L’attualità del DNA antico: intervista alla prof.ssa Silvia Ghirotto

La ricerca di base, il ruolo della paleogenetica nello studio dell’evoluzione umana e la rappresentazione (e rappresentanza) delle donne nelle scienze biologiche sono i temi principali di questa conversazione con la genetista Silvia Ghirotto.

I toscani non discendono dagli Etruschi. Com’è possibile? Grazie allo studio del DNA antico si può rispondere ai quesiti irrisolti della storia e dell’archeologia e ricostruire le relazioni genealogiche tra popolazioni antiche e moderne. Per la rubrica “l’evoluzione non ha genere”, improntata sul contributo delle scienziate allo sviluppo dell’evoluzionismo, abbiamo intervistato la prof.ssa Silvia Ghirotto, dell’Università di Ferrara e presidentessa della Società Italiana di Biologia Evoluzionistica, un’associazione scientifica che favorisce la corretta divulgazione della evoluzione biologica. 

Il premio Nobel per la Fisiologia o Medicina 2022 è stato assegnato al paleogenetista Svante Pääbo “per le sue scoperte riguardanti i genomi degli ominidi estinti e l’evoluzione umana”. Pikaia si è occupata diverse volte delle ricerche condotte da Pääbo e dal suo gruppo. Il prof. Telmo Pievani ha definito tale Nobel “una scelta coraggiosa e pionieristica dell’accademia svedese”. 

È davvero una scelta coraggiosa. Non è un paleogenetista qualunque, ma il padre della paleogenomica, una scienza di base. Si tratta, infatti, di uno dei pochi Nobel per la medicina ad uno scienziato che si occupa di ricerca di base, ossia il presupposto delle scienze applicate. La ricerca di base alimenta la conoscenza e rende possibile l’applicabilità della scienza stessa. Svante Pääbo è stato rivoluzionario: ha reso possibile seguire le molecole della vita originatesi 4,5 miliardi di anni fa. Il solo pensiero che le molecole di oggi siano il risultato di un processo iniziato 4,5 miliardi di anni fa e frutto di interazioni con l’ambiente, mutazioni, cambiamenti su cui agiscono le forze dell’evoluzione, suscita in me forti emozioni.

Studiare il flusso di geni verificatosi durante le migrazioni dei nostri antenati, influenza, per esempio, le modalità con cui reagisce alle infezioni il nostro sistema immunitario o la capacità di vivere meglio alle alte altitudini. 

Non possiamo esimerci dal guardare i meccanismi evolutivi che hanno portato la vita ad essere com’è oggi. La biologia evolutiva non ci permette solo di conoscere il passato, ma ha un forte impatto sul nostro presente. La paleogenomica consente di comprendere alcune caratteristiche importanti per l’adattamento (per esempio, patogeni, allergie e ambienti estremi). Il conferimento del Premio Nobel a Svante Pääbo è attuale e ha aperto una finestra sul mondo che, forse, la maggior parte delle persone non conosceva. 

 Quali sono le domande ancora aperte e più urgenti? 

La sfida principale è quella di recuperare quante più informazioni possibili sulle popolazioni paleolitiche o neolitiche con una conoscenza del genoma a maggiore copertura. Potremmo conoscere in maniera più raffinata come le migrazioni recenti abbiano contribuito a plasmare la variabilità genetica delle popolazioni umane, come abbiano favorito adattamenti locali a contesti ambientali. La paleogenomica ci regalerà una migliore comprensione della nostra storia e del presente. 

L’uomo è un animale migrante” ci insegna Guido Barbujani. Guardando al passato, per esempio al periodo dei Longobardi, il genoma mitocondriale ha evidenziato che gli abitanti dell’epoca di Collegno avevano molta più affinità genetica con gli odierni ungheresi che con gli italiani. La genetica di popolazioni aiuta ad avere uno sguardo più ampio sulla demografia e, a volte, potrebbe sconvolgere presunte sicurezze storiche. 

Quando si parla di evoluzione umana è facile associare ad una spiegazione biologica o antropologica, un dato storico che lo può confermare. La paleogenomica consente di ricostruire il puzzle della nostra storia passata e diventa uno strumento per risolvere dubbi che le fonti classiche (storiche e archeologiche) non riescono a sciogliere. Le fonti classiche, però, sono riferimenti culturali, e la cultura può spostarsi. I casi possibili, infatti, possono essere due: ha luogo una diffusione di cultura senza spostamento biologico di persone oppure si verifica una diffusione culturale mediante una migrazione. Questi due modelli non possono essere discriminati solo su base storica. La genetica di popolazioni ha dato un contributo cruciale alla comprensione dei fenomeni migratori all’interno della popolazione longobarda. A volte, le fonti storiche e archeologiche da sole non riescono a rispondere pienamente alle domande che ci poniamo. 

I toscani non discendono dagli Etruschi. Lo conferma anche un suo lavoro del 2013, da cui si evince che la maggior parte degli abitanti delle terre occupate in origine dagli Etruschi non sono loro discendenti. Può spiegarci brevemente quale tipo di indagine si svolge?  

