Dai Neanderthal alle sfide della paleoantropologia: l’ultimo libro di Giorgio Manzi
Pikaia ha letto per voi “L’ultimo Neanderthal racconta – Storie prima della storia ” (il Mulino, 2021), l’ultimo libro del paleoantropologo Giorgio Manzi. Un’avvincente racconto del nostro passato alla scoperta della complessità biologica e culturale degli Ominidi
La paleoantropologia, lo studio dell’uomo e della sua evoluzione, è una scienza complessa. Altrettanto complesso è il compito di divulgarla correttamente. Difatti, un buon divulgatore deve essere in grado di semplificare il risultato delle proprie ricerche, senza che di tale semplificazione ne scapiti il rigore scientifico.
In L’ultimo Neanderthal racconta: storie prima della storia (Il Mulino, 2021) Giorgio Manzi, docente di paleoantropologia presso La Sapienza di Roma, fornisce una dettagliata e accurata descrizione dello stato dell’arte raggiunto dagli studi evoluzionistici, accompagnando anche il lettore meno esperto attraverso la natura prismatica dell’evoluzione umana, biologica e culturale. Il libro non è una monografia su Homo neanderthalensis, anche se ad esso sono dedicati due capitoli (V e VIII: quest’ultimo sui Neanderthal italiani. Pikaia ne ha parlato qui). Al contrario, l’incontro che Manzi si trova ad avere con un Neanderthal, nei pressi del promontorio del Circeo, diviene un espediente letterario per trattare l’evoluzione degli Ominidi nei suoi molteplici aspetti. Negli ultimi centocinquant’anni, da quando Charles Darwin pose l’attenzione sulla storia della nostra specie (si veda L’origine dell’uomo, 1871. Pikaia ne ha parlato qui), i progressi compiuti sono stati enormi. Lo sviluppo della paleogenetica e della paleoclimatologia, delle tecniche di datazione radiometriche, senza contare i numerosi ritrovamenti paleontologici e archeologici, hanno permesso ai ricercatori di fornire un quadro sempre più accurato dell’evoluzione di Homo sapiens e dei suoi antenati.
Come Manzi ben evidenzia, non si tratta di un’impresa semplice ed esente da problemi, di metodo, soprattutto. La ricerca scientifica non può e non deve fermarsi alla raccolta di dati, come se essi potessero essere incastonati alla perfezione in un puzzle. Al contrario, questi dati vanno interpretati, e qui sorgono le difficoltà. Sebbene l’interdisciplinarietà della paleoantropologia sia un ottimo antidoto al predominio ermeneutico (interpretativo) che una sola scienza potrebbe stabilire, la sua natura di scienza storica, non rigorosamente sperimentale, pone delle sfide.
Facciamo un po’ di chiarezza: è vero, attraverso l’archeologia sperimentale e le simulazioni al computer siamo in grado di acquisire un gran numero di informazioni. Possiamo studiare i processi di produzione degli utensili, ricostruire fasi climatiche e alberi filogenetici; tuttavia, non ci è possibile tornare fisicamente indietro nel tempo ed osservare direttamente la vita quotidiana dei nostri antenati. E, siccome, l’assoluta oggettività scientifica in sé non è attuabile, perché anche gli scienziati sono influenzati da fattori sociali e culturali, il rischio è quello che la permeabilità dell’essere umano ai pregiudizi influenzi negativamente il rigore scientifico di un’interpretazione.
Così è stato per gli studi sui Neanderthal che, per lungo tempo, furono considerati una specie intellettualmente e culturalmente inferiore. Oggi conosciamo molto meglio questi nostri cugini, e possiamo affermare con sicurezza che la competizione fra Neanderthal e Sapiens fu serrata. Grazie alla rivalutazione, e talvolta, abbandono di concetti quali “evoluzione lineare” “complessità progressiva” e all’integrazione di nuove tecniche di studio dell’evoluzione cerebrale, è stato possibile ridimensionare la supremazia di Homo sapiens per poter apprezzare al meglio, con rinnovata razionalità scientifica, la meraviglia della nostra, irripetibile storia.
Di storia, infatti, sarebbe opportuno parlare per l’intera fase dell’evoluzione culturale. L’antico spartiacque tra “storia” e “preistoria” può essere sì utile per ragioni storiografiche; tuttavia, tale distinzione non fa giustizia al nostro passato preistorico e ad una diversità di culture materiali che accompagna l’evoluzione degli Ominidi da oltre tre milioni di anni. Il fatto che dall’avvento della scrittura, in poche migliaia di anni, lo sviluppo tecnologico abbia conosciuto un’importante e rapida diversificazione, non autorizza a svalutare la precedente esplosione culturale verificatasi con la comparsa del genere Homo, relegandola a poche pagine introduttive negli odierni manuali scolastici. Un altro pregiudizio, questo, radicato in un persistente antropocentrismo. Il saggio di Manzi offre questi ed altri spunti di riflessione all’intersezione fra scienza e filosofia. Non ci è possibile render conto della diversità dei temi trattati nel libro, né dei concetti impiegati nella stesura di questa recensione. Proprio per questi motivi, possiamo concludere dicendo che L’ultimo Neanderthal racconta è un testo senz’altro affascinante per la sua capacità di trascinare il lettore nelle spire del tempo profondo delle nostre origini. Quale narrazione più avvincente di un’evoluzione unica nel suo genere?
