplicativi possano evolvere.

Olmo Viola, da La Mela di Newton

NOTE

[1] Rumpho, Mary E., et al. “Horizontal gene transfer of the algal nuclear gene psbO to the photosynthetic sea slug Elysia chlorotica.” Proceedings of the National Academy of Sciences 105.46 (2008): 17867-17871.

Sidney K. Pierce, Xiaodong Fang, Julie A. Schwartz, Xuanting Jiang, Wei Zhao, Nicholas E. Curtis, Kevin M. Kocot, Bicheng Yang, Jian Wang; Transcriptomic Evidence for the Expression of Horizontally Transferred Algal Nuclear Genes in the Photosynthetic Sea Slug, Elysia chlorotica. Mol Biol Evol 2012; 29 (6): 1545-1556. doi: 10.1093/molbev/msr316.

Julie A. Schwartz, Nicholas E. Curtis, and Sidney K. Pierce, “FISH Labeling Reveals a Horizontally Transferred Algal (Vaucheria litorea) Nuclear Gene on a Sea Slug (Elysia chlorotica) Chromosome,” The Biological Bulletin 227, no. 3 (December 2014): 300-312.

[2] Forma di trasferimento di geni non verticale, che ovvero non avviene tra una generazione e l’altra:  un organismo può passare alcuni dei propri geni a un’altra cellula non discendente. Un esempio tipico è la coniugazione batterica.

[3] McInerney, James O., et al. “The public goods hypothesis for the evolution of life on Earth.” Biology direct 6.1 (2011): 41.