Mai più la parola “razza”
Rimuovere il termine dal nostro linguaggio e dai documenti pubblici ha una valenza culturale e pedagogica, oltre che storica, politica ed etica, anche per la possibilità che ci offre di mostrare come e perché questa categoria tassonomica non trovi più posto nel dizionario scientifico antropologico
Da quando i naturalisti e i primi antropologi del Settecento si misero al lavoro nel tentativo di comprendere l’inestricabile intreccio della biodiversità umana, al razzismo che spesso anima la mente e i comportamenti umani si è affiancata, in forme sempre più condizionate dal clima culturale e socio-economico delle varie epoche, una sorta di giustificazione scientifica. Questa legittimazione ha preso il nome di “antropologia razziale” e si è fondata sull’applicazione del criterio di razza allo studio della variabilità della specie umana. I primi antropologi si dovettero infatti confrontare con un problema che diverrà in seguito “il problema”: quello di mettere ordine e di comprendere la variabilità interna alla specie umana. Rimarrà per quasi due secoli un argomento centrale e tormentato; una sorta di peccato originale per l’antropologia. La razza è una categoria che si utilizza per frazionare la variabilità interna alle specie. In realtà sarebbe meglio usare questo rango tassonomico solo per le specie allo stato domestico (razze di cani o di cavalli etc.), mentre nella sistematica delle specie naturali sarebbero più correttamente da utilizzare i ranghi di sottospecie o di varietà geografica. Il rango (zootecnico) di razza è tuttavia entrato nell’uso comune ed è uno dei criteri che si possono utilizzare per frazionare una specie allo scopo di orientarsi nella variabilità di questa. In prima approssimazione, è sembrata una categoria applicabile anche alla nostra specie, ma in realtà, come vedremo fra breve, questa operazione si è rivelata del tutto inappropriata e inefficace. Il razzismo, invece, è un’altra cosa. Potremmo definirlo uno stato d’animo, un atteggiamento emozionale, un impulso deviato, che tormenta gli uomini da tempo immemore. Può esistere cioè un impulso razzista, che è fatto di pregiudizi, intolleranza, discriminazione e che può essere basato sull’appartenenza a un determinato gruppo umano. Prende infatti le mosse da aspetti diversi della nostra identità: il linguaggio, la religione, le condizioni socioeconomiche, le tradizioni, le acconciature, il colore della pelle, il sesso e così via. Ne conosciamo innumerevoli esempi e alcuni, purtroppo, sono di stringente attualità. All’inizio, in pieno Illuminismo, il termine razza – da allora entrato, a torto o a ragione, nel linguaggio scientifico e in quello comune – venne utilizzato per denotare classi di individui accomunati da un certo numero di caratteristiche. Più tardi però, soprattutto nell’Ottocento positivista, il suo uso divenne sempre più tipologico. La tipologia divenne poi gerarchia, portando a distinguere fra razze superiori e razze inferiori. La conoscenza dei popoli altri, derivante dall’espansione coloniale e dai grandi viaggi di esplorazione, portò a catalogare la diversità fra gli esseri umani al servizio di società che promulgavano le classificazioni stesse. Se ne legittimarono così il colonialismo, lo schiavismo e la persecuzione dei popoli (o razze) considerati “inferiori”. Da qui alle degenerazioni del Novecento – come furono il nazismo e i campi di sterminio – il passo è stato breve. Gli antropologi portano dunque la responsabilità di essersi prestati con le loro classificazioni – soprattutto in alcuni aberranti casi – ad avallare, di fatto, il razzismo. Tuttavia, lo fecero insieme a buona parte della comunità intellettuale scaturita da quelle società che si ostinavano a considerare come “scientificamente provato” il proprio razzismo. Se prendiamo ad esempio la lista dei dieci scienziati che firmarono in Italia il famigerato Manifesto della razza del 1938, due soli erano antropologi (il romano Guido Landra e il fiorentino Lidio Cipriani), ma c’erano anche tre medici, due zoologi, un fisiologo, uno psichiatra e un demografo. Così stanno le cose. Comunque sia, mentre gli antropologi e la comunità scientifica in genere (o, almeno, parte di essa) entravano in un circolo vizioso sempre più scientificamente inaccettabile e si spingevano a catalogare una miriade di razze – una classificazione per ogni classificatore, come aveva già notato un certo Charles Darwin nel 1871 – diventava al tempo stesso più evidente che le razze umane (o comunque le si