Se si pensa che gli Etruschi siano i diretti antenati dei toscani, allora ci saranno molte sequenze genetiche identiche a quelle del passato. E invece no. La Toscana non è abitata da persone geneticamente identiche: il genoma è costituito da componenti diverse e l’uguaglianza Etruschi = Toscani è errata. L’analisi del DNA antico ci ha fatto capire che non c’è sempre continuità genetica tra la popolazione antica e quella moderna che abita lo stesso territorio. Le continue migrazioni sono alla base della discontinuità genetica. Si commettono errori considerando solo la popolazione moderna per riferirci al passato. In conclusione, all’interno della popolazione generale, non è corretto dire che i moderni toscani siano i discendenti degli Etruschi. 

Lo studio dell’evoluzione, della bioarcheologia, della paleoantropologia non è esente dal fenomeno delle fake news. Quando si parla dell’Homo sapiens e della sua evoluzione, le fake news alimentano fenomeni sociali preoccupanti. È solo una questione di comunicazione della scienza? 

La scienza, in realtà, dovrebbe aiutare a ‘defomentare’ l’odio razziale. Forse, manca la consapevolezza che in passato, in Europa, le persone avevano la pelle scura. Sembra, infatti, che la pelle chiara sia arrivata nel periodo neolitico. I risultati delle più recenti evidenze scientifiche nella disciplina di mia competenza si prestano a dinamiche sociali. Ecco, quindi, che c’è anche una responsabilità da parte degli scienziati: spesso, si è presi dal lavoro di ricerca e si dedica poco tempo alla comunicazione scientifica e alla divulgazione. La genetica di popolazioni può dare un contributo sociale perché la scienza mostra un dato oggettivo, dà un contributo forte. Per esempio, il termine ‘razza’ è inconsistente sotto diversi punti di vista: non ha alcun significato biologico e neanche dal punto di vista farmacologico. La razza è un costrutto sociale, che per lungo tempo ha rappresentato la base della medicina razziale, cioè della diversa reazione alle terapie in base alla razza. La genomica ha sfatato anche questo mito. Le popolazioni hanno certamente una variabilità nella risposta ai farmaci, una variabilità che è presa in considerazione dalla cosiddetta medicina individuale.  

 Quali sono le difficoltà di lavorare con il DNA antico?  

La difficoltà principale è quella di lavorare, spesso, con DNA antico di bassa qualità. Purtroppo, quando si lavora con i reperti antichi, il campione potrebbe presentare DNA degradato e non essere in uno stato ottimale. Infatti, a partire dalla morte dell’individuo vi sono sequenze di eventi, chiamate complessivamente degradazioni post-mortem, che riducono la qualità della molecola di DNA. Questi eventi consistono principalmente nella frammentazione della molecola di materiale genetico. Possiamo paragonare il processo alla lettura di testi. Quando si legge l’informazione del genoma (nel gergo di laboratorio si dice ‘sequenziare’) da un campione biologico moderno è come se si leggesse una poesia; quando si ha un campione antico, si ha un testo sconosciuto in cui le righe, a cui mancano delle parole, si devono mettere in ordine. A questo bisogna aggiungere altri due grandi problemi del DNA antico: la contaminazione batterica e quella dell’operatore. Infatti, i batteri hanno un proprio DNA, così come l’operatore umano potrebbe contaminare inavvertitamente il campione con il proprio materiale genetico. Quindi, bisogna isolare il DNA antico, chiamato DNA endogeno, da quello esogeno.  

Per ricostruire la storia delle popolazioni all’interno di una specie e le relazioni filogenetiche all’interno dei taxa sono necessari diversi tipi di analisi, sia a livello morfologico che molecolare. Ci sono regioni del corpo umano dove è più facile trovare DNA antico di buona qualità per condurre tali studi? 

Il paleogenetista può recuperare materiale genetico (il DNA antico) da diverse regioni anatomiche di un reperto fossile. Il lavoro sarà più agile e informativo partendo da un reperto fossile con DNA endogeno maggiore. Il DNA endogeno è stato ottenuto dalle ossa lunghe, perché molto abbondanti, e con successo anche dai denti, sia dalla dentina sia dalla radice. Quest’ultimo è stato certamente un passaggio migliorativo perché consente di estrarre DNA antico meno contaminato. La svolta rivoluzionaria è giunta tra il 2014 e il 2015: i lavori di Cristina Gamba, Morten Rasmussen e Ron Pinhasi hanno evidenziato che l’elemento scheletrico umano che contiene la più alta quantità di DNA endogeno è la rocca petrosa dell’osso temporale (pars petrosa). Questa nuova fonte di DNA antico si trova alla base del cranio, tra l’osso sfenoide e l’osso occipitale, andando a costituire la porzione endocranica dell’osso temporale che accoglie i delicati organi dell’udito e dell’equilibrio. L’elevata densità di DNA antico in tale regione anatomica è associata ad un suo ridotto deterioramento causato dai batteri e dai processi post-mortem. La spinta di tale scoperta è stata enorme: si è passati dalla genetica del DNA antico alla genomica del DNA antico. E lavorare con grandi quantità di DNA antico e di migliore qualità ha anche risvolti economici positivi perché si spendono meno soldi per ottenere un buon sequenziamento. Parallelamente si è assistito allo sviluppo di tecniche microinvasive per non inficiare gli aspetti importanti per l’antropologia (lo studio dei crani). 

