Saper leggere lo scheletro per ricostruire il passato delle specie umane: intervista alla prof.ssa Maria Giovanna Belcastro (prima parte)
La nuova intervista di “L’evoluzione non ha genere” è alla prof.ssa Maria Giovanna Belcastro, studiosa dei resti scheletrici umani in chiave evolutiva. Abbiamo parlato di antropologia, collezioni accademiche e colonialismo scientifico.
La prof.ssa Maria Giovanna Belcastro lavora presso il Dipartimento di Scienze Biologiche, Geologiche e Ambientali dell’Università di Bologna. Dal 2023 è Accademica benedettina dell’Istituto delle Scienze di Bologna e dal 2024 presidente della Associazione Antropologica Italiana. L’ho incontrata online, nel mese di giugno, e ha risposto alle nostre domande per la rubrica L’evoluzione non ha genere, portandoci in un viaggio alla scoperta dei segreti nascosti dello scheletro umano per comprendere il passato delle specie umane.
La prima parte dell’intervista si focalizza sulle collezioni accademiche e, in particolare, sull’importanza di quelle antropologiche; prosegue con una riflessione sulla scienza occidentale e il colonialismo; infine, evidenzia l’approccio moderno allo studio dei fossili umano.
“Che provengano dalla preistoria o da epoche storiche, i resti umani racchiudono uno straordinario potenziale informativo per la nostra evoluzione bioculturale e per la ricostruzione delle storie di vita del passato. Costituiscono la base della ricerca scientifica in antropologia, ma sono anche di grande interesse per la museologia, per la didattica scolastica e universitaria, per la diffusione delle conoscenze scientifiche sulla natura umana”
(Quel che resta, Belcastro, Manzi, Moggi Cecchi – il Mulino 2022).
I musei accademici conservano e gestiscono il patrimonio culturale delle università, a cui si aggiunge la valorizzazione e l’accrescimento di un patrimonio culturale di particolare rilevanza storica, scientifica e sociale. Il museo di antropologia, di cui è responsabile scientifica, realizza laboratori didattici, incontri, percorsi di visita?
I musei scientifici universitari fanno parte e sono gestiti dal Sistema Museale di Ateneo, la cui organizzazione varia nelle diverse accademie. Questi contengono e si sono arricchiti nel tempo di reperti che facevano parte degli ex-istituti universitari e rispecchiano le scelte di ricerca e didattica che questi avevano. Personalmente ho la responsabilità scientifica delle collezioni antropologiche. Il mio compito, quindi, è quello di valorizzare e promuovere la education in senso ampio e il suo legame con l’avanzamento della ricerca. Mi occupo, quindi, della formazione universitaria di studentesse e studenti: spiego loro sia gli aspetti scientifici, evidentemente legati allo studio dell’evoluzione umana, ma anche la storia della disciplina, che è fortemente legata alle direttrici scientifiche di ricerca nel tempo. Questo è possibile farlo anche attraverso le collezioni museali.
Tuttavia, non vi è personale strutturato che si occupi con continuità delle collezioni. Le visite sono gestite da personale non strutturato – volontari del servizio civile nazionale e altro personale temporaneo – cui fornisco le conoscenze di base per raccontare alle scolaresche le linee generali della storia evolutiva uman , dando anche le basi metodologiche per la lettura e lo studio dello scheletro umano che racchiude informazioni biologiche ma anche aspetti comportamenti e culturali in chiave evolutiva. A questo scopo, vi sono scheletri umani esposti. Tra le visitatrici e i visitatori la risposta più interessante e la migliore valorizzazione di queste collezioni, che sempre più pongono problemi etici anche nell’esposizione, vengono dai bambini e dalle bambine per le domande e gli spunti che offrono. Sono certamente più aperti alle novità, alla comprensione di cose che non conoscono, sono senza filtri e rendono anche molto divertente il lavoro museale. Purtroppo per l’esiguità delle risorse, per l’assenza di personale strutturato, e per la peculiarità delle collezioni antropologiche, all’interno del panorama di altre collezioni scientifiche sono quelle più difficili da gestire e forse anche quelle meno valorizzate.