voglia chiamare) in realtà non esistono e che il tentativo di organizzare razionalmente la variabilità umana, frazionandola in categorie sistematiche, li aveva fatti cadere in un drammatico equivoco. Per quanto avessero potuto usare altri termini (come sottospecie, o varietà geografica), il problema sarebbe rimasto lo stesso: le categorie tassonomiche intraspecifiche non funzionano quando applicate al caso della specie umana; insomma, frazionare l’umanità in gruppi discreti, in una stabile classificazione, non risulta oggettivamente possibile. Detto molto in breve, ecco perché. In primo luogo, non è possibile marcare i confini della nostra variabilità in base a un determinato fenotipo o genotipo, visto che la diversità di molti caratteri (che pure esiste) segue andamenti clinali graduali e continui, ossia gradienti di variabilità geografica. Non si presenta dunque, quasi mai, in forma discontinua; parlando ad esempio di colore della pelle, non esistono il “bianco” o il “nero”, ma una quantità di sfumature che variano fra due estremi; parlando di gruppi sanguigni, esistono sì variazioni discrete, ma le frequenze di queste mutano da una popolazione a quella contigua. E la lista dei gradienti di variabilità continua all’interno della biodiversità umana potrebbe continuare a lungo. Inoltre, non è possibile circoscrivere gruppi distinti in quanto, se consideriamo più caratteri alla volta, l’intreccio diventa sempre più inestricabile poiché la variabilità di ciascun carattere (e di ciascun gradiente) segue un suo proprio andamento geografico, differente dagli altri; ad esempio, mentre il colore della pelle è variabile secondo la latitudine, la forma degli occhi mostra una tendenza a variare perlopiù secondo la longitudine e così via. C’è poi da aggiungere un altro aspetto molto significativo: il grado di variabilità interna alle popolazioni umane. Siamo spesso più diversi all’interno delle popolazioni che non nel confronto fra individui appartenenti a popolazioni differenti; ad esempio, due europei presi a caso possono risultare molto differenti tra loro, molto di più di quanto ciascuno lo sia con un nordafricano, un iraniano o un mongolo. In sintesi, il punto è questo: la diversità umana attuale – che è scaturita da un’origine piuttosto recente della specie (intorno a 200 mila anni fa in Africa) – viene costantemente attenuata dagli effetti delle nostre straordinarie capacità culturali di adattamento agli ambienti più disparati, dalla sempre più fitta densità di popolazione, che favorisce il flusso genico, dalle continue emigrazioni che hanno caratterizzato la preistoria come tutto il corso della storia. Il risultato è che, per quanto siamo diversi, la nostra specie è una di quelle per cui è difficile parlare di sottospecie o varietà geografiche (o razze, se proprio non possiamo fare a meno di usare un termine zootecnico). La variabilità interna a una determinata popolazione fluisce così in quella di altre, senza soluzione di continuità; esistono semmai dei poli di questa nostra diversità, tali però da non poter essere imbrigliati in una convincente tassonomia, tanto meno in una tassonomia “razziale” o, peggio, “razzista”.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 2 giugno sul blog dell’Accademia Nazionale dei Lincei sull’Huffington Post Italia ed è qui riprodotto con il consenso degli interessati.
Immagine: originale della Costituzione conservato al Quirinale, di Egiglia, CC BY-SA 3.0, attraverso Wikimedia Commons
Antropologo e paleontologo, è professore ordinario alla Sapienza Università di Roma, dove è direttore del Museo di Antropologia G. Sergi e insegna nella Facoltà di Scienze, in quella di Medicina, nella Scuola di Specializzazione in Beni archeologici e nel Dottorato in Biologia ambientale ed evoluzionistica. Socio corrispondente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, è stato segretario generale dell’Istituto Italiano di Paleontologia Umana, direttore del Polo museale Sapienza e associate editor dell’American Journal of Physical Anthropology. La sua attività scientifica include aspetti di morfologia funzionale, evoluzione umana e biologia delle popolazioni umane antiche. Come divulgatore scientifico, collabora con quotidiani, periodici, trasmissioni radio e TV: ben nota la sua rubrica mensile su “Le Scienze” (ed. it. di Scientific American); fra i libri: “Il grande racconto dell’evoluzione umana” (Il Mulino 2013), “Ultime notizie sull’evoluzione umana” (Il Mulino 2017) e “L’ultimo Neanderthal racconta (Il Mulino 2021)”.