Generalmente, i libri di testo scolastici hanno un approccio evoluzionistico da un unico punto di vista, quello maschile. Le bambine e le ragazze che leggono e studiano sui libri scolastici trovano, molto spesso, solo scienziati. La SIBE (Società Italiana di Biologia Evoluzionistica) è nata allo scopo di rafforzare i legami scientifici tra i biologi evoluzionisti italiani attivi in tutto il mondo e di promuovere a tutti i livelli la diffusione delle conoscenze relative all’evoluzione biologica. La società è particolarmente attenta al mondo della scuola, dove l’insegnamento dell’evoluzione è stato fortemente ridimensionato nei libri di testo e nei programmi. Tuttavia, studentesse e studenti gioverebbero di un racconto diverso e paritario per allontanare stereotipi di genere che pesano ancora. Quali obiettivi si pone la SIBE riguardo a questo tema? 

La SIBE è stata sempre più attenta alla parità di genere come formazione del direttivo e sono molto contenta di essere la prima presidentessa di una lunga serie dopo di me. Prestiamo attenzione alla gender equality nei congressi, nelle attività, nel conferimento delle borse di studio ecc. Credo ci sia un leggero miglioramento nei libri di testo scolastici: vi sono, per esempio, anche rappresentazioni di bambine e ragazze che praticano la scienza.  

Se esiste un luogo ideale e figurato in cui si possono combattere gli stereotipi di genere e offrire esempi paritari alle nuove generazioni, quello è il mondo della scienza. Sono numerose le scienziate valide e, se c’è la volontà, non si fatica a trovarle come guest speaker (relatore ospite) nei panel dei congressi 

È mio intento impegnarmi anche nella comunicazione delle storie di scienziate che hanno avuto un ruolo importante nell’ambito di ricerca di cui mi occupo, per lo più assenti anche nei libri di testo universitari. In questo intento la rubrica di PikaiaL’evoluzione non ha genere” sarà uno strumento prezioso. È uno sforzo che dobbiamo fare. Lo dobbiamo alle scienziate del passato. Lo dobbiamo alle studentesse e agli studenti di oggi e domani.  

Lei insegna genetica e genetica molecolare, genomica ed evoluzione umana, tecnologie genomiche e farmacogenetica nei corsi di laurea in scienze biologiche e biotecnologie. Secondo il profilo dei laureati 2021 di Almalaurea del dipartimento di scienze della vita e biotecnologie dell’università di Ferrara, il 74% dei laureati è rappresentato da donne. Per quanto riguarda la prosecuzione della carriera accademica, in quest’ambito si assiste allo stesso fenomeno, comune a diversi campi del sapere, descritto da un grafico ‘a forbice’ del report She figures 2021 (pagine 183-184).

È stata scardinata la concezione delle ‘facoltà femminili e maschili’, ma si può ancora lavorare sulle bambine e sui bambini, sulle ragazze e sui ragazzi per quanto riguarda le carriere professionali. A un certo punto della carriera scientifica femminile c’è una regressione. Conta, forse, il fatto di essere in un mondo prettamente maschile, dove ai vertici vi sono uomini che tendono a scegliere altri uomini? Probabilmente sì. Attualmente, credo manchino la possibilità e l’aiuto concreto che dovrebbero esserci quando una persona, arrivata ad un certo punto della carriera, vuole crearsi una famiglia. Nella carriera scientifica di una donna potrebbe esserci un momento in cui si vacilla, sia come madre che come scienziata. Da un lato, si ha il desiderio di diventare madre, ma non ci si sente abbastanza come tale perché si pensa alla scienza; dall’altro lato, non ci si sente abbastanza scienziata perché si pensa al proprio/a figlio/a. Non manca il supporto economico, ma quello pratico. Per esempio, si potrebbe pensare, al rientro dalla maternità, all’attribuzione di fondi per la ripresa. Quando si è precari, la situazione è ancora più delicata: potrebbe rendersi necessaria la difficile scelta tra l’eventuale desiderio di essere madre e la prosecuzione della carriera. La crescita professionale di una donna non dovrebbe essere limitata dal desiderio di essere madre e di voler lavorare, né tanto meno dovrebbe essere rappresentata da stereotipi femminili perché si tratterebbe, in realtà, di stereotipi maschili: la donna in carriera poco attenta ai figli perché c’è il papà, per esempio. Bisogna costruire un welfare che supporti la donna nella fase cruciale della sua carriera e che non la costringa a dover necessariamente scegliere tra il lavoro o la famiglia. Bisogna costruire un tessuto sociale che permetta alle famiglie, ad entrambi i genitori, di realizzarsi pienamente.

Per approfondire:

Immagine: Grafica di Carmen Troiano