Antico DNA, nuove cure

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Al di là delle vaste applicazioni antropologiche e paleontologiche, lo studio del DNA antico potrebbe aprire innovative prospettive anche in campo medico

Negli ultimi anni, la genetica ha esteso la propria ricerca verso un nuovo ed eccitante orizzonte: il passato. Le pratiche che consentono agli studiosi di analizzare genomi risalenti a decine, centinaia, migliaia di anni fa hanno preso forma in una disciplina sempre più prominente nella discussione scientifica, la paleogenomica; non è un caso se il suo padre riconosciuto, Svante Pääbo, si sia guadagnato il premio Nobel per la Medicina o Fisiologia 2022.

La paleogenomica si è messa al servizio, in particolare, dell’antropologia: lo studio del DNA antico ha permesso più volte di tracciare discendenze altrimenti impossibili da ricostruire. Quando gli esperti dei genomi antichi non sono impegnati con domande ponderose come “da dove veniamo?”, possono anche aiutare a risolvere questioni di interesse più pratico.

Un commento uscito su Nature Medicine tratta proprio di questo: sviluppi e possibilità della paleogenomica come mezzo per avanzare la ricerca medica. Autori del commento sono i genetisti evoluzionisti Gaspard Kerner, Lluis Quintana-Murci e Jeremy Choin, i primi due dell’Istituto Pasteur di Parigi, il terzo dell’Università di Harvard.

Eredità importanti

Come può il DNA antico informare la medicina? Secondo gli autori in diversi modi, a partire dallo studio della fisiologia umana. Quello che definiscono più ovvio, al punto che sembra quasi superfluo nominarlo, è l’identificazione di materiale genetico che ha subito introgressione dai Neanderthal. Nel caso non fosse stato poi così ovvio, l’introgressione in genetica è quel fenomeno per cui geni di una specie vengono incorporati nel pool genetico di un’altra specie, conseguenza in questo caso delle ormai note ibridazioni tra i nostri antenati e altri Homo.

Gli autori arguiscono che tali geni, essendo sopravvissuti attraverso innumerevoli generazioni per arrivare fino a noi, hanno buone probabilità di avere funzioni chiave nella sopravvivenza umana, aventi a che fare in primo luogo con la resistenza ai patogeni.

In effetti, diversi studi hanno trovato livelli importanti di eredità sia dai Neanderthal che dai Denisova in geni implicati nella risposta immune. Un caso assurto agli onori di cronaca è quello di un aplotipo (un insieme di alleli che tendono a essere ereditati insieme) proveniente dai Neanderthal che conferisce resistenza contro casi gravi di COVID-19.

Secoli di coevoluzione

Come preda e predatore fanno a gara per evolvere gli strumenti adatti a cacciare o sfuggire all’altro, così noi umani ci siamo evoluti di pari passo ai nostri patogeni, in un continuo processo di coevoluzione (l’evoluzione reciprocamente influenzata di due specie che interagiscono nell’ambiente).

Il DNA antico può fare luce sulle basi genetiche di tali interazioni, grazie in particolare alle cosiddette serie temporali di DNA antico: si tratta di analisi che prendono in considerazione anche migliaia di genomi risalenti a un intervallo di tempo più o meno lungo, e che permettono di ricostruire le tendenze evolutive che hanno gradualmente mutato i genomi in quel periodo, anche in relazione a particolari eventi come, ad esempio, un’epidemia.

Quali saranno le varianti genetiche che, in tal modo, si vedranno diminuire nel tempo, ovvero subire una selezione negativa? Innanzitutto, quelle che incrementano la suscettibilità a una malattia, come l’omozigosi P1104A nel gene della tirosin chinasi 2 fa per la tubercolosi; la variante, non a caso, è diminuita molto dall’età del bronzo. A diminuire saranno anche, più in generale, varianti correlate a patologie del sistema immunitario.

Le varianti che conferiscono un qualche tipo di protezione, al contrario, vanno incontro a selezione positiva. Di solito, è molto difficile correlare tali varianti a un patogeno specifico, ma merita una menzione l’individuazione di alcune varianti che sembrano aver aiutato le popolazioni medievali a sopravvivere alle epidemie di peste nera.

Il futuro nel passato

Le possibilità del DNA antico in medicina non si esauriscono qui. Secondo gli autori, le nuove metodiche permetteranno di identificare varianti sempre più rare e potenzialmente implicate in patologie immuni.

Il motivo per cui è importante identificare tutte queste varianti è che possono diventare target di terapia genica; quando si interferisce con la funzione di un qualunque gene, tuttavia, si può incappare in effetti collaterali inaspettati a causa del pleiotropismo, il fenomeno per cui un gene tende a influenzare tratti fenotipici diversi, anche non apparentemente correlati. Gli autori sostengono che la paleogenomica potrebbe aiutare a fare luce proprio su questo aspetto, aumentando quindi le probabilità di successo delle terapie.

Non abbiamo nemmeno parlato della possibilità di studiare i genomi dei microorganismi, oltre che quelli dei loro ospiti. Non sono solo i patogeni che meritano di essere studiati: uno studio ha dimostrato che è possibile analizzare i genomi di antichi microbioti intestinali in campioni di feci fossilizzate. Il valore di queste analisi è di informare sull’evoluzione dell’antibiotico resistenza, una delle maggiori sfide che la medicina moderna deve affrontare.

Il commento si conclude con una famosa citazione del genetista Theodosius Dobzhansky, originalmente riferita alla biologia, riadattata: “Nulla ha senso in medicina, se non in luce dell’evoluzione”.

Riferimenti:

Kerner, G., Choin, J. & Quintana-Murci, L. Ancient DNA as a tool for medical research. Nat Med (2023). https://doi.org/10.1038/s41591-023-02244-4

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