Eppure, spesso, non basta visitare autonomamente e una sola volta il patrimonio culturale delle università…
Sì, questo vale soprattutto per la sezione di paleoantropologia in cui sono esposti calchi di numerosi fossili e il cui racconto rischia di mostrare l’evoluzione come un processo lineare e progressivo. Questa sezione diventa velocemente obsoleta per i continui aggiornamenti e per le novità che periodicamente emergono. Sarebbe da ripensare, da riorganizzare secondo una moderna concezione di fruizione museale, ma per questo occorrono molte risorse. Inoltre, sarebbe preziosa la figura del conservatore e del curatore, cioè di professioniste e professionisti di collezioni scientifiche che si occupino e operino costantemente all’interno del museo. Queste figure dovrebbero svolgere quel ruolo di mediazione che le collezioni antropologiche necessitano per la loro fruizione e quindi fornire una corretta narrazione e contestualizzazione. Per diversi motivi infatti – modalità espositive e contenuti – le nostre collezioni antropologiche possono essere difficili da comprendere e dal momento che le risorse sono esigue e che l’impianto al momento è difficile da modificare, ecco che l’aspetto narrativo diventa quello più importante.
In un suo articolo del 2022 evidenzia gli aspetti scientifici ed etici derivanti dallo studio degli scheletri umani appartenenti alle collezioni accademiche. Le collezioni osteologiche provengono da doni o scambi con altri musei o istituti antropologici, da scavi archeologici di necropoli, di insediamenti fortificati dell’età del bronzo e del ferro o grotte; da riesumazioni cimiteriali o da ossari; o vengono acquisite da ospedali o da altri enti assistenziali. Uno scheletro racchiude in sé informazioni utili a ricostruire il profilo biologico della persona (età, sesso, stato di salute) e aspetti legati alla vita (professione, cause del decesso). Tuttavia, i resti umani ci portano anche al concetto di identità e alla memoria. Come sono nate le collezioni osteologiche?
Questo è un punto molto importante perché di fatto le collezioni antropologiche comprendono diversi tipi di collezioni: tra queste ci sono quelle osteologiche acquisite tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento quando l’Antropologia nasceva in tutta Europa come disciplina autonoma e scientifica nel mondo accademico. Nascevano gli istituti di Antropologia e ciascun istituto si dotava di museo annesso, di biblioteca e rivista scientifica.
Tra le collezioni osteologiche ci sono quelle archeologiche, che derivano sostanzialmente da scavi e quelle cosiddette documentate che derivano soprattutto da riesumazioni cimiteriali. L’acquisizione delle collezioni era inizialmente propedeutica allo studio della variabilità umana in chiave classificatoria. Questo è avvenuto un po’ in tutta Europa ma anche negli Stati Uniti.
Nel frattempo, l’antropologia è cambiata…
“[…] La paleoantropologia si incanala inizialmente senza novità nei retaggi classificatori e gerarchici che impregnavano gli studi archeologici e antropologici affermatisi tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, rappresentati da una visione antropocentrica androcentrica”
(Paola Govoni, Maria Giovanna Belcastro, Alessandra Bonoli, Giovanna Guerzoni, 2024, p.42).
Inizialmente anche la scoperta di fossili umani rientrava in quegli schemi classificatori dei primi anni del Novecento ed è occorso molto tempo prima che la storia evolutiva umana fosse vista come un processo dinamico non lineare. Anche la scoperta e la pubblicazione del cranio infantile di Taung (Sud Africa) come nuova specie (Australopithecus africanus) ad opera di Raymond Dart rispettivamente nel 1924 e 1925 ha tardato ad essere compresa.
Quindi sì, sono cambiati profondamente i paradigmi dell’antropologia e, da una disciplina votata alla classificazione della variabilità umana, si è giunti a uno studio dinamico, basato sulla comprensione della variabilità in chiave evolutiva, denso di cambiamenti. A questo hanno contribuito la continua scoperta di nuovi fossili e nuove tecniche di indagine, tra cui quelle biomolecolari.
In questo contesto lo studio dello scheletro umano, oltre alla ricostruzione del profilo biologico (età, sesso…) consente di leggere i processi trasformativi subiti nel corso della vita (l’invecchiamento, le malattie, le attività lavorative, ecc.) e nel corso dell’evoluzione contribuendo a leggere in chiave dinamica la variabilità all’interno della stessa specie o tra specie diverse.
Perché le collezioni osteologiche sono importanti?