In L’ultimo Neanderthal racconta: storie prima della storia (Il Mulino, 2021) Giorgio Manzi, docente di paleoantropologia presso La Sapienza di Roma, fornisce una dettagliata e accurata descrizione dello stato dell’arte raggiunto dagli studi evoluzionistici, accompagnando anche il lettore meno esperto attraverso la natura prismatica dell’evoluzione umana, biologica e culturale. Il libro non è una monografia su Homo neanderthalensis, anche se ad esso sono dedicati due capitoli (V e VIII: quest’ultimo sui Neanderthal italiani. Pikaia ne ha parlato qui). Al contrario, l’incontro che Manzi si trova ad avere con un Neanderthal, nei pressi del promontorio del Circeo, diviene un espediente letterario per trattare l’evoluzione degli Ominidi nei suoi molteplici aspetti. Negli ultimi centocinquant’anni, da quando Charles Darwin pose l’attenzione sulla storia della nostra specie (si veda L’origine dell’uomo, 1871. Pikaia ne ha parlato qui), i progressi compiuti sono stati enormi. Lo sviluppo della paleogenetica e della paleoclimatologia, delle tecniche di datazione radiometriche, senza contare i numerosi ritrovamenti paleontologici e archeologici, hanno permesso ai ricercatori di fornire un quadro sempre più accurato dell’evoluzione di Homo sapiens e dei suoi antenati.
Come Manzi ben evidenzia, non si tratta di un’impresa semplice ed esente da problemi, di metodo, soprattutto. La ricerca scientifica non può e non deve fermarsi alla raccolta di dati, come se essi potessero essere incastonati alla perfezione in un puzzle. Al contrario, questi dati vanno interpretati, e qui sorgono le difficoltà. Sebbene l’interdisciplinarietà della paleoantropologia sia un ottimo antidoto al predominio ermeneutico (interpretativo) che una sola scienza potrebbe stabilire, la sua natura di scienza storica, non rigorosamente sperimentale, pone delle sfide.
Facciamo un po’ di chiarezza: è vero, attraverso l’archeologia sperimentale e le simulazioni al computer siamo in grado di acquisire un gran numero di informazioni. Possiamo studiare i processi di produzione degli utensili, ricostruire fasi climatiche e alberi filogenetici; tuttavia, non ci è possibile tornare fisicamente indietro nel tempo ed osservare direttamente la vita quotidiana dei nostri antenati. E, siccome, l’assoluta oggettività scientifica in sé non è attuabile, perché anche gli scienziati sono influenzati da fattori sociali e culturali, il rischio è quello che la permeabilità dell’essere umano ai pregiudizi influenzi negativamente il rigore scientifico di un’interpretazione.
Così è stato per gli studi sui Neanderthal che, per lungo tempo, furono considerati una specie intellettualmente e culturalmente inferiore. Oggi conosciamo molto meglio questi nostri cugini, e possiamo affermare con sicurezza che la competizione fra Neanderthal e Sapiens fu serrata. Grazie alla rivalutazione, e talvolta, abbandono di concetti quali “evoluzione lineare” “complessità progressiva” e all’integrazione di nuove tecniche di studio dell’evoluzione cerebrale, è stato possibile ridimensionare la supremazia di Homo sapiens per poter apprezzare al meglio, con rinnovata razionalità scientifica, la meraviglia della nostra, irripetibile storia.
Di storia, infatti, sarebbe opportuno parlare per l’intera fase dell’evoluzione culturale. L’antico spartiacque tra “storia” e “preistoria” può essere sì utile per ragioni storiografiche; tuttavia, tale distinzione non fa giustizia al nostro passato preistorico e ad una diversità di culture materiali che accompagna l’evoluzione degli Ominidi da oltre tre milioni di anni. Il fatto che dall’avvento della scrittura, in poche migliaia di anni, lo sviluppo tecnologico abbia conosciuto un’importante e rapida diversificazione, non autorizza a svalutare la precedente esplosione culturale verificatasi con la comparsa del genere Homo, relegandola a poche pagine introduttive negli odierni manuali scolastici. Un altro pregiudizio, questo, radicato in un persistente antropocentrismo. Il saggio di Manzi offre questi ed altri spunti di riflessione all’intersezione fra scienza e filosofia. Non ci è possibile render conto della diversità dei temi trattati nel libro, né dei concetti impiegati nella stesura di questa recensione. Proprio per questi motivi, possiamo concludere dicendo che L’ultimo Neanderthal racconta è un testo senz’altro affascinante per la sua capacità di trascinare il lettore nelle spire del tempo profondo delle nostre origini. Quale narrazione più avvincente di un’evoluzione unica nel suo genere?
Consegue la laurea triennale in Antropologia evoluzionistica presso l’Università di Liverpool (2020) e magistrale in Filosofia della biologia e delle scienze cognitive presso l’Università di Bristol (2021). Interessato alla storia delle idee, con particolare riferimento a Darwin, si avvicina alla storia della filosofia, su tutte quella medievale e moderna