Le collezioni documentate ci consentono di capire la variabilità di alcuni tratti sulla base, ad esempio, dell’età o del sesso, che poi possono essere utilizzati, con le dovute cautele, per studiare quella di popolazioni antiche. In altre parole, se è nota una malattia che colpisce prevalentemente il sesso femminile e che lascia tracce sullo scheletro, è possibile trasferire queste informazioni in popolazioni estinte per diagnosticare il sesso e per ricostruire lo stato di salute. In Italia ci sono poche collezioni documentate: tra queste si ricordano quelle numericamente più consistenti, quella dell’Università di Bologna (circa mille scheletri di individui morti tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento) che abbiamo definito DOHC (Documented Osteological Human Collection) e quella del Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense (LABANOF) dell’Università degli Studi di Milano, altre all’Università di Firenze.
Qual è il nodo nello studio di queste collezioni?
Principalmente il fatto che esse racchiudono anche significati legati alla persona e alla sua storia. Riferirsi a una persona significa parlare di un’identità precisa, di un’appartenenza a un gruppo, della ricostruzione della memoria all’interno di quel gruppo. Lo stesso uso della parola “materiali”, che noi antropologi utilizziamo per definire l’oggetto di studio, lo scheletro umano, è un termine che contrasta con il significato che lo scheletro può avere come rappresentazione di una persona, della sua identità, dell’ancestralità rispetto a uno specifico gruppo. È evidente che uno scheletro non rappresenta un individuo, però è ciò che ne rimane. Questa considerazione e questa consapevolezza sono una premessa fondamentale che accompagna i nostri studi. Un profondo senso di rispetto verso il proprio lavoro e anche un grande senso di responsabilità accompagna le nostre attività di ricerca, didattica e di disseminazione del sapere.
Vi sono strategie condivise per rendere i lavori accademici sui resti umani più equi e rispettosi della dignità e della memoria degli individui su cui si fa ricerca?
Da questo punto di vista, gli antropologi dovrebbero soffermarsi di più su questi temi. Il mondo al di fuori dell’accademia è generalmente poco informato sulla ricerca antropologica e su come essa venga svolta. Quindi, le antropologhe e gli antropologi dovrebbero imparare a rispondere anche a questi temi e a domande sempre più emergenti e anche critiche. Che si lavori con resti antichi, siano analisi poco o più invasive che prevedono ad esempio l’estrazione del DNA da resti umani estinti, o che si lavori con popolazioni viventi, occorre fare molta attenzione al linguaggio e all’approccio al “materiale”. Per questo stiamo provvedendo come Associazione Antropologica Italiana a dotarci di specifiche linee guida facendo anche riferimento a ciò che in altri contesti europei è stato realizzato. Ciò rende il modo di lavorare e di fare ricerca più consapevole, responsabile e sostenibile.
Proviamo a mettere in evidenza il legame tra scienza occidentale e colonialismo. Il sapere scientifico relativo alle collezioni osteologiche umane, così come lo conosciamo, è stato influenzato e modellato dalla storia coloniale?
Ammetto che si tratta di un tema molto complesso e vasto, già affrontato, negli ultimi vent’anni in Europa, soprattutto da Francia e Gran Bretagna. In Italia è un tema che solo recentemente si inizia ad affrontare e poco nella comunità accademica scientifica. Io personalmente sono molto interessata a questi temi perché sono strettamente legati al cambiamento dei paradigmi antropologici e alla sostenibilità delle nostre ricerche. Aspetti ed eventi storici, sociali e culturali hanno avuto e hanno un grande impatto sugli indirizzi di ricerca, anche antropologica. Anche la storia del colonialismo è strettamente legata all’antropologia. A questo proposito, ho vinto il progetto europeo COLUMN (Colonial Legacies of Universities: Materialities and New Collaborations) su questi temi, ovviamente in collaborazione con storiche e storici della scienza, economiste ed economisti, esperti di studi culturali. Il mio contributo è relativo ad alcune collezioni antropologiche, simbolo della scienza antropologica nel periodo compreso tra le due guerre mondiali, ma partendo dall’inizio del colonialismo italiano alla fine del 1800 e primi del 1900 con le prime conquiste coloniali in Eritrea, Somalia e Libia. Sebbene infatti il colonialismo italiano sia in genere percepito come meno rilevante e più blando, in realtà non è così. Quindi, parte delle collezioni scientifiche e anche antropologiche che si riferisce a quel periodo, a quel modo di fare scienza, a quel modo di recuperare dati, pone problemi di studio, narrazione ed esposizione.
Il progetto si basa soprattutto sullo studio dei cosiddetti calchi facciali realizzati da Lidio Cipriani (1892–1962) dall’Africa all’Asia. Ricordiamo che Cipriani fu uno dei firmatari, insieme a zoologi, medici, fisiologi, demografi, del manifesto degli scienziati razzisti del 1938.
Cipriani realizza i calchi direttamente sul vivente con lo scopo di studiare la variabilità umana, ritenendo questo approccio più efficace del mezzo fotografico. Ma non era il solo, perché le collezioni storiche di busti e calchi facciali sono numerosi e diffuse in tutti i musei antropologici ed etnografici del mondo.

Le classificazioni di Cipriani, aggiunge Marco Boscolo, autore del libro “La bianca scienza”, erano strumenti di oppressione coloniale. Il risultato è, come afferma l’autore, “una graduatoria delle razze, dalla meno alla più evoluta, con al vertice – ovviamente – la razza europea”.
Qual è l’approccio scientifico sui fossili al giorno d’oggi?
Il tema dell’uso della scienza in chiave coloniale emerge nel fascicolo della rivista internazionale South African Journal of Science dedicato al centesimo anniversario (1925-2025) dalla pubblicazione su Nature del ritrovamento del cranio di Taung, in Sud Africa, da parte di Raymond Dart (1893-1988). Oltre al valore evidentemente straordinario della scoperta che segna la nascita della Paleoantropologia, vengono messi in luce anche aspetti che non erano finora mai emersi nella comunità scientifica legati a un processo di decolonizzazione dell’antropologia: l’approccio degli scienziati occidentali a quei luoghi ripercorreva il modus operandi dell’espansione coloniale. La maggior parte dei ritrovamenti di resti fossili venivano realizzati da gruppi europei e americani in Africa. Un tema quindi molto attuale e discusso in ambito paleoantropologico è la cosiddetta “helicopter research” o “neo-colonial research”, ossia quell’approccio per cui Paesi e Università più ricchi sorvolano, atterrano in luoghi più remoti e isolati e con minori risorse, prelevano campioni e tornano a casa senza coinvolgere la comunità o le Università locali. Bisogna quindi riflettere sul modo di fare scienza.
“Per alcune comunità indigene è noto che gli studi archeologici e antropologici hanno costituito una seconda ondata di colonialismo. La scienza è stata spesso vista come un ulteriore veicolo di oppressione anche a causa della percezione di scienziati e scienziate intenti a studiare popolazioni «altre»” (Paola Govoni, Maria Giovanna Belcastro, Alessandra Bonoli, Giovanna Guerzoni, 2024, p.61).
Approfondimenti:
La grotta delle meraviglie – Radio 3 Scienza
I resti umani, fra paleoantropologia, bioarcheologia e attualità– Accademia XL
Frassetto: nazionalismo e “razza italica” | Intervista a Maria Giovanna Belcastro e Roberto Balzani
Belcastro, M.G.; Pietrobelli, A.; Nicolosi, T.; Milella, M.; Mariotti, V. Scientific and Ethical Aspects of Identified Skeletal Series: The Case of the Documented Human Osteological Collections of the University of Bologna (Northern Italy). Forensic Sci. 2022, 2, 349-361. https://doi.org/10.3390/forensicsci2020025
Govoni, M. G. Belcastro, A. Bonoli, G. Guerzoni, Ripensare l’Antropocene, Carocci editore, 2024
Belcastro MG, Nicolosi T, Sorrentino R, Mariotti V, Pietrobelli A, et al. (2021) Unveiling an odd fate after death: The isolated Eneolithic cranium discovered in the Marcel Loubens Cave (Bologna, Northern Italy). PLOS ONE 16(3): e0247306. https://doi.org/10.1371/journal.pone.0247306
Belcastro MG, Mariotti V. (2021) The place of human remains in the frame of cultural heritage: the restitution of medieval skeletons from a Jewish cemetery. Journal of Cultural Heritage, https://doi.org/10.1016/j.culher.2021.04.002.
Immagine in apertura: Romina Clara, CC BY-SA 4.0, via Wikimedia Commons

Dopo la laurea magistrale in Neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2015, ho conseguito il Dottorato di ricerca in scienze biomediche sperimentali all’Università di Padova nel 2020. Da ottobre 2019 sono un’insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ad ottobre 2022 ho concluso il Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Parma, grazie al quale ho iniziato a collaborare con Pikaia.

